La
mattina del ventotto giugno del 1998 un robusto dodicenne - Giò era
il suo nome - vide vicino ad un cassonetto dell'immondizia, in un
angolo buio di una piccola strada della città ai piedi delle
colline, un carrello della spesa.
Era
uno di quelli che si trovavano nei grandi centri commerciali di
periferia, con quattro piccole ruote girevoli, la resistente gabbia
di metallo, il piccolo sedile per i bambini. Sulla barra dal quale
solitamente lo si spinge in avanti e indietro, la scritta del
supermercato era illeggibile; inoltre mancava del tutto la solita
catena che legava un carrello ad un altro e dove si inseriva la
moneta da cinquecento lire.
Era
forse il modello di carrello da supermercato più grande in
circolazione. Il ragazzo lo prese e lo portò via, spingendolo a
fatica, perché le ruote erano un po' bloccate.
Abitava
in una piccola villa a due piani nel punto più alto della collina;
suo padre era il guardiano del parco dove una grande statua detta Il
Faro della Vittoria
dominava il paesaggio cittadino. L'unico modo per arrivare a casa era
quello di prendere il pullman, ma Giò non aveva intenzione di
separarsi dal suo nuovo amico - l'autista del pullman non l'avrebbe
mai fatto salire con quel grosso carrello - così lo spinse con
tenacia in salita per tutto il giorno, pensando fosse l'unica cosa da
fare e che a nulla sarebbero servite le urla del padre :
“Che
fai co' sto coso? L'hai rubato? Riportalo subito dov'era!”
Anche
la madre, maestra a scuola e a casa, lo avrebbe sgridato:
“Riportalo
indietro, nell'immondizia, oppure donalo a qualche negozio nel paese
vicino!”
Giò,
che aveva le gambe corte e non praticava nessuno sport, giunse a casa
con tanta fatica – l'altitudine della collina era poco oltre i
settecento metri – uno sforzo per lui impensabile. Prese pure le
strade più complicate ma meno frequentate dalle automobili.
Nel
tardo pomeriggio entrò nel minuscolo giardino di casa e nascose il
carrello nel retro, dietro un cespuglio, di fronte alla finestra
della sua stanzetta, che si trovava al piano terra.
A
tavola, durante la cena, la luce del sole di un colore arancio
fortissimo faticava ad entrare; la madre guardava il telegiornale, il
padre, che aveva lavorato tutto il giorno nel parco, si sedette e
disse al figlio:
“Domani
butti via quel coso” ma il ragazzo non rispose.
Il
mattino seguente Giò prese il carrello con l'intenzione di
nasconderlo in un altro luogo. Aveva deciso di pulire e sgrassare le
ruote con dell'olio raffinato, in modo da renderle più scorrevoli.
Nel retro di un ristorante vicino casa lavorò tutto il giorno. Il
proprietario e i camerieri, che lo conoscevano bene, non gli chiesero
nulla su cosa diavolo stesse facendo con quel carrello. Terminato il
lavoro ci si mise dentro, dopo che per un'ora l'aveva fissato quasi
incantato. Infine si addormentò come un bambino nella propria culla.
Al
risveglio l'aria era più fresca, il vento muoveva i rami di una
grande quercia e lui e il carrello rimasero immobili lì sotto.
Doveva prendere una decisione, la cena si avvicinava; il nuovo amico
aveva bisogno di un nascondiglio, oppure avrebbe potuto chiedere ai
suoi genitori di tenerlo ancora per un po'. Ma gli mancava il
coraggio. Inoltre non sapeva proprio come avrebbe potuto abbozzare un
discorso con loro; il giovane non era certo un chiacchierone, spesso
sbagliava i verbi, come avvenne una volta a scuola durante una
interrogazione in grammatica italiana, quando tutta la classe rise di
lui. Ma chissenefrega della scuola e della lingua italiana, pensò;
ora è estate, per me e per il carrello della spesa!
Era
quasi ora di cena, doveva tornare a casa e non ne aveva voglia.
Durante tutto il caldo pomeriggio aveva pensato al luogo del
possibile rifugio, magari provvisorio; spingendolo a mano per la
strada principale trovò in una traversa, una stradina in discesa,
tutta dritta, ben asfaltata, molto ripida, lunga un centinaio di
metri, che terminava unicamente davanti al sontuoso cancello di una
grande villa abbandonata. Di fronte a questo cancello arrugginito
c'erano - male allineati - quattro bidoni dell'immondizia in disuso;
più o meno al centro di questi - appoggiati - due materassi posti
in orizzontale. Giò si gettò dentro il carrello e, senza esitare,
si lanciò giù. Fu una corsa in discesa che durò qualche decina di
secondi. Il carrello prese molta velocità solo negli ultimi venti
metri; scorreva dritto, senza sbandare, e si schiantò frontalmente
contro quei materassi sporchi.
