martedì 30 aprile 2013

GIO’ E IL CARRELLO PER LA SPESA (VERSIONE 2013, CORRETTA)

La mattina del ventotto giugno del 1998 un robusto dodicenne – Giò era il suo nome – vide vicino ad un cassonetto dell’immondizia, in un angolo buio di una piccola strada della città ai piedi delle colline, un carrello della spesa. Era uno di quelli che si trovavano nei grandi centri commerciali di periferia, con quattro piccole ruote girevoli, la resistente gabbia di metallo, il piccolo sedile per i bambini. Sulla barra dal quale solitamente lo si spinge in avanti e indietro, la scritta del supermercato era illeggibile; inoltre mancava del tutto la solita catena che legava un carrello ad un altro e dove si inseriva la moneta da cinquecento lire.Era forse il modello di carrello da supermercato più grande in circolazione. Il ragazzo lo prese e lo portò via, spingendolo a fatica, perché le ruote erano un po’ bloccate. Abitava in una piccola villa a due piani nel punto più alto della collina; suo padre era il guardiano del parco dove una grande statua detta Il Faro della Vittoria dominava il paesaggio cittadino. L’unico modo per arrivare a casa era quello di prendere il pullman, ma Giò non aveva intenzione di separarsi dal suo nuovo amico – l’autista del pullman non l’avrebbe mai fatto salire con quel grosso carrello – così lo spinse con tenacia in salita per tutto il giorno, pensando fosse l’unica cosa da fare e che a nulla sarebbero servite le urla del padre : “Che fai co’ sto coso? L’hai rubato? Riportalo subito dov’era!” Anche la madre, maestra a scuola e a casa, lo avrebbe sgridato: “Riportalo indietro, nell’immondizia, oppure donalo a qualche negozio nel paese vicino!” Poco oltre settecento metri, era questa l’altitudine della collina, e Giò, che aveva le gambe corte e non praticava nessuno sport, giunse a casa con tanta fatica, uno sforzo fisico per lui impensabile; prese pure le strade più complicate ma meno frequentate dalle automobili.Nel tardo pomeriggio entrò nel minuscolo giardino di casa e nascose il carrello nel retro, dietro un cespuglio, di fronte alla finestra della sua stanzetta, che si trovava al piano terra. A tavola, durante la cena, la luce del sole di un colore arancio fortissimo faticava ad entrare; la madre guardava il telegiornale, il padre, che aveva lavorato tutto il giorno nel parco, si sedette e disse al figlio: “Domani butti via quel coso” ma il ragazzo non rispose. Il mattino seguente Giò prese il carrello con l’intenzione di nasconderlo in un altro luogo. Aveva deciso di pulire e sgrassare le ruote con dell’olio raffinato, in modo da renderle più scorrevoli. Nel retro di un ristorante vicino casa lavorò tutto il giorno. Il proprietario e i camerieri, che lo conoscevano bene, non gli chiesero nulla su cosa diavolo stesse facendo con quel carrello. Terminato il lavoro ci si mise dentro, dopo che per un’ora l’aveva fissato quasi incantato. Infine si addormentò come un bambino nella propria culla. Al risveglio l’aria era più fresca, il vento muoveva i rami di una grande quercia e lui e il carrello rimasero immobili lì sotto. Doveva prendere una decisione, la cena si avvicinava; il nuovo amico aveva bisogno di un nascondiglio, oppure avrebbe potuto chiedere ai suoi genitori di tenerlo ancora per un po’. Ma gli mancava il coraggio. Inoltre non sapeva proprio come avrebbe potuto abbozzare un discorso con loro; il giovane non era certo un chiacchierone, spesso sbagliava i verbi, come avvenne una volta a scuola durante una interrogazione in grammatica italiana, quando tutta la classe rise di lui. Ma chissenefrega della scuola e della lingua italiana, pensò; ora è estate, per me e per il carrello della spesa! Era quasi ora di cena, doveva tornare a casa e non ne aveva voglia. Durante tutto il caldo pomeriggio aveva pensato al luogo del possibile rifugio, magari provvisorio; spingendolo a mano per la strada principale trovò in una traversa, una stradina in discesa, tutta dritta, ben asfaltata, molto ripida, lunga un centinaio di metri, che terminava unicamente al sontuoso cancello di una grande villa abbandonata. Di fronte a questo cancello arrugginito c’erano – male allineati – quattro bidoni dell’immondizia in disuso; più o meno al centro di questi – appoggiati – due materassi da letto posti in orizzontale. Giò si gettò dentro il carrello e, senza esitare, si lanciò giù. Fu una corsa in discesa che durò qualche decina di secondi. Il carrello prese molta velocità solo negli ultimi venti metri; scorreva dritto, senza sbandare, e si schiantò frontalmente contro quei materassi sporchi. Due piccioni grigi, appoggiati sui bidoni, volarono via. Giò teneva le mani strette ai due lati del carrello. Aveva il sedere leggermente sollevato. Respirava affannosamente. Il carrello non si era nemmeno ammaccato, e lui lo stesso, nessun colpo subito, nessun graffio.Aveva compiuto una piccola impresa. Non aveva preso né sassi né buche, anche se erano presenti in più punti della strada. Le ruote le aveva preparate bene, rendendole molto scorrevoli. Aveva mantenuto la posizione giusta e non aveva mosso di un solo millimetro il suo corpaccione che occupava giusto la metà dello spazio dentro il carrello. Ma ogni tentativo di spiegazione logica perdeva significato, poiché il ragazzino aveva agito d’istinto, ed era stato semplicemente molto fortunato. Appoggiò la testa contro la parte posteriore e fece un lungo respiro. Portava una maglietta color rosso, ora tutta bagnata dal sudore. D’improvviso si alzò un forte vento. Doveva ritornare a casa, ma non ne aveva voglia. E poi il carrello sarebbe rimasto lì, da solo, di nuovo tra i rifiuti. Non aveva paura che qualcuno glielo portassero via, questo no, anche perché era una zona abbandonata.