lunedì 1 aprile 2013

L'UOMO CHE NON SMETTEVA DI RIDERE (VERSIONE 2013, CORRETTA)

Quando gli accadde il fatto dell'attacco di riso continuo, che sconvolse la sua esistenza da un giorno all'altro, Lorenzo aspettava l'autobus in un'affollata fermata poco fuori città. Era la sua seconda settimana di lavoro; si trattava di una supplenza in materie letterarie in un istituto di suore. Per il giovane uomo si trattava di una piccola rivincita poiché proprio in quella stessa scuola era cresciuto, frequentando le elementari e le medie - senza però grande successo - collezionando voti al limite della sufficienza in quasi tutte le materie, e in particolare in quella che poi sarebbe diventata la sua specializzazione, l'italiano. “Tu scrivi in un modo... in un modo! Questo tema è quasi illeggibile!” gli ripeteva la vecchia professoressa, riconsegnandogli il foglio protocollo, nel silenzio generale. Con il tempo - però - le cose cambiarono: il ragazzo si applicò maggiormente, appassionandosi alla poesia italiana, alle lingue straniere e alla storia classica, mentre la vecchia insegnante veniva portata via da un terribile cancro ai polmoni. Spesso ci pensava ad inizio giornata, mentre attendeva l'autobus che lo portava nei pressi del centro storico della sua città. Ma la mattina in cui il riso gli rubò l'anima, le sue riflessioni vennero oscurate dalla terribile voce di un vecchio che cantava accompagnandosi con un violino scordato: era un mendicante e chiedeva soldi. “La...la...la...la...la...” strillava. Nessuno tra i presenti lo degnò di uno sguardo. Solamente Lorenzo si mise la mano in tasca per estrarre tutto ciò che aveva: un euro e venti. Malgrado provasse fastidio per quel bizzarro uomo, si sentiva in dovere di aiutarlo; e in un momento il vecchio si era già avventato su di lui come un avvoltoio sopra un cadavere per ritirare gli spiccioli. Nonostante lo scarso contributo lo ringraziò molto, facendo un piccolo inchino; poi si allontanò, continuando a suonare e a cantare. Il rumore del pullman in arrivo cancellò quella straziante musica. Una volta salito, Lorenzo ebbe un improvviso forte dolore al petto come mai lo aveva avuto in vita sua; durò alcuni istanti. Sapendo poco della composizione del corpo umano e non avendo mai avuto nulla che non fosse un raffreddore o un mal di testa, si preoccupò. Poi chiuse gli occhi e ripensò al fatto della sua ignoranza: per esempio non conosceva nemmeno la differenza tra stomaco e pancia o dove fosse la milza. Riaprì gli occhi. Il pullman era pieno, come sempre a quell'ora. Gli venne da tossire, due, tre, quattro volte. Guardò fuori dai grandi finestrini: c'erano case di cinque o sei piani, le vetrate degli ingressi di quei palazzi che riflettevano la luce del sole autunnale, il solito traffico. Poi - senza alcun motivo - gli uscì dalla bocca una breve risata. Non capì bene il perché. Volgendo ora lo sguardo dentro il pullman carico come un carro da bestiame, rise di nuovo. Tuttavia questo poteva essere divertente per davvero e allora un senso c'era. Riprese a guardare fuori, ma rise nuovamente. Ogni cosa improvvisamente era diventata buffa: una donna con in braccio un bambino che scendeva e un'altra donna che saliva, un signore anziano che cercava nelle tasche il biglietto del pullman, l'autista che frenava di colpo. Lorenzo si mise la mano davanti la bocca e guardò fuori, ma anche il paesaggio urbano lo faceva soffocare dalle risate che già si sentivano per tutto il bus. La gente cominciò a prenderlo per matto. “Scemo!” gli urlò uno. Lui stava all'incirca a metà del pullman. Cominciò anche a sudare. Alcuni adolescenti ammassati in fondo lo fissarono divertiti e lui - viceversa - trovò in loro qualcosa di irresistibile: e giù un'altra risata. Oramai era nel pieno di una strana crisi. Ma il giovane uomo aveva anche la speranza che con un po' d'acqua - una volta sceso dal pullman, trovata una fontana - sarebbe ritornato normale. Molti passeggeri scesero alla sua fermata, in una grande piazza. Qualcuno gli diede una spinta da dietro, ma senza farlo cadere. Lorenzo era molto sudato: la sua giacca nera, la camicia bianca, pure i jeans neri avrebbero impuzzolito