domenica 14 giugno 2015

GIO' E IL CARRELLO PER LA SPESA (VERSIONE 2015, DEFINITIVA)

La mattina del ventotto giugno del 1998 un robusto dodicenne - Giò era il suo nome - vide vicino ad un cassonetto dell'immondizia, in un angolo buio di una piccola strada della città ai piedi delle colline, un carrello della spesa.
Era uno di quelli che si trovavano nei grandi centri commerciali di periferia, con quattro piccole ruote girevoli, la resistente gabbia di metallo, il piccolo sedile per i bambini. Sulla barra dal quale solitamente lo si spinge in avanti e indietro, la scritta del supermercato era illeggibile; inoltre mancava del tutto la solita catena che legava un carrello ad un altro e dove si inseriva la moneta da cinquecento lire.
Era forse il modello di carrello da supermercato più grande in circolazione. Il ragazzo lo prese e lo portò via, spingendolo a fatica, perché le ruote erano un po' bloccate.
Abitava in una piccola villa a due piani nel punto più alto della collina; suo padre era il guardiano del parco dove una grande statua detta Il Faro della Vittoria dominava il paesaggio cittadino. L'unico modo per arrivare a casa era quello di prendere il pullman, ma Giò non aveva intenzione di separarsi dal suo nuovo amico - l'autista del pullman non l'avrebbe mai fatto salire con quel grosso carrello - così lo spinse con tenacia in salita per tutto il giorno, pensando fosse l'unica cosa da fare e che a nulla sarebbero servite le urla del padre :
Che fai co' sto coso? L'hai rubato? Riportalo subito dov'era!”
Anche la madre, maestra a scuola e a casa, lo avrebbe sgridato:
Riportalo indietro, nell'immondizia, oppure donalo a qualche negozio nel paese vicino!”
Giò, che aveva le gambe corte e non praticava nessuno sport, giunse a casa con tanta fatica – l'altitudine della collina era poco oltre i settecento metri – uno sforzo per lui impensabile. Prese pure le strade più complicate ma meno frequentate dalle automobili.
Nel tardo pomeriggio entrò nel minuscolo giardino di casa e nascose il carrello nel retro, dietro un cespuglio, di fronte alla finestra della sua stanzetta, che si trovava al piano terra.
A tavola, durante la cena, la luce del sole di un colore arancio fortissimo faticava ad entrare; la madre guardava il telegiornale, il padre, che aveva lavorato tutto il giorno nel parco, si sedette e disse al figlio:
Domani butti via quel coso” ma il ragazzo non rispose.
Il mattino seguente Giò prese il carrello con l'intenzione di nasconderlo in un altro luogo. Aveva deciso di pulire e sgrassare le ruote con dell'olio raffinato, in modo da renderle più scorrevoli. Nel retro di un ristorante vicino casa lavorò tutto il giorno. Il proprietario e i camerieri, che lo conoscevano bene, non gli chiesero nulla su cosa diavolo stesse facendo con quel carrello. Terminato il lavoro ci si mise dentro, dopo che per un'ora l'aveva fissato quasi incantato. Infine si addormentò come un bambino nella propria culla.
Al risveglio l'aria era più fresca, il vento muoveva i rami di una grande quercia e lui e il carrello rimasero immobili lì sotto. Doveva prendere una decisione, la cena si avvicinava; il nuovo amico aveva bisogno di un nascondiglio, oppure avrebbe potuto chiedere ai suoi genitori di tenerlo ancora per un po'. Ma gli mancava il coraggio. Inoltre non sapeva proprio come avrebbe potuto abbozzare un discorso con loro; il giovane non era certo un chiacchierone, spesso sbagliava i verbi, come avvenne una volta a scuola durante una interrogazione in grammatica italiana, quando tutta la classe rise di lui. Ma chissenefrega della scuola e della lingua italiana, pensò; ora è estate, per me e per il carrello della spesa!