(Un vecchio cartello segnalava la strada come ‘privata’). Nemmeno le giovani coppiette chiuse in auto la usavano per nascondersi: troppo ripida la strada, la risalita sarebbe stata più faticosa del loro amplesso. Durante la cena il ragazzo non disse nulla. La televisione, ad alto volume, trasmetteva vecchi spezzoni di partite di calcio. Quella sera nessuno dei tre aprì bocca, anche se era una cosa abbastanza normale; il padre, visibilmente stanco, beveva un po’ di vino rosso, mentre la madre sbucciava con cura la terza o la quarta mela. Poi andarono tutti a dormire, presto. Giò non vedeva l’ora di tornare dal suo carrello e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Ripensò alla discesa spericolata e a quanto lo avesse eccitato. Non aveva mai provato, seppur nella sua breve esistenza, un’emozione così forte. Per la prima volta aveva trovato qualcosa che lo appassionasse veramente al punto tale da togliergli il sonno. A differenza dei suoi coetanei di dodici-tredici anni, non gli interessava il calcio e altri sport. Rispetto a loro ascoltava altra musica come il rock ‘n’ roll, poiché uno zio, che viveva a New York e diceva di avere due hotel, gli aveva regalato delle cassette quando era venuto a trovarli in collina. Inoltre gli aveva lasciato una raccolta di canzoni presenti nella colonna sonora del film American Graffiti. Giò seguiva anche il wrestling, ma nella sua stanza non aveva poster né di cantanti né di lottatori e comunque la madre non gli avrebbe permesso di insozzare la preziosa tappezzeria azzurra con quella cartaccia. I film li vedeva in televisione, quelli che capitavano: preferiva i film comici e quelli d’avventura, ma sentiva di non avere una fissa per un attore o un film in particolare. Di sua spontanea volontà aveva letto solo qualcosa di Verne e un libro di Stevenson, gli autori preferiti dal padre, ma Giò li leggeva a fatica e raramente ne finiva uno. E alla classica domanda, “Allora, sentiamo un po’: che lavoro vuoi fare da grande?”, fatta dalla maestra in quinta elementare, lui fu l’unico a non sapere cosa rispondere; e ancora una volta tutta la classe rise, compresa la giovane maestra, che poi aggiunse: “magari farai il custode di quel bellissimo parco dove c’è la statua con il faro no?”, che poi sarebbe stato più corretto dire ‘guardiaparco’. Stessa cosa per i primi innamoramenti. Non c’era una ragazzina che gli piacesse più di un’altra, e per nessuna aveva ancora sofferto. I suoi compagni di prima media cominciavano a mettersi insieme, magari per qualche settimana, con le varie Gaia e Lorella o Roberta, e in quel periodo erano capaci di parlare solo di loro. Lui però era diverso; per esempio, durante una lezione in classe, mentre guardava fuori dalla finestra o chiudeva gli occhi un momento, immaginava di baciarne almeno dieci o venti alla volta, e così, a fine mattinata era un po’ come se si fosse fatto mezza scuola, comprese Gaia, Lorella e Roberta. Una volta una ragazzina di terza media di nome Evaluna l’aveva baciato per davvero, e sulla bocca – senza però usare la lingua – durante il classico gioco della bottiglia. Era stata l’unica a dirgli di sì, e dopo il fatto, quasi a giustificarsi dinanzi alle sue amiche incredule e un po’ schifate, lei disse che certamente Giò aveva un fisico orribilino – usò proprio questa parola la bimba – ed era anche un po’ cicciottello, con una testa simile ad una palla da bowling, il collo quasi attaccato alle spalle, ma a suo vantaggio, e forse questo annullava tutte le cose negative, aveva gli occhi verdi più incantevoli che lei avesse mai visto in circa quattordici anni di vita. Va aggiunto ancora – ma su questo argomento Evaluna non si pronunciò – che Giò era uno dei maschi più bassi della scuola. Il mattino seguente tornò in quella via ripida dal suo amico carrello, portandosi con sé – infilati dentro lo zainetto – due panini al formaggio e prosciutto, una bottiglia da un litro di acqua frizzante, il walkman e una cassetta con canzoni registrate dalla radio – le hit del momento, come un pezzo dei Fastball dal titolo The way, ma anche qualche brano di Jerry Lee Lewis – un libro di grammatica inglese – per tenere buona la madre – e una catena tipica per bloccare le biciclette, con un grande lucchetto; alla fine della giornata avrebbe voluto legare il suo carrello per la spesa al vecchio cancello della villa abbandonata. Per prima cosa lo spostò all’ombra di un pino, l’unico albero presente; per il resto, intorno a sé, aveva solo sterpaglia secca. Dopo di che si mise dentro il carrello ad oziare. Le cicale erano rumorose, ma a Giò piacevano perché gli sembravano un’orchestra. Quella sua stradina era un luogo perfetto, un rifugio dal mondo, il suo mondo dove nessuno lo avrebbe mai trovato, genitori compresi. (Durante il giorno – comunque – i suoi lo lasciavano libero – almeno in estate – purché dimostrasse alla madre – la domenica sera – di aver fatto parte dei compiti). Verso le tre, dopo aver mangiato uno dei due panini, scese dal carrello, lo spinse una decina di metri più su, nella parte conclusiva della stradina; poi lo posizionò verso i bidoni dell’immondizia e i materassi. D’impeto si gettò dentro. Il carrello cominciò la sua discesa, ma solo per pochi secondi, poiché la sua parte posteriore finì tutto in avanti: le ruote di dietro si bloccarono, il carrello si rovesciò e finì in terra. Giò non si fece nulla. Fortunatamente il percorso era stato troppo breve. Lo rimise su. Rientrò dalla parte posteriore e, mettendosi a pancia in giù – con la testa in avanti quasi a sfiorare la gabbia anteriore e con le mani contro di essa – dopo aver nuovamente indirizzato il carrello al punto giusto, lo tenne fermo con i suoi piedi; infine si lasciò andare. Finì contro i materassi a scarsa velocità. Si trattava di pochi metri di discesa, forse nemmeno cinque, e poi una decina di metri in pianura fino a quei bidoni davanti al cancello. E così trascorse tutta l’estate in quella stradina abbandonata, con un solo albero come riparo dal sole, a tentare discese pazze con il suo carrello. Aveva ripulito la strada dai sassi – anche quelli più piccoli – con una scopa. Fortunatamente le buche – tutte minuscole – erano presenti solo ai bordi della strada. Dalla cantina Giò aveva preso altri due vecchi materassi, ora disposti orizzontalmente, uno messo al centro e tre dietro, appoggiati ai bidoni dell’immondizia, come a formare un muro prezioso. Quando decideva di partire dalla cima della ripida