a breve tutta la sua scuola. Si mise a correre verso la fontana più vicina, ma alla vista di una testa di toro che sputava acqua, rise e non bevve. Entrando a scuola, gli venne alla mente un fatto avvenuto quando lui frequentava la prima o la seconda elementare. La sua maestra - una suora - riuscì a calmare l'attacco di singhiozzo di un bambino facendogli recitare la tabellina del tre o del cinque. Ora proprio quella suora - una donna ancora abbastanza giovane - se la ritrovò di fronte nell'atrio. Forse Suor Renata aveva una cura adatta per il suo attacco? Gli avrebbe fatto recitare le lettere dell'alfabeto - magari al contrario - così gli sarebbe passato quel suo assurdo malessere? Correndo la salutò con un “Buongiorno” ma lei non rispose nemmeno. Lui prese il corridoio semibuio che da bambino gli pareva infinito e misterioso, si chiuse nel bagno degli insegnanti, e lì scaricò una enorme risata che rimbombò per tutto l'edificio. Bevve l'acqua un po' amara del rubinetto del piccolo lavandino; fece la pipì nel minuscolo water, e così - finalmente - si accorse che quello non era nemmeno il bagno degli insegnanti, ma dei bambini delle elementari; seguì un'altra risata. Rimase comunque lì dentro - al buio - a riflettere per un po'. Fuori dalla scuola c'era molta luce. Quel giorno era un venerdì: Lorenzo avrebbe avuto solo due ore di lezione, mentre il mercoledì e il giovedì ne aveva quattro. “Due ore, meglio che quattro!” Era molto confuso ed anche il tempo passava; erano già le sette e cinquanta minuti. Uscì dal bagno alle otto in punto e si presentò in classe di fronte ad una ventina di ragazzini taciturni. Avrebbe potuto interrogarli tutti facendo delle domande impossibili e ridere delle loro risposte; pensò a questo mentre gli scappava una piccola risata, che riuscì a mascherare allungandola con un colpo di tosse. D'altronde aveva sempre fatto così: in treno, in ascensore o alle cene, quando, per evitare il noioso rituale del “salute-grazie-prego” ad ogni suo starnuto, Lorenzo riusciva ad arrangiarlo con due o tre colpetti ravvicinati di finta tosse. E in questo era un piccolo maestro. Soltanto che nell'assurda situazione in cui si trovava, il giochetto non avrebbe retto per due ore, e prima o poi gli allievi lo avrebbero scoperto. Si fece forza; finalmente esordì, saltando l'appello: “Buongiorno ragazze e ragazzi! Come vedete sono di buon umore e ho qualcosa da proporvi: oggi non faremo grammatica, AH AH, e non ci sarà alcuna interrogazione, ma AH AH AH AH faremo un tema sul significato del ridere!” I ragazzi rimasero freddi. La più bellina e fisicamente sviluppata alzò la mano e chiese se poteva andare in bagno. Lorenzo rispose di sì ridendo, e lei uscì. “Allora vi spiego tutto. Intanto, per favore, qualcuno vada a prendere i fogli protocollo in segreteria”. Nessuno si alzò. Questa geniale improvvisata - secondo il giovane supplente - gli avrebbe anche permesso di ridere liberamente ed essere così in filo diretto con l'argomento del compito scritto. Poi continuò: “Il riso ha una storia antichissima. Bisognerebbe partire da...” ma venne educatamente interrotto da un'altra ragazzina, che disse: “Tra cinque minuti c'è la preghiera per ricordare l'ex preside e insegnante Giovannina Masera, morta di cancro diversi anni fa.” Si trattava proprio della sua ex insegnante, che durante le medie, lo aveva spesso umiliato. “Giovannina Mas... Ma certo! Lo sapevate che un tempo era stata anche mia insegnante?” aggiunse con preoccupazione. La preghiera poteva durare trenta minuti, anche un'ora. Era ovvio che Lorenzo non avrebbe potuto partecipare: ci sarebbe stato tutto il corpo insegnante, le suore, gli allievi, alcuni ex allievi, i familiari della defunta e il prete del quartiere. “Professore, lei dovrà leggere tutte le nostre preghiere, ogni insegnante lo farà” aggiunse l'allieva. “Ma io non sapevo nulla AH AH non posso, ho un problemino alle corde vocali!” rispose lui, nell'indifferenza generale. Dieci minuti più tardi - infatti - non recitò nessuna preghiera per la cara defunta, poiché venne sbattuto fuori a calci nel culo dal giardiniere dell'istituto, un vecchio aitante di nome Roberto (che