Era quasi ora di cena, doveva tornare a casa e non ne aveva voglia. Durante tutto il caldo pomeriggio aveva pensato al luogo del possibile rifugio, magari provvisorio; spingendolo a mano per la strada principale trovò in una traversa, una stradina in discesa, tutta dritta, ben asfaltata, molto ripida, lunga un centinaio di metri, che terminava unicamente davanti al sontuoso cancello di una grande villa abbandonata. Di fronte a questo cancello arrugginito c'erano - male allineati - quattro bidoni dell'immondizia in disuso; più o meno al centro di questi - appoggiati - due materassi posti in orizzontale. Giò si gettò dentro il carrello e, senza esitare, si lanciò giù. Fu una corsa in discesa che durò qualche decina di secondi. Il carrello prese molta velocità solo negli ultimi venti metri; scorreva dritto, senza sbandare, e si schiantò frontalmente contro quei materassi sporchi.
Due piccioni grigi, appoggiati sui bidoni, volarono via. Giò teneva le mani strette ai due lati del carrello. Aveva il sedere leggermente sollevato. Respirava affannosamente. Il carrello non si era nemmeno ammaccato, e lui lo stesso, nessun colpo subìto, nessun graffio.
Aveva compiuto una piccola impresa. Non aveva preso né sassi né buche, anche se erano presenti in più punti della strada. Le ruote le aveva preparate bene, rendendole molto scorrevoli. Aveva mantenuto la posizione giusta e non aveva mosso di un solo millimetro il suo corpaccione che occupava giusto la metà dello spazio dentro il carrello. Ma ogni tentativo di spiegazione logica perdeva significato, poiché il ragazzino aveva agito d'istinto, ed era stato semplicemente molto fortunato. Appoggiò la testa contro la parte posteriore e fece un lungo respiro. Portava una maglietta color rosso, ora tutta bagnata dal sudore.
D'improvviso si alzò un forte vento. Doveva ritornare a casa, ma non ne aveva voglia. E poi il carrello sarebbe rimasto lì, da solo, di nuovo tra i rifiuti. Non aveva paura che qualcuno glielo portasse via, questo no, anche perché era una zona abbandonata (un vecchio cartello segnalava la strada come 'privata'). Nemmeno le giovani coppiette chiuse in auto la usavano per nascondersi: troppo ripida la strada, la risalita sarebbe stata più faticosa del loro amplesso.
Durante la cena il ragazzo non disse nulla. La televisione, ad alto volume, trasmetteva vecchi spezzoni di partite di calcio. Quella sera nessuno dei tre aprì bocca, anche se era una cosa abbastanza normale; il padre, visibilmente stanco, beveva un po' di vino rosso, mentre la madre sbucciava con cura la terza o la quarta mela. Poi andarono tutti a dormire, presto. Giò non vedeva l'ora di tornare dal suo carrello e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Ripensò alla discesa spericolata e a quanto lo avesse eccitato. Non aveva mai provato, nella sua breve esistenza, un'emozione così forte. Per la prima volta aveva trovato qualcosa che lo appassionasse veramente al punto tale da togliergli il sonno. A differenza dei suoi coetanei di dodici-tredici anni, non gli interessavano il calcio o altri sport. Rispetto a loro ascoltava altra musica, come il rock 'n' roll, poiché uno zio, che viveva a New York e diceva di avere due hotel, gli aveva regalato delle cassette quando era venuto a trovarli in collina. Inoltre gli aveva lasciato una raccolta di canzoni presenti nella colonna sonora del film American Graffiti. Giò seguiva anche il wrestling, ma nella sua stanza non aveva poster né di cantanti né di lottatori e comunque la madre non gli avrebbe permesso di insozzare la preziosa tappezzeria azzurra con quella cartaccia. I film li vedeva in televisione, quelli che capitavano: preferiva i film comici e quelli d'avventura, ma sentiva di non avere una fissa per un attore o un film in particolare.
Di sua spontanea volontà aveva letto solo qualcosa di Verne e un libro di Stevenson, gli autori preferiti dal padre, ma Giò li leggeva a fatica e raramente ne finiva uno. E alla classica domanda, “Allora, sentiamo un po': che lavoro vuoi fare da grande?”, fatta dalla maestra in quinta elementare, lui fu l'unico a non sapere cosa rispondere; e ancora una volta tutta la classe rise, compresa la giovane maestra, che poi aggiunse: “magari farai il custode di quel bellissimo parco dove c'è la statua con il faro no?”, che poi sarebbe stato più corretto dire 'guardiaparco'.