salita, doveva guardarsi alle spalle che sulla strada principale non passasse nessuna automobile; chissà cosa avrebbero pensato quelli alla guida o altri passanti, forse ad un suicida, ad un folle da fermare. Sarebbero intervenute le forze dell’ordine, i servizi sociali, la sua famiglia: tutti quanti lo avrebbe svegliato dal suo sogno. Per tutto luglio e agosto, Giò riportò piccole ferite, soprattutto graffi alle braccia e alle gambe, ma era anche bravo ad inventarsi scuse: ai suoi genitori raccontava di passare le giornate nel parco e che qualche volta, prendendo sentieri improbabili, gli capitava di cadere e farsi male. Il padre – però – diceva di non vederlo mai. (Effettivamente il luogo era vasto, con centinaia di sentieri che forse neanche l’uomo poteva conoscere). Nonostante alcune volte il ragazzino cadesse con il suo carrello, non mise mai un casco o cose simili, per principio: lui voleva scendere senza finzioni, vestito in modo semplice, un po’ sportivo, come se dovesse fare una normale passeggiata, con scarpe da ginnastica, pantaloncini e maglietta. Trascorreva le ore più calde della giornata dentro il carrello, sotto l’ombra mutevole del pino, a fare i compiti, tanto per tenere buona la madre. Nelle giornate di fine agosto provò alcune discese dopo forti piogge e andò tutto bene. La musica l’ascoltava qualche volta, tanto per caricarsi, però durante la discesa doveva esserci silenzio. A volte gli capitava di fissare la sua strada per delle ore; la studiava con cura. Aspettava il momento giusto, magari che il vento cessasse, soprattutto se era forte e di traverso. Quando il cielo era sereno andava meglio; ma una nuvola che passava davanti al sole o si fermava poteva essere un autentico rischio per la sua visibilità. Un cambiamento improvviso avrebbe potuto distrarlo, privandolo della giusta posizione, e quindi farlo cadere in terra. Ma in poco tempo era diventato più accorto e concentrato; non era più quello degli esordi. E non aveva paura. Quando entrava dentro il carrello e si buttava per quelle discese, si sentiva sicuro e felice come non lo era stato mai in vita sua; il senso delle sue giornate finiva lì, nel momento in cui il sole tramontava. “Peccato che non facciamo mai le vacanze estive, quest’anno te le saresti meritate davvero!” disse la madre una sera, contenta perché il figlio aveva finito tutti i compiti a pochi giorni dall’inizio della scuola. Una volta sola erano andati in vacanza, quando Giò era ancora troppo piccolo per ricordare. Trascorsero quasi un’intera estate in una piccola frazione di mare vicino Tropea, ospiti di una vecchia zia del padre. Ma la donna non poteva certo sapere che il ragazzo stava già viaggiando – a modo suo – tutti i giorni, ed era felice così, forse almeno quanto i suoi compagni in vacanza ad Alassio, a Londra o in Australia. L’arrivo di settembre e della scuola furono per Giò un vero fulmine a ciel sereno. Lui non era più lo stesso e niente – dopo quell’estate – avrebbe avuto senso per davvero se non quelle pazze discese in cui si riempiva i polmoni di un’abbondante provvista d’aria. Ma non sarebbe stata la fredda temperatura, il clima ostile, l’inverno e la neve, le giornate brevi, con poca luce, a fermare le sue gioie con il carrello, bensì le ore perdute nelle aule scolastiche, il ritorno a casa a pranzo, il pomeriggio, la cena, e poi l’inutile sonno durante la notte. Gli sarebbero rimasti il sabato o la domenica, uno di quei due giorni a scelta, poiché almeno uno avrebbe dovuto dedicarlo interamente ai compiti; così scelse il sabato per le faccende scolastiche, che considerava una perdita di tempo – anche se svolgeva sempre con maggiore impegno al fine di non creare sospetti in famiglia – mentre la domenica, che da sempre considerava noiosa, l’avrebbe dedicata ai suoi viaggi, alle sue spericolate discese. Il luogo era rimasto lo stesso, quella strada isolata dal mondo, a pochi minuti da casa sua; e ogni volta che si buttava giù era come se fosse la prima volta, un evento al quale non rinunciava nemmeno quando aveva la febbre. Poi con la neve era tutta una cosa a parte. Nell’inverno del 1999 nevicò abbastanza da coprire la sua strada parecchi centimetri. La prima volta scese a fatica poiché – seppure molle – la neve finiva per superare abbondantemente le ruote e terminare dentro la gabbia del carrello, bloccandolo fin da subito. Tuttavia, una volta segnato il tracciato – perfettamente diritto – il carrello scendeva adagio e giungeva alla fine della sua consueta corsa. In alcune circostanze, Giò evitò di venire giù quando l’asfalto era troppo ghiacciato, soprattutto se lo era in alcuni tratti; non era così folle – o meglio – se fosse caduto malamente non avrebbe potuto più scendere durante le sue domeniche e nei mesi estivi: con un braccio o una gamba fratturata, o alla peggio un colpo in testa e chissà cos’altro, si sarebbe concluso il suo bel sogno. Ma un giorno l’avrebbe fatto, lo promise a se stesso e al carrello; gli mancava solamente esperienza, doveva pazientare ancora un po’, per questo e per altro di più ambizioso. E a proposito di questa sua insolita attività, lui non ne aveva ancora parlato con nessuno. A scuola era senza amici, ma non aveva nemmeno dei nemici, gente che lo infastidisse. Giò si faceva i fatti suoi, viveva nel suo piccolo mondo silenzioso. Durante l’intervallo rimaneva con i suoi compagni nei corridoi; talvolta li ascoltava distrattamente e rideva alle loro battute. Una volta i suoi compagni di classe lo avevano invitato ad una festa il sabato pomeriggio, in una delle loro case lussuose, spesso situate ai piedi della collina o nel centro storico della città, però lui aveva rifiutato; durante il sabato doveva studiare, in modo da non avere più scomodi impegni di studio per la sua domenica ‘santa’. Solo verso maggio rivelò il suo segreto a colui che reputava un buon conoscente, un certo Richi detto ‘il capellone’, uno fissato con la musica dei Metallica, un ragazzino che – proprio come Giò – fiatava poco. Quando questo parlava non si capiva molto, poiché andava troppo veloce; e a tredici anni era lì che citava filosofi tipo Nietzsche. Giò lo invitò ad una sua esibizione in una domenica già caldissima e abbastanza ventosa. Lo accompagnò in fondo alla stradina – in un lato – chiedendogli di chiudere gli occhi per qualche minuto fino a che non gli avrebbe fatto un urlo. Richi annuì, si accese una sigaretta e chiuse gli occhi. Giò slegò il suo carrello, che teneva sempre attaccato al cancello con la catena per le biciclette; risalì la stradina, ci si mise dentro – facendo anche attenzione che le auto dietro di lui non lo sfiorassero – quindi urlò: “Apri!”