pare fosse anche l'amante della scomparsa); per Lorenzo era bastato un solo lungo scoppio di risata, simile ad una mitraglietta. Fuori dalla scuola c'era sempre un gran sole e nell'aria si sentiva l'odore del vento. Prese l'autobus di ritorno verso casa. Fortunatamente non c'era nessun passeggero, tranne una donna sulla quarantina, con in mano due grossi sacchi della spesa. Lui rise tutto il tempo, anche mentre l'aiutava a scendere e lei lo ringraziò con un sorriso imbarazzato. Dallo specchietto l'autista del pullman gli lanciò alcune occhiatacce. Il traffico a metà mattinata era quasi assente, e così Lorenzo giunse nella propria casa in poco più di mezz'ora. Viveva al quinto piano di un palazzo con mattoni scuri luccicanti. Tutte le tende dei balconi erano di colore verde. La madre e il padre a quell'ora erano a lavoro in ufficio. Nell'elegante trilocale viveva anche un gatto grigio mezzo pelo. Lorenzo si buttò nel letto della sua stanza e cercò di addormentarsi, senza riuscirci. Fissava le pareti piene di poster che ritraevano scene di film e poi di cantanti, gruppi musicali e di eroi del wrestling. Rise per quelle immagini che aveva davanti a sé tutti i giorni da una vita e che ancora amava. In quel momento anche la perdita del lavoro lo faceva ridere così tanto da fargli bagnare il cuscino di saliva. Verso l'una del pomeriggio si alzò dal letto per rispondere al citofono: era la madre. Lui non aveva nemmeno apparecchiato la tavola. Lei entrò in casa, accese il televisore per sentire il telegiornale, soprattutto la cronaca nera. Lorenzo non le raccontò nulla riguardo alla sua misteriosa crisi. Le disse solamente che aveva bevuto un paio di bicchieri di vino in un bar del centro con un collega che festeggiava il compleanno; ma la donna cucinava e non lo ascoltava. Lui non mangiò nulla perché così avrebbe rischiato di soffocarsi, e si chiuse nella sua stanza per riflettere. Gli facevano male gli addominali, ma continuò a ridere per tutto il pomeriggio. Per evitare che la madre s'insospettisse sentendo quelle urla, lui accese lo stereo ad alto volume e ascoltò svariate canzoni pop-rock degli anni novanta. Per alcuni minuti l'attacco di riso gli dava tregua, ma poi tornava; costante era quel sorriso fissato sulla sua bocca che non se ne andava più. Gli facevano male le guance; le massaggiò lentamente per due ore, fece lunghi e distintivi respiri che aveva imparato in qualche corso serale di training autogeno. Ma poi tornava sempre a ridere. Fino a quel momento la sua risata era stata un “ah” d'intensità e durata mutevole e mai aveva prodotto un “oh” oppure un “eh”. Anche quando andava a vedere i film comici americani - seminascosto da un cappellino sportivo, in modo tale che qualche suo conoscente, di passaggio fuori dal cinema, fissato solo con le pellicole d'autore, non avrebbe potuto riconoscerlo poiché lo avrebbe giudicato un tipo poco intellettuale - lui rideva sempre alla stessa maniera: “Ah, ah, ah...” Provò ad addormentarsi, ma era difficile, un po' come quando si ha una forte tosse. Poi squillò il telefono; prese il suo cellulare vecchio modello che usava poco e rispose subito: “Ehi come va?” disse una voce femminile. “Ciao! Ah, ah!” rispose lui. “Che allegria signorino Lorenzo, ma sei proprio tu?” disse lei. Era Chiara, la sua amica. “Allora stasera ci vediamo al circolo alle 20.30! Non c'è bisogno che mi vieni a prendere, mi accompagna già Ale. A dopo!” Lorenzo non riuscì neanche a capire di cosa si trattasse, ma ebbe un brutto presentimento. Accese il computer per controllare l'e-mail: si trattava di una festa del circolo culturale nel quartiere multi-etnico vicino al centro storico della loro città, dove Chiara lavorava come organizzatrice culturale e soprattutto come barista. Il menù della serata era il seguente: ore 21.00, proiezione del documentario Le donne in Iran. ore 22.00, dibattito con testimonianze dirette di donne che raccontano la loro vita in Iran e la nuova vita in Italia e in Francia. ore 23.00 musica iraniana suonata dal vivo e bibite a due euro. Chiara era un'affascinante ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi verdi, piena di vita e di interessi