Stessa cosa per i primi innamoramenti. Non c'era una ragazzina che gli piacesse più di un'altra, e per nessuna aveva ancora sofferto. I suoi compagni di prima media cominciavano a mettersi insieme, magari per qualche settimana, con le varie Gaia e Lorella o Roberta, e in quel periodo erano capaci di parlare solo di loro. Lui però era diverso; per esempio, durante una lezione in classe, mentre guardava fuori dalla finestra o chiudeva gli occhi un momento, immaginava di baciarne almeno dieci o venti alla volta, e così, a fine mattinata era un po' come se si fosse fatto mezza scuola, comprese Gaia, Lorella e Roberta.
Una volta una ragazzina di terza media di nome Evaluna l'aveva baciato per davvero, e sulla bocca - senza però usare la lingua - durante il classico gioco della bottiglia. Era stata l'unica a dirgli di sì, e dopo il fatto, quasi a giustificarsi dinanzi alle sue amiche incredule e un po' schifate, lei disse che certamente Giò aveva un fisico orribilino - usò proprio questa parola la bimba - ed era anche un po' cicciottello, con una testa simile ad una palla da bowling, il collo quasi attaccato alle spalle, ma a suo vantaggio, e forse questo annullava tutte le cose negative, aveva gli occhi verdi più incantevoli che lei avesse mai visto in circa quattordici anni di vita. Va aggiunto ancora - ma su questo argomento Evaluna non si pronunciò - che Giò era uno dei maschi più bassi della scuola.
Il mattino seguente tornò in quella via ripida dal suo amico carrello, portandosi con sé
- infilati dentro lo zainetto - due panini al formaggio e prosciutto, una bottiglia da un litro di acqua frizzante, il walkman e una cassetta con canzoni registrate dalla radio - le hit del momento, come un pezzo dei Fastball dal titolo The way, ma anche qualche brano di Jerry Lee Lewis, un libro di grammatica inglese (per tenere buona la madre) e una catena tipica per bloccare le biciclette, con un grande lucchetto; alla fine della giornata avrebbe voluto legare il suo carrello per la spesa al vecchio cancello della villa abbandonata.
Per prima cosa lo spostò all'ombra di un pino, l'unico albero presente; per il resto, intorno a sé, aveva solo sterpaglia secca. Dopo di che si mise dentro il carrello ad oziare. Le cicale erano rumorose, ma a Giò piacevano perché gli sembravano un'orchestra. Quella sua stradina era un luogo perfetto, un rifugio dal mondo, il suo mondo dove nessuno lo avrebbe mai trovato, genitori compresi. Durante il giorno, comunque, i suoi lo lasciavano libero, almeno in estate, purché dimostrasse alla madre, la domenica sera, di aver fatto parte dei compiti.
Verso le tre, dopo aver mangiato uno dei due panini, scese dal carrello, lo spinse una decina di metri più su, nella parte conclusiva della stradina; poi lo posizionò verso i bidoni dell'immondizia e i materassi. D'impeto si gettò dentro. Il carrello cominciò la sua discesa, ma solo per pochi secondi, poiché la sua parte posteriore finì tutto in avanti: le ruote di dietro si bloccarono, il carrello si rovesciò e cadde in terra. Giò non si fece nulla. Fortunatamente il percorso era stato troppo breve. Lo rimise su. Rientrò dalla parte posteriore e, mettendosi a pancia in giù - con la testa in avanti quasi a sfiorare la gabbia anteriore e con le mani contro di essa - dopo aver nuovamente indirizzato il carrello al punto giusto, lo tenne fermo con i suoi piedi; infine si lasciò andare. Finì contro i materassi a scarsa velocità. Si trattava di pochi metri di discesa, forse nemmeno cinque, e poi una decina di metri in pianura fino a quei bidoni davanti al cancello.

E così trascorse tutta l'estate in quella stradina abbandonata, con un solo albero come riparo dal sole, a tentare discese pazze con il suo carrello. Aveva ripulito la strada dai sassi - anche quelli più piccoli - con una scopa. Fortunatamente le buche - tutte minuscole - erano presenti solo ai bordi della strada. Dalla cantina Giò aveva preso altri due vecchi materassi, ora disposti orizzontalmente, uno messo al centro e tre dietro, appoggiati ai bidoni dell'immondizia, come a formare un muro prezioso.