Due
piccioni grigi, appoggiati sui bidoni, volarono via. Giò teneva le
mani strette ai due lati del carrello. Aveva il sedere leggermente
sollevato. Respirava affannosamente. Il carrello non si era nemmeno
ammaccato, e lui lo stesso, nessun colpo subìto, nessun graffio.
Aveva
compiuto una piccola impresa. Non aveva preso né sassi né buche,
anche se erano presenti in più punti della strada. Le ruote le aveva
preparate bene, rendendole molto scorrevoli. Aveva mantenuto la
posizione giusta e non aveva mosso di un solo millimetro il suo
corpaccione che occupava giusto la metà dello spazio dentro il
carrello. Ma ogni tentativo di spiegazione logica perdeva
significato, poiché il ragazzino aveva agito d'istinto, ed era stato
semplicemente molto fortunato. Appoggiò la testa contro la parte
posteriore e fece un lungo respiro. Portava una maglietta color
rosso, ora tutta bagnata dal sudore.
D'improvviso
si alzò un forte vento. Doveva ritornare a casa, ma non ne aveva
voglia. E poi il carrello sarebbe rimasto lì, da solo, di nuovo tra
i rifiuti. Non aveva paura che qualcuno glielo portasse via, questo
no, anche perché era una zona abbandonata (un vecchio cartello
segnalava la strada come 'privata'). Nemmeno le giovani coppiette
chiuse in auto la usavano per nascondersi: troppo ripida la strada,
la risalita sarebbe stata più faticosa del loro amplesso.
Durante
la cena il ragazzo non disse nulla. La televisione, ad alto volume,
trasmetteva vecchi spezzoni di partite di calcio. Quella sera nessuno
dei tre aprì bocca, anche se era una cosa abbastanza normale; il
padre, visibilmente stanco, beveva un po' di vino rosso, mentre la
madre sbucciava con cura la terza o la quarta mela. Poi andarono
tutti a dormire, presto. Giò non vedeva l'ora di tornare dal suo
carrello e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Ripensò alla
discesa spericolata e a quanto lo avesse eccitato. Non aveva mai
provato, nella sua breve esistenza, un'emozione così forte. Per la
prima volta aveva trovato qualcosa che lo appassionasse veramente al
punto tale da togliergli il sonno. A differenza dei suoi coetanei di
dodici-tredici anni, non gli interessavano il calcio o altri sport.
Rispetto a loro ascoltava altra musica, come il rock 'n' roll, poiché
uno zio, che viveva a New York e diceva di avere due hotel, gli aveva
regalato delle cassette quando era venuto a trovarli in collina.
Inoltre gli aveva lasciato una raccolta di canzoni presenti nella
colonna sonora del film American
Graffiti.
Giò seguiva anche il wrestling, ma nella sua stanza non aveva poster
né di cantanti né di lottatori e comunque la madre non gli avrebbe
permesso di insozzare la preziosa tappezzeria azzurra con quella
cartaccia. I film li vedeva in televisione, quelli che capitavano:
preferiva i film comici e quelli d'avventura, ma sentiva di non avere
una fissa per un attore o un film in particolare.
Di
sua spontanea volontà aveva letto solo qualcosa di Verne e un libro
di Stevenson, gli autori preferiti dal padre, ma Giò li leggeva a
fatica e raramente ne finiva uno. E alla classica domanda, “Allora,
sentiamo un po': che lavoro vuoi fare da grande?”, fatta dalla
maestra in quinta elementare, lui fu l'unico a non sapere cosa
rispondere; e ancora una volta tutta la classe rise, compresa la
giovane maestra, che poi aggiunse: “magari farai il custode di quel
bellissimo parco dove c'è la statua con il faro no?”, che poi
sarebbe stato più corretto dire 'guardiaparco'.