. Scese a gran velocità, e anche se il vento era un poco di traverso, rimase in equilibrio, finendo contro i materassi. Tutto era andato a meraviglia. Richi rimase di pietra, con la sigaretta in bocca che aveva smesso di aspirare. Non disse nulla per qualche minuto, borbottò qualcosa, gesticolando, forse erano delle citazioni filosofiche. Poi lo abbracciò forte. Il ‘capellone’ – come detto – era uno che stava per i fatti suoi, con quel faccino da faina, nascosto da lunghi capelli neri. Però il giorno seguente, verso la fine della mattinata, tutti i ragazzini della scuola evidentemente capirono le sue parole, poiché vennero a conoscenza dell’impresa di Giò con il suo carrello. La notizia si era diffusa durante l’intervallo, e così all’uscita soprattutto i ragazzini dell’ultimo anno gli chiesero spiegazioni; Giò era molto imbarazzato, ma li invitò senza esitazione ad assistere ad una sua discesa per la domenica a venire. Nessuna ragazzina – invece – gli disse qualche cosa; però lui si era accorto che una delle più carine, quella con le guance arrossate e i lunghi capelli biondi – Rosa o Chiara, non ricordava mai il nome – che durante l’intervallo o all’uscita spesso girava a braccetto con due sue amichette occhialute – quasi fossero una cosa sola – quella mattina gli si era avvicinata per un attimo, accennando un sorriso. Per Giò quello fu un giorno strano. La domenica pomeriggio la ragazzina bionda non venne, però la solita stradina si riempì di piccoli curiosi. Molti arrivarono a piedi, in bicicletta o accompagnati nei pressi in auto dai genitori, con il pretesto di andare al parco per vedere l’alta statua con il faro, il panorama, le montagne sullo sfondo con le cime ancora innevate. Alcuni si erano accalcati in fondo alla strada, a ridosso del cancello della villa abbandonata; altri si erano messi ai bordi di essa, come spettatori che assistono ad una gara di sci alpino. C’era anche Anna, la ragazza detta ‘la rivoluzionaria’, una tizia con i capelli rasati e i grandi occhi azzurri, la quale amava ripetere che un giorno avrebbe fatto carne alla brace di quella brutta gente borghese. (Ovvero avrebbe bruciato tutte le case in collina compresa la sua, un villone circondato da uno sterminato giardino). Fu Richi ad organizzare l’evento; la star e il suo carrello sarebbero dovuti apparire solo all’ultimo, dal principio della ripida stradina. Invece si erano nascosti dentro la villa abbandonata che andava a pezzi ed era quasi più un rischio rimanere lì dentro per troppo tempo che fare una discesa ad occhi chiusi. Ma a preoccupare Giò non era questo e nemmeno la folla o le condizioni atmosferiche; quel giorno c’era un gran sole e il vento era assente. Anche fisicamente si sentiva a posto, non aveva alcun dolore, nemmeno quel solito leggero male alla testa. Lui scendeva per se stesso, se poi gli altri si divertivano a vederlo tanto meglio per loro, pensò. E se poi fosse caduto, pazienza. In realtà la sera prima, con la testa nascosta sotto il cuscino, aveva pianto. Sapeva che dopo quella discesa le voci dei figli sarebbero giunte alle orecchie dei genitori; e così anche i suoi lo avrebbero saputo, ma questa volta mai lo avrebbero perdonato, strappandogli l’unica cosa che veramente lo rendeva felice, il suo carrello. Durante il sonno vide tutto: la crisi isterica della madre, le botte del padre, il carrello fatto a pezzi, le ruote devastate, la gabbia presa a calci, sfondata, i resti abbandonati vicino a un bidone dell’immondizia, e addio. Non ci sarebbe più stata un’altra estate così e le sue belle domeniche trascorse durante le altre stagioni. Eppure aveva ancora tante cose da fare; sapeva che con il tempo avrebbe imparato a dominare il suo carrello e scendere anche con il ghiaccio, con una tempesta di vento oppure in controluce, magari ad occhi chiusi. E questo era niente. C’erano altre vie simili alla sua sparse per la collina. Però il suo più grande desiderio era quello di dedicarsi a qualunque strada in discesa, facendo tutte le curve, partendo dalla cima della collina fino a giungere in città, senza mai cadere. Un giorno sarebbe riuscito a fare ciò senza modificare il suo carrello con artifici tecnici, tipo freni, volanti o altre piccole invenzioni? E poi da grande – a vent’anni – non si sarebbe sentito troppo stretto lì dentro? Nella villa pensò a tutto questo. Poi uscirono – lui e il carrello – dal cancello arrugginito che si apriva a stento. Il pubblico era in silenzio. Salirono fino al principio della stradina. Presero posizione. Giò si distese con la pancia in giù. Fece un lungo respiro e lasciò andare i piedi che gli fuoriuscivano dal carrello, staccandoli dall’asfalto. Erano in corsa. Si mise quasi seduto, con il sedere leggermente alzato; le braccia erano larghe in avanti, le mani stringevano i bordi. Tutto il corpo era proteso in avanti; gli occhi fissavano i materassi. Fu un incantevole viaggio durato rari secondi, sempre troppo pochi e la discesa si concluse alla grande come sempre. Ci fu un boato. I ragazzi urlarono, applaudirono come se Giò fosse una rock star o un grande atleta. Lo circondarono, mentre lui era rimasto dentro al carrello per riflettere sul luogo dove avrebbe potuto nasconderlo nel momento in cui quella strana festa sarebbe finita. L’ultima discesa un cazzo, pensò ancora: mio caro amico carrello, non so come, ma un giorno faremo tutte le discese del mondo. Fu questo il suo secondo pensiero, forse eccitato per l’affetto della folla entusiasta che gridava sempre più forte per quella loro stravagante impresa.