legati al sociale; talvolta era scontrosa e logorroica. Si vestiva sempre con gonne lunghe colorate anche quando - in pieno inverno - si spostava in bicicletta da una parte all'altra della città. Lui ne era profondamente innamorato da almeno dieci anni e lei finalmente stava lentamente ricambiando. Anche fisicamente. Negli ultimi mesi erano addirittura riusciti a dormire insieme per una notte - nella stanza di Chiara - in una casa abitata anche da studenti universitari fuori corso. Lorenzo ripensò alla sua situazione sentimentale e si fece una bella risata. Quella sera non poteva mancare, ma se per la parte musicale le sue risate sarebbero state coperte dagli strumenti suonati dal vivo, come avrebbe fatto per il documentario e soprattutto per il dibattito successivo? Si vestì in fretta, voleva uscire di casa per riflettere; magari avrebbe raccontato a Chiara ciò che gli stava capitando, ma alla fine gli avrebbe creduto? Le crisi esistono e possono durare qualche minuto o più; ma lui non aveva mai letto una cosa simile alla sua, forse nemmeno in qualche romanzo. Tempo prima aveva sentito alla radio la storia di una bambina che starnutiva ogni pochi secondi senza mai fermarsi, neanche quando dormiva. Fece un lungo respiro, mangiò un mezzo panino, mentre suo padre rientrava a casa dal lavoro. Uscì di casa. Nel frattempo le nuvole avevano nascosto il sole. Camminando lentamente sul marciapiede del lungo corso che portava dritto nel cuore della città, si accorse che ormai aveva smesso di ridere da diversi minuti; quel sorriso stampato sulla sua faccia era svanito. “Forse è tutto passato?” pensò. Si fermò, guardandosi attorno: gli alberi erano pieni di foglie ancora verdi mosse da un vento leggero. La gente entrava e usciva dai vari negozi del corso; una signora sulla cinquantina fumava una sigaretta molto sottile mentre portava a spasso un piccolo cane; le auto sfrecciavano e altri piccoli eventi minimi, ma nessuno di questi gli provocò una risata. Riprese a camminare, poi si fermò nuovamente. Doveva avere altre prove: a pochi metri c'era un bar pieno di ubriachi. Lo sapeva perché fin dall'adolescenza ci passava vicino con il pullman e vedeva sempre gli stessi uomini seduti ai tavoli che bevevano, fumavano e giocavano a carte, dalla mattina alla sera. Lorenzo decise di entrare e ordinò - appoggiandosi al bancone - un caffè, un bicchiere d'acqua e un panino con speck e brie. Il titolare - un uomo calvo con i baffi - gli disse di accomodarsi; poi aggiunse che mancava lo speck e pure il brie. Lorenzo non rise. Un uomo al tavolo vicino al suo dormiva russando. Mangiò un panino al prosciutto cotto, bevve un caffè e un bicchierone d'acqua frizzante, senza mai ridere. Uscì felice - forse era guarito, pensò - mentre il titolare del bar lo richiamò poiché nell'euforia il giovane uomo si era dimenticato di pagare. Riprese a camminare per tutta la città, percorrendo anche due o tre volte le stesse piazze, poiché era in anticipo. Una volta arrivato nei pressi del circolo in cui lavorava Chiara, sentì un fortissimo male alla testa, come se qualcuno gli avesse tirato una bastonata; poi il dolore passò immediatamente. Davanti al circolo - però - tornò a ridere. C'erano alcuni suoi conoscenti che fumavano davanti all'ingresso. “Eccolo qui” disse uno a Lorenzo; questo personaggio lui lo incrociava in giro nei locali da almeno dieci anni, ma non sapeva né come si chiamasse né cosa facesse nella vita. Ma tutto ciò gli importava poco perché la crisi era tornata. Vide Chiara che lo salutò con due semplici baci frettolosi su entrambe le guance. “Vai dentro e tienimi un posto in prima fila!” disse lei. Lui rise, Chiara lo guardò in modo strano. Poi eseguì l'ordine: entrò e prese posto per due in prima fila. La piccola e fredda sala di proiezione, che era al piano sotto la pista da ballo, si riempì in pochi minuti: le persone che prima fumavano e scherzavano davanti al locale, ora stavano in silenzio, in attesa che l'evento cominciasse. “Grazie, ma che hai?” sussurrò Chiara, che nel frattempo si era seduta accanto a lui. “Ho male ai denti!” rispose Lorenzo, tenendo le due mani sulla bocca. Ogni tanto tossiva. Nel