Stessa
cosa per i primi innamoramenti. Non c'era una ragazzina che gli
piacesse più di un'altra, e per nessuna aveva ancora sofferto. I
suoi compagni di prima media cominciavano a mettersi insieme, magari
per qualche settimana, con le varie Gaia e Lorella o Roberta, e in
quel periodo erano capaci di parlare solo di loro. Lui però era
diverso; per esempio, durante una lezione in classe, mentre guardava
fuori dalla finestra o chiudeva gli occhi un momento, immaginava di
baciarne almeno dieci o venti alla volta, e così, a fine mattinata
era un po' come se si fosse fatto mezza scuola, comprese Gaia,
Lorella e Roberta.
Una
volta una ragazzina di terza media di nome Evaluna l'aveva baciato
per davvero, e sulla bocca - senza però usare la lingua - durante il
classico gioco della bottiglia. Era stata l'unica a dirgli di sì, e
dopo il fatto, quasi a giustificarsi dinanzi alle sue amiche
incredule e un po' schifate, lei disse che certamente Giò aveva un
fisico orribilino - usò proprio questa parola la bimba - ed era
anche un po' cicciottello, con una testa simile ad una palla da
bowling, il collo quasi attaccato alle spalle, ma a suo vantaggio, e
forse questo annullava tutte le cose negative, aveva gli occhi verdi
più incantevoli che lei avesse mai visto in circa quattordici anni
di vita. Va aggiunto ancora - ma su questo argomento Evaluna non si
pronunciò - che Giò era uno dei maschi più bassi della scuola.
Il
mattino seguente tornò in quella via ripida dal suo amico carrello,
portandosi con sé
-
infilati dentro lo zainetto - due panini al formaggio e prosciutto,
una bottiglia da un litro di acqua frizzante, il walkman e una
cassetta con canzoni registrate dalla radio - le hit del momento,
come un pezzo dei Fastball dal titolo The
way,
ma anche qualche brano di Jerry Lee Lewis, un libro di grammatica
inglese (per tenere buona la madre) e una catena tipica per bloccare
le biciclette, con un grande lucchetto; alla fine della giornata
avrebbe voluto legare il suo carrello per la spesa al vecchio
cancello della villa abbandonata.
Per
prima cosa lo spostò all'ombra di un pino, l'unico albero presente;
per il resto, intorno a sé, aveva solo sterpaglia secca. Dopo di che
si mise dentro il carrello ad oziare. Le cicale erano rumorose, ma a
Giò piacevano perché gli sembravano un'orchestra. Quella sua
stradina era un luogo perfetto, un rifugio dal mondo, il suo mondo
dove nessuno lo avrebbe mai trovato, genitori compresi. Durante il
giorno, comunque, i suoi lo lasciavano libero, almeno in estate,
purché dimostrasse alla madre, la domenica sera, di aver fatto parte
dei compiti.
Verso
le tre, dopo aver mangiato uno dei due panini, scese dal carrello, lo
spinse una decina di metri più su, nella parte conclusiva della
stradina; poi lo posizionò verso i bidoni dell'immondizia e i
materassi. D'impeto si gettò dentro. Il carrello cominciò la sua
discesa, ma solo per pochi secondi, poiché la sua parte posteriore
finì tutto in avanti: le ruote di dietro si bloccarono, il carrello
si rovesciò e cadde in terra. Giò non si fece nulla. Fortunatamente
il percorso era stato troppo breve. Lo rimise su. Rientrò dalla
parte posteriore e, mettendosi a pancia in giù - con la testa in
avanti quasi a sfiorare la gabbia anteriore e con le mani contro di
essa - dopo aver nuovamente indirizzato il carrello al punto giusto,
lo tenne fermo con i suoi piedi; infine si lasciò andare. Finì
contro i materassi a scarsa velocità. Si trattava di pochi metri di
discesa, forse nemmeno cinque, e poi una decina di metri in pianura
fino a quei bidoni davanti al cancello.
E
così trascorse tutta l'estate in quella stradina abbandonata, con un
solo albero come riparo dal sole, a tentare discese pazze con il suo
carrello. Aveva ripulito la strada dai sassi - anche quelli più
piccoli - con una scopa. Fortunatamente le buche - tutte minuscole -
erano presenti solo ai bordi della strada. Dalla cantina Giò aveva
preso altri due vecchi materassi, ora disposti orizzontalmente, uno
messo al centro e tre dietro, appoggiati ai bidoni dell'immondizia,
come a formare un muro prezioso.
Quando
decideva di partire dalla cima della ripida salita, doveva guardarsi
alle spalle per vedere che sulla strada principale non passasse
nessuna automobile; chissà cosa avrebbero pensato quelli alla guida
o altri passanti: forse ad un suicida, ad un folle da fermare.