lunedì 1 aprile 2013

L'UOMO CHE NON SMETTEVA DI RIDERE (VERSIONE 2013, CORRETTA)

Quando gli accadde il fatto dell'attacco di riso continuo, che sconvolse la sua esistenza da un giorno all'altro, Lorenzo aspettava l'autobus in un'affollata fermata poco fuori città. Era la sua seconda settimana di lavoro; si trattava di una supplenza in materie letterarie in un istituto di suore. Per il giovane uomo si trattava di una piccola rivincita poiché proprio in quella stessa scuola era cresciuto, frequentando le elementari e le medie - senza però grande successo - collezionando voti al limite della sufficienza in quasi tutte le materie, e in particolare in quella che poi sarebbe diventata la sua specializzazione, l'italiano. “Tu scrivi in un modo... in un modo! Questo tema è quasi illeggibile!” gli ripeteva la vecchia professoressa, riconsegnandogli il foglio protocollo, nel silenzio generale. Con il tempo - però - le cose cambiarono: il ragazzo si applicò maggiormente, appassionandosi alla poesia italiana, alle lingue straniere e alla storia classica, mentre la vecchia insegnante veniva portata via da un terribile cancro ai polmoni. Spesso ci pensava ad inizio giornata, mentre attendeva l'autobus che lo portava nei pressi del centro storico della sua città. Ma la mattina in cui il riso gli rubò l'anima, le sue riflessioni vennero oscurate dalla terribile voce di un vecchio che cantava accompagnandosi con un violino scordato: era un mendicante e chiedeva soldi. “La...la...la...la...la...” strillava. Nessuno tra i presenti lo degnò di uno sguardo. Solamente Lorenzo si mise la mano in tasca per estrarre tutto ciò che aveva: un euro e venti. Malgrado provasse fastidio per quel bizzarro uomo, si sentiva in dovere di aiutarlo; e in un momento il vecchio si era già avventato su di lui come un avvoltoio sopra un cadavere per ritirare gli spiccioli. Nonostante lo scarso contributo lo ringraziò molto, facendo un piccolo inchino; poi si allontanò, continuando a suonare e a cantare. Il rumore del pullman in arrivo cancellò quella straziante musica. Una volta salito, Lorenzo ebbe un improvviso forte dolore al petto come mai lo aveva avuto in vita sua; durò alcuni istanti. Sapendo poco della composizione del corpo umano e non avendo mai avuto nulla che non fosse un raffreddore o un mal di testa, si preoccupò. Poi chiuse gli occhi e ripensò al fatto della sua ignoranza: per esempio non conosceva nemmeno la differenza tra stomaco e pancia o dove fosse la milza. Riaprì gli occhi. Il pullman era pieno, come sempre a quell'ora. Gli venne da tossire, due, tre, quattro volte. Guardò fuori dai grandi finestrini: c'erano case di cinque o sei piani, le vetrate degli ingressi di quei palazzi che riflettevano la luce del sole autunnale, il solito traffico. Poi - senza alcun motivo - gli uscì dalla bocca una breve risata. Non capì bene il perché. Volgendo ora lo sguardo dentro il pullman carico come un carro da bestiame, rise di nuovo. Tuttavia questo poteva essere divertente per davvero e allora un senso c'era. Riprese a guardare fuori, ma rise nuovamente. Ogni cosa improvvisamente era diventata buffa: una donna con in braccio un bambino che scendeva e un'altra donna che saliva, un signore anziano che cercava nelle tasche il biglietto del pullman, l'autista che frenava di colpo. Lorenzo si mise la mano davanti la bocca e guardò fuori, ma anche il paesaggio urbano lo faceva soffocare dalle risate che già si sentivano per tutto il bus. La gente cominciò a prenderlo per matto. “Scemo!” gli urlò uno. Lui stava all'incirca a metà del pullman. Cominciò anche a sudare. Alcuni adolescenti ammassati in fondo lo fissarono divertiti e lui - viceversa - trovò in loro qualcosa di irresistibile: e giù un'altra risata. Oramai era nel pieno di una strana crisi. Ma il giovane uomo aveva anche la speranza che con un po' d'acqua - una volta sceso dal pullman, trovata una fontana - sarebbe ritornato normale. Molti passeggeri scesero alla sua fermata, in una grande piazza. Qualcuno gli diede una spinta da dietro, ma senza farlo cadere. Lorenzo era molto sudato: la sua giacca nera, la camicia bianca, pure i jeans neri avrebbero impuzzolito a breve tutta la sua scuola. Si mise a correre verso la fontana più vicina, ma alla vista di una testa di toro che sputava acqua, rise e non bevve. Entrando a scuola, gli venne alla mente un fatto avvenuto quando lui frequentava la prima o la seconda elementare. La sua maestra - una suora - riuscì a calmare l'attacco di singhiozzo di un bambino facendogli recitare la tabellina del tre o del cinque. Ora proprio quella suora - una donna ancora abbastanza giovane - se la ritrovò di fronte nell'atrio. Forse Suor Renata aveva una cura adatta per il suo attacco? Gli avrebbe fatto recitare le lettere dell'alfabeto - magari al contrario - così gli sarebbe passato quel suo assurdo malessere? Correndo la salutò con un “Buongiorno” ma lei non rispose nemmeno. Lui prese il corridoio semibuio che da bambino gli pareva infinito e misterioso, si chiuse nel bagno degli insegnanti, e lì scaricò una enorme risata che rimbombò per tutto l'edificio. Bevve l'acqua un po' amara del