Quando decideva di partire dalla cima della ripida salita, doveva guardarsi alle spalle per vedere che sulla strada principale non passasse nessuna automobile; chissà cosa avrebbero pensato quelli alla guida o altri passanti: forse ad un suicida, ad un folle da fermare. Sarebbero intervenute le forze dell'ordine, i servizi sociali, la sua famiglia: tutti quanti lo avrebbe svegliato dal suo sogno.
Per tutto luglio e agosto, Giò riportò piccole ferite, soprattutto graffi alle braccia e alle gambe, ma era anche bravo ad inventarsi scuse: ai suoi genitori raccontava di passare le giornate nel parco e che qualche volta, prendendo sentieri improbabili, gli capitava di cadere e farsi male. Il padre, però, diceva di non vederlo mai; effettivamente il luogo era vasto, con centinaia di sentieri che forse neanche l'uomo poteva conoscere.
Nonostante alcune volte il ragazzino cadesse con il suo carrello, non mise mai un casco o cose simili, per principio: lui voleva scendere senza finzioni, vestito in modo semplice, un po' sportivo, come se dovesse fare una normale passeggiata, con scarpe da ginnastica, pantaloncini e maglietta. Trascorreva le ore più calde della giornata dentro il carrello, sotto l'ombra mutevole del pino, a fare i compiti, tanto per tenere buona la madre. Nelle giornate di fine agosto provò alcune discese dopo forti piogge e andò tutto bene. La musica l'ascoltava qualche volta, tanto per caricarsi, però durante la discesa doveva esserci silenzio. A volte gli capitava di fissare la sua strada per delle ore; la studiava con cura. Aspettava il momento giusto, magari che il vento cessasse, soprattutto se era forte e di traverso. Quando il cielo era sereno andava meglio; ma una nuvola che passava davanti al sole o si fermava poteva essere un autentico rischio per la sua visibilità. Un cambiamento improvviso avrebbe potuto distrarlo, privandolo della giusta posizione, e quindi farlo cadere in terra. Ma in poco tempo era diventato più accorto e concentrato; non era più quello degli esordi.
E non aveva paura. Quando entrava dentro il carrello e si buttava per quelle discese, si sentiva sicuro e felice come non lo era stato mai in vita sua; il senso delle sue giornate finiva lì, nel momento in cui il sole tramontava.
Peccato che non facciamo mai le vacanze estive, quest'anno te le saresti meritate davvero!” disse la madre una sera, contenta perché il figlio aveva finito tutti i compiti a pochi giorni dall'inizio della scuola.
Una volta sola erano andati in vacanza, quando Giò era ancora troppo piccolo per ricordare. Trascorsero quasi un'intera estate in una piccola frazione di mare vicino Tropea, ospiti di una vecchia zia del padre. Ma la donna non poteva certo sapere che il ragazzo stava già viaggiando - a modo suo - tutti i giorni, ed era felice così, forse almeno quanto i suoi compagni in vacanza ad Alassio, a Londra o in Australia.

L'arrivo di settembre e della scuola furono per Giò un vero fulmine a ciel sereno. Lui non era più lo stesso e niente - dopo quell'estate - avrebbe avuto senso per davvero se non quelle pazze discese in cui si riempiva i polmoni di un'abbondante provvista d'aria. Ma non sarebbe stata la fredda temperatura, il clima ostile, l'inverno e la neve, le giornate brevi, con poca luce, a fermare le sue gioie con il carrello, bensì le ore perdute nelle aule scolastiche, il ritorno a casa a pranzo, il pomeriggio, la cena, e poi l'inutile sonno durante la notte. Gli sarebbero rimasti il sabato o la domenica, uno di quei due giorni a scelta, poiché almeno uno avrebbe dovuto dedicarlo interamente ai compiti; così scelse il sabato per le faccende scolastiche, che considerava una perdita di tempo - anche se svolgeva sempre con maggiore impegno al fine di non creare sospetti in famiglia - mentre la domenica, che da sempre considerava noiosa, l'avrebbe dedicata ai suoi viaggi, alle sue spericolate discese.
Il luogo era rimasto lo stesso, quella strada isolata dal mondo, a pochi minuti da casa sua; e ogni volta che si buttava giù era come se fosse la prima volta, un evento al quale non rinunciava nemmeno quando aveva la febbre.