Sarebbero intervenute le forze dell'ordine, i servizi sociali, la sua
famiglia: tutti quanti lo avrebbe svegliato dal suo sogno.
Per
tutto luglio e agosto, Giò riportò piccole ferite, soprattutto
graffi alle braccia e alle gambe, ma era anche bravo ad inventarsi
scuse: ai suoi genitori raccontava di passare le giornate nel parco e
che qualche volta, prendendo sentieri improbabili, gli capitava di
cadere e farsi male. Il padre, però, diceva di non vederlo mai;
effettivamente il luogo era vasto, con centinaia di sentieri che
forse neanche l'uomo poteva conoscere.
Nonostante
alcune volte il ragazzino cadesse con il suo carrello, non mise mai
un casco o cose simili, per principio: lui voleva scendere senza
finzioni, vestito in modo semplice, un po' sportivo, come se dovesse
fare una normale passeggiata, con scarpe da ginnastica, pantaloncini
e maglietta. Trascorreva le ore più calde della giornata dentro il
carrello, sotto l'ombra mutevole del pino, a fare i compiti, tanto
per tenere buona la madre. Nelle giornate di fine agosto provò
alcune discese dopo forti piogge e andò tutto bene. La musica
l'ascoltava qualche volta, tanto per caricarsi, però durante la
discesa doveva esserci silenzio. A volte gli capitava di fissare la
sua strada per delle ore; la studiava con cura. Aspettava il momento
giusto, magari che il vento cessasse, soprattutto se era forte e di
traverso. Quando il cielo era sereno andava meglio; ma una nuvola che
passava davanti al sole o si fermava poteva essere un autentico
rischio per la sua visibilità. Un cambiamento improvviso avrebbe
potuto distrarlo, privandolo della giusta posizione, e quindi farlo
cadere in terra. Ma in poco tempo era diventato più accorto e
concentrato; non era più quello degli esordi.
E
non aveva paura. Quando entrava dentro il carrello e si buttava per
quelle discese, si sentiva sicuro e felice come non lo era stato mai
in vita sua; il senso delle sue giornate finiva lì, nel momento in
cui il sole tramontava.
“Peccato
che non facciamo mai le vacanze estive, quest'anno te le saresti
meritate davvero!” disse la madre una sera, contenta perché il
figlio aveva finito tutti i compiti a pochi giorni dall'inizio della
scuola.
Una
volta sola erano andati in vacanza, quando Giò era ancora troppo
piccolo per ricordare. Trascorsero quasi un'intera estate in una
piccola frazione di mare vicino Tropea, ospiti di una vecchia zia del
padre. Ma la donna non poteva certo sapere che il ragazzo stava già
viaggiando - a modo suo - tutti i giorni, ed era felice così, forse
almeno quanto i suoi compagni in vacanza ad Alassio, a Londra o in
Australia.
L'arrivo
di settembre e della scuola furono per Giò un vero fulmine a ciel
sereno. Lui non era più lo stesso e niente - dopo quell'estate -
avrebbe avuto senso per davvero se non quelle pazze discese in cui si
riempiva i polmoni di un'abbondante provvista d'aria. Ma non sarebbe
stata la fredda temperatura, il clima ostile, l'inverno e la neve, le
giornate brevi, con poca luce, a fermare le sue gioie con il
carrello, bensì le ore perdute nelle aule scolastiche, il ritorno a
casa a pranzo, il pomeriggio, la cena, e poi l'inutile sonno durante
la notte. Gli sarebbero rimasti il sabato o la domenica, uno di quei
due giorni a scelta, poiché almeno uno avrebbe dovuto dedicarlo
interamente ai compiti; così scelse il sabato per le faccende
scolastiche, che considerava una perdita di tempo - anche se svolgeva
sempre con maggiore impegno al fine di non creare sospetti in
famiglia - mentre la domenica, che da sempre considerava noiosa,
l'avrebbe dedicata ai suoi viaggi, alle sue spericolate discese.
Il
luogo era rimasto lo stesso, quella strada isolata dal mondo, a
pochi minuti da casa sua; e ogni volta che si buttava giù era come
se fosse la prima volta, un evento al quale non rinunciava nemmeno
quando aveva la febbre.