rubinetto del piccolo lavandino; fece la pipì nel minuscolo water, e così - finalmente - si accorse che quello non era nemmeno il bagno degli insegnanti, ma dei bambini delle elementari; seguì un'altra risata. Rimase comunque lì dentro - al buio - a riflettere per un po'. Fuori dalla scuola c'era molta luce. Quel giorno era un venerdì: Lorenzo avrebbe avuto solo due ore di lezione, mentre il mercoledì e il giovedì ne aveva quattro. “Due ore, meglio che quattro!” Era molto confuso ed anche il tempo passava; erano già le sette e cinquanta minuti. Uscì dal bagno alle otto in punto e si presentò in classe di fronte ad una ventina di ragazzini taciturni. Avrebbe potuto interrogarli tutti facendo delle domande impossibili e ridere delle loro risposte; pensò a questo mentre gli scappava una piccola risata, che riuscì a mascherare allungandola con un colpo di tosse. D'altronde aveva sempre fatto così: in treno, in ascensore o alle cene, quando, per evitare il noioso rituale del “salute-grazie-prego” ad ogni suo starnuto, Lorenzo riusciva ad arrangiarlo con due o tre colpetti ravvicinati di finta tosse. E in questo era un piccolo maestro. Soltanto che nell'assurda situazione in cui si trovava, il giochetto non avrebbe retto per due ore, e prima o poi gli allievi lo avrebbero scoperto. Si fece forza; finalmente esordì, saltando l'appello: “Buongiorno ragazze e ragazzi! Come vedete sono di buon umore e ho qualcosa da proporvi: oggi non faremo grammatica, AH AH, e non ci sarà alcuna interrogazione, ma AH AH AH AH faremo un tema sul significato del ridere!” I ragazzi rimasero freddi. La più bellina e fisicamente sviluppata alzò la mano e chiese se poteva andare in bagno. Lorenzo rispose di sì ridendo, e lei uscì. “Allora vi spiego tutto. Intanto, per favore, qualcuno vada a prendere i fogli protocollo in segreteria”. Nessuno si alzò. Questa geniale improvvisata - secondo il giovane supplente - gli avrebbe anche permesso di ridere liberamente ed essere così in filo diretto con l'argomento del compito scritto. Poi continuò: “Il riso ha una storia antichissima. Bisognerebbe partire da...” ma venne educatamente interrotto da un'altra ragazzina, che disse: “Tra cinque minuti c'è la preghiera per ricordare l'ex preside e insegnante Giovannina Masera, morta di cancro diversi anni fa.” Si trattava proprio della sua ex insegnante, che durante le medie, lo aveva spesso umiliato. “Giovannina Mas... Ma certo! Lo sapevate che un tempo era stata anche mia insegnante?” aggiunse con preoccupazione. La preghiera poteva durare trenta minuti, anche un'ora. Era ovvio che Lorenzo non avrebbe potuto partecipare: ci sarebbe stato tutto il corpo insegnante, le suore, gli allievi, alcuni ex allievi, i familiari della defunta e il prete del quartiere. “Professore, lei dovrà leggere tutte le nostre preghiere, ogni insegnante lo farà” aggiunse l'allieva. “Ma io non sapevo nulla AH AH non posso, ho un problemino alle corde vocali!” rispose lui, nell'indifferenza generale. Dieci minuti più tardi - infatti - non recitò nessuna preghiera per la cara defunta, poiché venne sbattuto fuori a calci nel culo dal giardiniere dell'istituto, un vecchio aitante di nome Roberto (che pare fosse anche l'amante della scomparsa); per Lorenzo era bastato un solo lungo scoppio di risata, simile ad una mitraglietta. Fuori dalla scuola c'era sempre un gran sole e nell'aria si sentiva l'odore del vento. Prese l'autobus di ritorno verso casa. Fortunatamente non c'era nessun passeggero, tranne una donna sulla quarantina, con in mano due grossi sacchi della spesa. Lui rise tutto il tempo, anche mentre l'aiutava a scendere e lei lo ringraziò con un sorriso imbarazzato. Dallo specchietto l'autista del pullman gli lanciò alcune occhiatacce. Il traffico a metà mattinata era quasi assente, e così Lorenzo giunse nella propria casa in poco più di mezz'ora. Viveva al quinto piano di un palazzo con mattoni scuri luccicanti. Tutte le tende dei balconi erano di colore verde. La madre e il padre a quell'ora erano a lavoro in ufficio. Nell'elegante trilocale viveva anche un gatto grigio mezzo pelo. Lorenzo si buttò nel letto della sua stanza e cercò di addormentarsi, senza riuscirci. Fissava le pareti piene di poster che ritraevano scene di film e poi di cantanti, gruppi musicali e di eroi del wrestling. Rise per quelle immagini che aveva davanti a sé tutti i giorni da una vita e che ancora amava. In quel momento anche la perdita del lavoro lo faceva ridere così tanto da fargli bagnare il cuscino di saliva. Verso l'una del pomeriggio si alzò dal letto per rispondere al citofono: era la madre. Lui non aveva nemmeno apparecchiato la tavola. Lei entrò in casa, accese il televisore per sentire il telegiornale, soprattutto la cronaca nera. Lorenzo non le raccontò nulla riguardo alla sua misteriosa crisi. Le disse solamente che aveva bevuto un paio di bicchieri di vino in un bar del centro con un collega che festeggiava il compleanno; ma la donna cucinava e non lo ascoltava. Lui non mangiò nulla perché così avrebbe rischiato di soffocarsi, e si chiuse nella sua stanza per riflettere. Gli facevano male gli addominali, ma continuò a ridere