Poi con la neve era tutta una cosa a parte. Nell'inverno del 1999 nevicò abbastanza da coprire la sua strada di parecchi centimetri. La prima volta scese a fatica poiché - seppure molle - la neve finiva per superare abbondantemente le ruote e terminare dentro la gabbia del carrello, bloccandolo fin da subito.
Tuttavia, una volta segnato il tracciato - perfettamente diritto - il carrello scendeva adagio e giungeva alla fine della sua consueta corsa. In alcune circostanze, Giò evitò di venire giù quando l'asfalto era troppo ghiacciato, soprattutto se lo era in alcuni tratti; non era così folle - o meglio - se fosse caduto malamente non avrebbe potuto più scendere durante le sue domeniche e nei mesi estivi: con un braccio o una gamba fratturata, o alla peggio un colpo in testa e chissà cos'altro, si sarebbe concluso il suo bel sogno. Ma un giorno l'avrebbe fatto, lo promise a sé stesso e al carrello; gli mancava solamente esperienza, doveva pazientare ancora un po', per questo e per qualcos'altro di più ambizioso.
E a proposito di questa sua insolita attività, lui non ne aveva ancora parlato con nessuno. A scuola era senza amici, ma non aveva nemmeno dei nemici, gente che lo infastidisse. Giò si faceva i fatti suoi, viveva nel suo piccolo mondo silenzioso. Durante l'intervallo rimaneva con i suoi compagni nei corridoi; talvolta li ascoltava distrattamente e rideva alle loro battute. Una volta i suoi compagni di classe lo avevano invitato ad una festa il sabato pomeriggio, in una delle loro case lussuose, spesso situate ai piedi della collina o nel centro storico della città, però lui aveva rifiutato; durante il sabato doveva studiare, in modo da non avere più scomodi impegni di studio per la sua domenica 'santa'.
Solo verso maggio rivelò il suo segreto a colui che reputava un buon conoscente, un certo Richi detto 'il capellone', uno fissato con la musica dei Metallica, un ragazzino che - proprio come Giò - fiatava poco. Quando parlava non si capiva molto, poiché andava troppo veloce; e a tredici anni era lì che citava filosofi tipo Nietzsche.
Giò lo invitò ad una sua esibizione in una domenica già caldissima e abbastanza ventosa. Lo accompagnò in fondo alla stradina - in un lato - chiedendogli di chiudere gli occhi per qualche minuto fino a che non gli avrebbe fatto un urlo. Richi annuì, si accese una sigaretta e chiuse gli occhi. Giò slegò il suo carrello, che teneva sempre attaccato al cancello con la catena per le biciclette; risalì la stradina, ci si mise dentro - facendo anche attenzione che le auto dietro di lui non lo sfiorassero - quindi urlò: “Apri!”. Scese a gran velocità, e anche se il vento era un poco di traverso, rimase in equilibrio, finendo contro i materassi. Tutto era andato a meraviglia.
Richi rimase di pietra, con la sigaretta in bocca che aveva smesso di aspirare. Non disse nulla per qualche minuto, borbottò qualcosa, gesticolando, forse erano delle citazioni filosofiche. Poi lo abbracciò forte.
Il 'capellone' - come detto - era uno che stava per i fatti suoi, con quel faccino da faina, nascosto da lunghi capelli neri. Però il giorno seguente, verso la fine della mattinata, tutti i ragazzini della scuola evidentemente capirono le sue parole, poiché vennero a conoscenza dell'impresa di Giò con il suo carrello.
La notizia si era diffusa durante l'intervallo, e così all'uscita soprattutto i ragazzini dell'ultimo anno gli chiesero spiegazioni; Giò era molto imbarazzato, ma li invitò senza esitazione ad assistere ad una sua discesa per la domenica a venire.
Nessuna ragazzina - invece - gli disse qualche cosa; però lui si era accorto che una delle più carine, quella con le guance arrossate e i lunghi capelli biondi - Rosa o Chiara, non ricordava mai il nome - che durante l'intervallo o all'uscita spesso girava a braccetto con due sue amichette occhialute - quasi fossero una cosa sola – quella mattina gli si era avvicinata per un attimo, accennando un sorriso. Per Giò quello fu un giorno strano.