mentre entrarono una serie di donne - italiane e iraniane - dall'aria minacciosa, pronte ad introdurre il filmato. Pochi metri di fronte l'entusiasta Chiara c'era il povero e sudato Lorenzo, che ogni tanto tossiva e soffiava sulle proprie mani. L'introduzione alla serata fu stranamente molto breve, presagio di un lungo dibattito a seguire. Le luci si spensero e partirono le immagini. L'audio era molto basso e per questo dettaglio tecnico - cosa di non poco conto per l'ex supplente - le organizzatrici si erano già scusate. Il film iniziò con un primo piano di una donna iraniana senza velo, che raccontava nella propria lingua - con sottotitoli in italiano - le tremende violenze che aveva dovuto subire da parte del padre e del fratello, quando abitava con loro a Teheran. Inoltre raccontò lo stupro da parte del suo fidanzato, la coraggiosa fuga in Europa, prima in Francia, poi in Italia. Lorenzo stava soffocando dalle risate. L'aria compressa tra le dita creava un effetto tipo scoreggia. Ne aveva fatte già molte e il film era appena all'inizio. Tutti i presenti se ne erano già accorti; ora stizziti, cominciarono a criticare l'intruso gridandogli “Fuori...vergogna...fuori!” Chiara non lo guardava nemmeno, fissava lo schermo, fingeva di non conoscerlo. All'improvviso lui liberò le mani dalla bocca, si gettò in terra e scaricò tutte le risate represse. Raggiunse il massimo di intensità, forse la più fragorosa risata della sua vita. Questo - però - era anche l'unico modo per non morire soffocato. Aveva male in tutte le parti del corpo. A quattro zampe - con le lacrime agli occhi - fuggì da quel luogo tra gli insulti, e si ritrovò fuori per le strade della città. Era buio. Si alzò un forte vento improvviso che quasi lo spinse lontano da quel posto; Lorenzo aveva sempre amato il vento, forse era il suo agente atmosferico preferito. E così vagò divertito per le strade durante tutta la notte, tra le lacrime e soffocato dalle risate. Infine si addormentò, sognando di essere a Tokyo, città che ammirava molto anche se non ci era mai stato. Anche in sogno non aveva mai smesso di ridere. Si risvegliò il mattino verso l'alba, con un forte male alla testa, proprio alla fermata del pullman dove tutte le sue disgrazie avevano avuto inizio. Udì nuovamente quell'orrendo suono di violino e la vecchia voce stonata: “La...la...la...la...la...la...” Lorenzo si alzò in piedi, lentamente. C'erano quattro o cinque persone che aspettavano il pullman. Il vecchio mendicante passava davanti ad ognuno di loro, ma questi restavano immobili come manichini, finché giunse proprio davanti a lui. “La...la...la...! Hai qualche soldo per un artista?” Lorenzo lo fissò negli occhi; poi gli urlò: “Brutto figlio di troia! Brutto figlio di troia! E' colpa tua! Mi hai fatto un incantesimo, mi hai rovinato la vita! Testa di cazzo!” E come dargli torto? Effettivamente tutte le sue disavventure erano cominciate proprio dopo quell'incontro e quella musica vomitevole. Il vecchio smise di suonare il violino. “Che dice Signor?” chiese lui stranito. Lorenzo gli saltò addosso e i due finirono per rotolare nell'erba lì vicino. Il vecchio gli tirò due cazzotti in faccia e la rissa finì immediatamente. Riprese il suo violino e l'archetto e se ne andò via. Il giovane rimase coricato in quel prato pieno di piccoli sacchetti, con la testa rivolta al cielo tutto bianco. Si sarebbe aspettato un colpo di scena, una frase illuminante, qualsiasi cosa che gli avrebbe finalmente chiarito l'intera sua vicenda; e invece niente, sembrava finita così. “E se è stato tutto un sogno?” sussurrò a se stesso. Però i due pugni presi erano reali e un po' di sangue gli colava dal naso. Ora non gli veniva più da ridere. Rimase a lungo coricato a fissare il cielo. La nebbia lo avvolgeva e, nonostante il freddo e il dolore che provava in tutto il corpo, finalmente si sentiva felice. Solo più tardi si alzò per fare ritorno a casa.

1 commento:

  1. Versione corretta del racconto già presente in un mio libricino di racconti (su ilmiolibro.it) del 2011. Entro il 2013 questo racconto verrà inserito in una nuova raccolta.

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