per tutto il pomeriggio. Per evitare che la madre s'insospettisse sentendo quelle urla, lui accese lo stereo ad alto volume e ascoltò svariate canzoni pop-rock degli anni novanta. Per alcuni minuti l'attacco di riso gli dava tregua, ma poi tornava; costante era quel sorriso fissato sulla sua bocca che non se ne andava più. Gli facevano male le guance; le massaggiò lentamente per due ore, fece lunghi e distintivi respiri che aveva imparato in qualche corso serale di training autogeno. Ma poi tornava sempre a ridere. Fino a quel momento la sua risata era stata un “ah” d'intensità e durata mutevole e mai aveva prodotto un “oh” oppure un “eh”. Anche quando andava a vedere i film comici americani - seminascosto da un cappellino sportivo, in modo tale che qualche suo conoscente, di passaggio fuori dal cinema, fissato solo con le pellicole d'autore, non avrebbe potuto riconoscerlo poiché lo avrebbe giudicato un tipo poco intellettuale - lui rideva sempre alla stessa maniera: “Ah, ah, ah...” Provò ad addormentarsi, ma era difficile, un po' come quando si ha una forte tosse. Poi squillò il telefono; prese il suo cellulare vecchio modello che usava poco e rispose subito: “Ehi come va?” disse una voce femminile. “Ciao! Ah, ah!” rispose lui. “Che allegria signorino Lorenzo, ma sei proprio tu?” disse lei. Era Chiara, la sua amica. “Allora stasera ci vediamo al circolo alle 20.30! Non c'è bisogno che mi vieni a prendere, mi accompagna già Ale. A dopo!” Lorenzo non riuscì neanche a capire di cosa si trattasse, ma ebbe un brutto presentimento. Accese il computer per controllare l'e-mail: si trattava di una festa del circolo culturale nel quartiere multi-etnico vicino al centro storico della loro città, dove Chiara lavorava come organizzatrice culturale e soprattutto come barista. Il menù della serata era il seguente: ore 21.00, proiezione del documentario Le donne in Iran. ore 22.00, dibattito con testimonianze dirette di donne che raccontano la loro vita in Iran e la nuova vita in Italia e in Francia. ore 23.00 musica iraniana suonata dal vivo e bibite a due euro. Chiara era un'affascinante ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi verdi, piena di vita e di interessi legati al sociale; talvolta era scontrosa e logorroica. Si vestiva sempre con gonne lunghe colorate anche quando - in pieno inverno - si spostava in bicicletta da una parte all'altra della città. Lui ne era profondamente innamorato da almeno dieci anni e lei finalmente stava lentamente ricambiando. Anche fisicamente. Negli ultimi mesi erano addirittura riusciti a dormire insieme per una notte - nella stanza di Chiara - in una casa abitata anche da studenti universitari fuori corso. Lorenzo ripensò alla sua situazione sentimentale e si fece una bella risata. Quella sera non poteva mancare, ma se per la parte musicale le sue risate sarebbero state coperte dagli strumenti suonati dal vivo, come avrebbe fatto per il documentario e soprattutto per il dibattito successivo? Si vestì in fretta, voleva uscire di casa per riflettere; magari avrebbe raccontato a Chiara ciò che gli stava capitando, ma alla fine gli avrebbe creduto? Le crisi esistono e possono durare qualche minuto o più; ma lui non aveva mai letto una cosa simile alla sua, forse nemmeno in qualche romanzo. Tempo prima aveva sentito alla radio la storia di una bambina che starnutiva ogni pochi secondi senza mai fermarsi, neanche quando dormiva. Fece un lungo respiro, mangiò un mezzo panino, mentre suo padre rientrava a casa dal lavoro. Uscì di casa. Nel frattempo le nuvole avevano nascosto il sole. Camminando lentamente sul marciapiede del lungo corso che portava dritto nel cuore della città, si accorse che ormai aveva smesso di ridere da diversi minuti; quel sorriso stampato sulla sua faccia era svanito. “Forse è tutto passato?” pensò. Si fermò, guardandosi attorno: gli alberi erano pieni di foglie ancora verdi mosse da un vento leggero. La gente entrava e usciva dai vari negozi del corso; una signora sulla cinquantina fumava una sigaretta molto sottile mentre portava a spasso un piccolo cane; le auto sfrecciavano e altri piccoli eventi minimi, ma nessuno di questi gli provocò una risata. Riprese a camminare, poi si fermò nuovamente. Doveva avere altre prove: a pochi metri c'era un bar pieno di ubriachi. Lo sapeva perché fin dall'adolescenza ci passava vicino con il pullman e vedeva sempre gli stessi uomini seduti ai tavoli che bevevano, fumavano e giocavano a carte, dalla mattina alla sera. Lorenzo decise di entrare e ordinò - appoggiandosi al bancone - un caffè, un bicchiere d'acqua e un panino con speck e brie. Il titolare - un uomo calvo con i baffi - gli disse di accomodarsi; poi aggiunse che mancava lo speck e pure il brie. Lorenzo non rise. Un uomo al tavolo vicino al suo dormiva russando. Mangiò un panino al prosciutto cotto, bevve un caffè e un bicchierone d'acqua frizzante, senza mai ridere. Uscì felice - forse era guarito, pensò - mentre il titolare del bar lo richiamò poiché nell'euforia il giovane uomo si era dimenticato di pagare. Riprese a camminare per tutta la città, percorrendo anche due o tre volte le stesse