Poi
con la neve era tutta una cosa a parte. Nell'inverno del 1999 nevicò
abbastanza da coprire la sua strada di parecchi centimetri. La prima
volta scese a fatica poiché - seppure molle - la neve finiva per
superare abbondantemente le ruote e terminare dentro la gabbia del
carrello, bloccandolo fin da subito.
Tuttavia,
una volta segnato il tracciato - perfettamente diritto - il carrello
scendeva adagio e giungeva alla fine della sua consueta corsa. In
alcune circostanze, Giò evitò di venire giù quando l'asfalto era
troppo ghiacciato, soprattutto se lo era in alcuni tratti; non era
così folle - o meglio - se fosse caduto malamente non avrebbe potuto
più scendere durante le sue domeniche e nei mesi estivi: con un
braccio o una gamba fratturata, o alla peggio un colpo in testa e
chissà cos'altro, si sarebbe concluso il suo bel sogno. Ma un giorno
l'avrebbe fatto, lo promise a sé stesso e al carrello; gli mancava
solamente esperienza, doveva pazientare ancora un po', per questo e
per qualcos'altro di più ambizioso.
E
a proposito di questa sua insolita attività, lui non ne aveva ancora
parlato con nessuno. A scuola era senza amici, ma non aveva nemmeno
dei nemici, gente che lo infastidisse. Giò si faceva i fatti suoi,
viveva nel suo piccolo mondo silenzioso. Durante l'intervallo
rimaneva con i suoi compagni nei corridoi; talvolta li ascoltava
distrattamente e rideva alle loro battute. Una volta i suoi compagni
di classe lo avevano invitato ad una festa il sabato pomeriggio, in
una delle loro case lussuose, spesso situate ai piedi della collina o
nel centro storico della città, però lui aveva rifiutato; durante
il sabato doveva studiare, in modo da non avere più scomodi impegni
di studio per la sua domenica 'santa'.
Solo
verso maggio rivelò il suo segreto a colui che reputava un buon
conoscente, un certo Richi detto 'il capellone', uno fissato con la
musica dei Metallica, un ragazzino che - proprio come Giò - fiatava
poco. Quando parlava non si capiva molto, poiché andava troppo
veloce; e a tredici anni era lì che citava filosofi tipo Nietzsche.
Giò
lo invitò ad una sua esibizione in una domenica già caldissima e
abbastanza ventosa. Lo accompagnò in fondo alla stradina - in un
lato - chiedendogli di chiudere gli occhi per qualche minuto fino a
che non gli avrebbe fatto un urlo. Richi annuì, si accese una
sigaretta e chiuse gli occhi. Giò slegò il suo carrello, che teneva
sempre attaccato al cancello con la catena per le biciclette; risalì
la stradina, ci si mise dentro - facendo anche attenzione che le
auto dietro di lui non lo sfiorassero - quindi urlò: “Apri!”.
Scese a gran velocità, e anche se il vento era un poco di traverso,
rimase in equilibrio, finendo contro i materassi. Tutto era andato a
meraviglia.
Richi
rimase di pietra, con la sigaretta in bocca che aveva smesso di
aspirare. Non disse nulla per qualche minuto, borbottò qualcosa,
gesticolando, forse erano delle citazioni filosofiche. Poi lo
abbracciò forte.
Il
'capellone' - come detto - era uno che stava per i fatti suoi, con
quel faccino da faina, nascosto da lunghi capelli neri. Però il
giorno seguente, verso la fine della mattinata, tutti i ragazzini
della scuola evidentemente capirono le sue parole, poiché vennero a
conoscenza dell'impresa di Giò con il suo carrello.
La
notizia si era diffusa durante l'intervallo, e così all'uscita
soprattutto i ragazzini dell'ultimo anno gli chiesero spiegazioni;
Giò era molto imbarazzato, ma li invitò senza esitazione ad
assistere ad una sua discesa per la domenica a venire.
Nessuna
ragazzina - invece - gli disse qualche cosa; però lui si era accorto
che una delle più carine, quella con le guance arrossate e i lunghi
capelli biondi - Rosa o Chiara, non ricordava mai il nome - che
durante l'intervallo o all'uscita spesso girava a braccetto con due
sue amichette occhialute - quasi fossero una cosa sola – quella
mattina gli si era avvicinata per un attimo, accennando un sorriso.
Per Giò quello fu un giorno strano.