La domenica pomeriggio la ragazzina bionda non venne, però la solita stradina si riempì di piccoli curiosi. Molti arrivarono a piedi, in bicicletta o accompagnati nei pressi in auto dai genitori, con il pretesto di andare al parco per vedere l'alta statua con il faro, il panorama, le montagne sullo sfondo con le cime ancora innevate. Alcuni si erano accalcati in fondo alla strada, a ridosso del cancello della villa abbandonata; altri si erano messi ai bordi di essa, come spettatori che assistono ad una gara di sci alpino. C'era anche Anna, la ragazza detta 'la rivoluzionaria', una tizia con i capelli rasati e i grandi occhi azzurri, la quale amava ripetere che un giorno avrebbe fatto carne alla brace di quella brutta gente borghese (ovvero avrebbe bruciato tutte le case in collina compresa la sua, un villone circondato da uno sterminato giardino). Fu Richi ad organizzare l'evento; la star e il suo carrello sarebbero dovuti apparire solo all'ultimo, dal principio della ripida stradina. Invece si erano nascosti dentro la villa abbandonata che andava a pezzi ed era quasi più un rischio rimanere lì dentro per troppo tempo che fare una discesa ad occhi chiusi.
Ma a preoccupare Giò non era questo e nemmeno la folla o le condizioni atmosferiche; quel giorno c'era un gran sole e il vento era assente. Anche fisicamente si sentiva a posto, non aveva alcun dolore, nemmeno quel solito leggero male alla testa. Lui scendeva per sé stesso, se poi gli altri si divertivano a vederlo tanto meglio per loro, pensò. E se poi fosse caduto, pazienza. In realtà la sera prima, con la testa nascosta sotto il cuscino, aveva pianto. Sapeva che dopo quella discesa le voci dei figli sarebbero giunte alle orecchie dei genitori; e così anche i suoi lo avrebbero saputo, ma questa volta mai lo avrebbero perdonato, strappandogli l'unica cosa che veramente lo rendeva felice, il suo carrello. Durante il sonno vide tutto: la crisi isterica della madre, le botte del padre, il carrello fatto a pezzi, le ruote devastate, la gabbia presa a calci, sfondata, i resti abbandonati vicino a un bidone dell'immondizia, e addio. Non ci sarebbe più stata un'altra estate così e le sue belle domeniche trascorse durante le altre stagioni.
Eppure aveva ancora tante cose da fare; sapeva che con il tempo avrebbe imparato a dominare il suo carrello e scendere anche con il ghiaccio, con una tempesta di vento oppure in controluce, magari ad occhi chiusi. E questo era niente. C'erano altre vie simili alla sua sparse per la collina. Però il suo più grande desiderio era quello di dedicarsi a qualunque strada in discesa, facendo tutte le curve, partendo dalla cima della collina fino a giungere in città, senza mai cadere. Un giorno sarebbe riuscito a fare ciò senza modificare il suo carrello con artifici tecnici, tipo freni, volanti o altre piccole invenzioni? E poi da grande - a vent'anni – non si sarebbe sentito troppo stretto lì dentro?
Nella villa pensò a tutto questo. Poi lui e il carrello uscirono dal cancello arrugginito che si apriva a stento. Il pubblico era in silenzio. Salirono fino al principio della stradina. Presero posizione. Giò si distese con la pancia in giù. Fece un lungo respiro e lasciò andare i piedi che gli fuoriuscivano dal carrello, staccandoli dall'asfalto. Erano in corsa. Si mise quasi seduto, con il sedere leggermente alzato; le braccia erano larghe in avanti, le mani stringevano i bordi. Tutto il corpo era proteso in avanti; gli occhi fissavano i materassi. Fu un incantevole viaggio durato rari secondi, sempre troppo pochi e la discesa si concluse alla grande come sempre.
Ci fu un boato. I ragazzi urlarono, applaudirono come se Giò fosse una rock star o un grande atleta. Lo circondarono, mentre lui era rimasto dentro al carrello per riflettere
sul luogo dove avrebbe potuto nasconderlo nel momento in cui quella strana festa sarebbe finita. L'ultima discesa un cazzo, pensò ancora: mio caro amico carrello, non so come, ma un giorno faremo tutte le discese del mondo.
Fu questo il suo secondo pensiero, forse eccitato per l'affetto della folla entusiasta che gridava sempre più forte per quella loro stravagante impresa.


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