piazze, poiché era in anticipo. Una volta arrivato nei pressi del circolo in cui lavorava Chiara, sentì un fortissimo male alla testa, come se qualcuno gli avesse tirato una bastonata; poi il dolore passò immediatamente. Davanti al circolo - però - tornò a ridere. C'erano alcuni suoi conoscenti che fumavano davanti all'ingresso. “Eccolo qui” disse uno a Lorenzo; questo personaggio lui lo incrociava in giro nei locali da almeno dieci anni, ma non sapeva né come si chiamasse né cosa facesse nella vita. Ma tutto ciò gli importava poco perché la crisi era tornata. Vide Chiara che lo salutò con due semplici baci frettolosi su entrambe le guance. “Vai dentro e tienimi un posto in prima fila!” disse lei. Lui rise, Chiara lo guardò in modo strano. Poi eseguì l'ordine: entrò e prese posto per due in prima fila. La piccola e fredda sala di proiezione, che era al piano sotto la pista da ballo, si riempì in pochi minuti: le persone che prima fumavano e scherzavano davanti al locale, ora stavano in silenzio, in attesa che l'evento cominciasse. “Grazie, ma che hai?” sussurrò Chiara, che nel frattempo si era seduta accanto a lui. “Ho male ai denti!” rispose Lorenzo, tenendo le due mani sulla bocca. Ogni tanto tossiva. Nel mentre entrarono una serie di donne - italiane e iraniane - dall'aria minacciosa, pronte ad introdurre il filmato. Pochi metri di fronte l'entusiasta Chiara c'era il povero e sudato Lorenzo, che ogni tanto tossiva e soffiava sulle proprie mani. L'introduzione alla serata fu stranamente molto breve, presagio di un lungo dibattito a seguire. Le luci si spensero e partirono le immagini. L'audio era molto basso e per questo dettaglio tecnico - cosa di non poco conto per l'ex supplente - le organizzatrici si erano già scusate. Il film iniziò con un primo piano di una donna iraniana senza velo, che raccontava nella propria lingua - con sottotitoli in italiano - le tremende violenze che aveva dovuto subire da parte del padre e del fratello, quando abitava con loro a Teheran. Inoltre raccontò lo stupro da parte del suo fidanzato, la coraggiosa fuga in Europa, prima in Francia, poi in Italia. Lorenzo stava soffocando dalle risate. L'aria compressa tra le dita creava un effetto tipo scoreggia. Ne aveva fatte già molte e il film era appena all'inizio. Tutti i presenti se ne erano già accorti; ora stizziti, cominciarono a criticare l'intruso gridandogli “Fuori...vergogna...fuori!” Chiara non lo guardava nemmeno, fissava lo schermo, fingeva di non conoscerlo. All'improvviso lui liberò le mani dalla bocca, si gettò in terra e scaricò tutte le risate represse. Raggiunse il massimo di intensità, forse la più fragorosa risata della sua vita. Questo - però - era anche l'unico modo per non morire soffocato. Aveva male in tutte le parti del corpo. A quattro zampe - con le lacrime agli occhi - fuggì da quel luogo tra gli insulti, e si ritrovò fuori per le strade della città. Era buio. Si alzò un forte vento improvviso che quasi lo spinse lontano da quel posto; Lorenzo aveva sempre amato il vento, forse era il suo agente atmosferico preferito. E così vagò divertito per le strade durante tutta la notte, tra le lacrime e soffocato dalle risate. Infine si addormentò, sognando di essere a Tokyo, città che ammirava molto anche se non ci era mai stato. Anche in sogno non aveva mai smesso di ridere. Si risvegliò il mattino verso l'alba, con un forte male alla testa, proprio alla fermata del pullman dove tutte le sue disgrazie avevano avuto inizio. Udì nuovamente quell'orrendo suono di violino e la vecchia voce stonata: “La...la...la...la...la...la...” Lorenzo si alzò in piedi, lentamente. C'erano quattro o cinque persone che aspettavano il pullman. Il vecchio mendicante passava davanti ad ognuno di loro, ma questi restavano immobili come manichini, finché giunse proprio davanti a lui. “La...la...la...! Hai qualche soldo per un artista?” Lorenzo lo fissò negli occhi; poi gli urlò: “Brutto figlio di troia! Brutto figlio di troia! E' colpa tua! Mi hai fatto un incantesimo, mi hai rovinato la vita! Testa di cazzo!” E come dargli torto? Effettivamente tutte le sue disavventure erano cominciate proprio dopo quell'incontro e quella musica vomitevole. Il vecchio smise di suonare il violino. “Che dice Signor?” chiese lui stranito. Lorenzo gli saltò addosso e i due finirono per rotolare nell'erba lì vicino. Il vecchio gli tirò due cazzotti in faccia e la rissa finì immediatamente. Riprese il suo violino e l'archetto e se ne andò via. Il giovane rimase coricato in quel prato pieno di piccoli sacchetti, con la testa rivolta al cielo tutto bianco. Si sarebbe aspettato un colpo di scena, una frase illuminante, qualsiasi cosa che gli avrebbe finalmente chiarito l'intera sua vicenda; e invece niente, sembrava finita così. “E se è stato tutto un sogno?” sussurrò a se stesso. Però i due pugni presi erano reali e un po' di sangue gli colava dal naso. Ora non gli veniva più da ridere. Rimase a lungo coricato a fissare il cielo. La nebbia lo avvolgeva e, nonostante il freddo e il dolore che provava in tutto il corpo, finalmente si sentiva felice. Solo più tardi si alzò per fare ritorno a casa.