La
domenica pomeriggio la ragazzina bionda non venne, però la solita
stradina si riempì di piccoli curiosi. Molti arrivarono a piedi, in
bicicletta o accompagnati nei pressi in auto dai genitori, con il
pretesto di andare al parco per vedere l'alta statua con il faro, il
panorama, le montagne sullo sfondo con le cime ancora innevate.
Alcuni si erano accalcati in fondo alla strada, a ridosso del
cancello della villa abbandonata; altri si erano messi ai bordi di
essa, come spettatori che assistono ad una gara di sci alpino. C'era
anche Anna, la ragazza detta 'la rivoluzionaria', una tizia con i
capelli rasati e i grandi occhi azzurri, la quale amava ripetere che
un giorno avrebbe fatto carne alla brace di quella brutta gente
borghese (ovvero avrebbe bruciato tutte le case in collina compresa
la sua, un villone circondato da uno sterminato giardino). Fu Richi
ad organizzare l'evento; la star e il suo carrello sarebbero dovuti
apparire solo all'ultimo, dal principio della ripida stradina. Invece
si erano nascosti dentro la villa abbandonata che andava a pezzi ed
era quasi più un rischio rimanere lì dentro per troppo tempo che
fare una discesa ad occhi chiusi.
Ma
a preoccupare Giò non era questo e nemmeno la folla o le condizioni
atmosferiche; quel giorno c'era un gran sole e il vento era assente.
Anche fisicamente si sentiva a posto, non aveva alcun dolore, nemmeno
quel solito leggero male alla testa. Lui scendeva per sé stesso, se
poi gli altri si divertivano a vederlo tanto meglio per loro, pensò.
E se poi fosse caduto, pazienza. In realtà la sera prima, con la
testa nascosta sotto il cuscino, aveva pianto. Sapeva che dopo
quella discesa le voci dei figli sarebbero giunte alle orecchie dei
genitori; e così anche i suoi lo avrebbero saputo, ma questa volta
mai lo avrebbero perdonato, strappandogli l'unica cosa che veramente
lo rendeva felice, il suo carrello. Durante il sonno vide tutto: la
crisi isterica della madre, le botte del padre, il carrello fatto a
pezzi, le ruote devastate, la gabbia presa a calci, sfondata, i resti
abbandonati vicino a un bidone dell'immondizia, e addio. Non ci
sarebbe più stata un'altra estate così e le sue belle domeniche
trascorse durante le altre stagioni.
Eppure
aveva ancora tante cose da fare; sapeva che con il tempo avrebbe
imparato a dominare il suo carrello e scendere anche con il ghiaccio,
con una tempesta di vento oppure in controluce, magari ad occhi
chiusi. E questo era niente. C'erano altre vie simili alla sua sparse
per la collina. Però il suo più grande desiderio era quello di
dedicarsi a qualunque strada in discesa, facendo tutte le curve,
partendo dalla cima della collina fino a giungere in città, senza
mai cadere. Un giorno sarebbe riuscito a fare ciò senza modificare
il suo carrello con artifici tecnici, tipo freni, volanti o altre
piccole invenzioni? E poi da grande - a vent'anni – non si sarebbe
sentito troppo stretto lì dentro?
Nella
villa pensò a tutto questo. Poi lui e il carrello uscirono dal
cancello arrugginito che si apriva a stento. Il pubblico era in
silenzio. Salirono fino al principio della stradina. Presero
posizione. Giò si distese con la pancia in giù. Fece un lungo
respiro e lasciò andare i piedi che gli fuoriuscivano dal carrello,
staccandoli dall'asfalto. Erano in corsa. Si mise quasi seduto, con
il sedere leggermente alzato; le braccia erano larghe in avanti, le
mani stringevano i bordi. Tutto il corpo era proteso in avanti; gli
occhi fissavano i materassi. Fu un incantevole viaggio durato rari
secondi, sempre troppo pochi e la discesa si concluse alla grande
come sempre.
Ci
fu un boato. I ragazzi urlarono, applaudirono come se Giò fosse una
rock star o un grande atleta. Lo circondarono, mentre lui era rimasto
dentro al carrello per riflettere
sul
luogo dove avrebbe potuto nasconderlo nel momento in cui quella
strana festa sarebbe finita. L'ultima discesa un cazzo, pensò
ancora: mio caro amico carrello, non so come, ma un giorno faremo
tutte le discese del mondo.
Fu
questo il suo secondo pensiero, forse eccitato per l'affetto della
folla entusiasta che gridava sempre più forte per quella loro
stravagante impresa.
Nessun commento:
Posta un commento