martedì 30 ottobre 2012

SECONDO TEMPO racconto integrale (2011) ISBN 9788891002037

Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era chiuso dentro quella stanza al sesto piano, dalla quale usciva solo per attraversare il corridoio che portava dritto al bagno o per andare in salotto e sul balconcino. Ogni giorno una giovane donna si prendeva cura di lui, gli portava da mangiare, i medicinali per le forti emicranie, i libri sul cinema, le pellicole otto millimetri (la sua più grande soddisfazione, le proiettava senza alcun aiuto); gli lavava i vestiti e lo faceva sfogare come poteva. Dopo un certo periodo la donna veniva sostituita: nessuna di loro parlava né l'italiano né il francese o l'inglese. Forse erano tutte dell'est dell'Europa. Bruttine e sempre molto gentili: la mente, l'idea di chi le mandava era quella di non farlo innamorare, ma nemmeno quella di farlo impazzire di astinenza. Ogni tanto, oltre che a letto, faceva altri tipi di esercizi fisici, come la breve corsa in corridoio, le flessioni, gli addominali, in camera. Non fu facile vivere in quelle condizioni. Il palazzo tremava dalla mattina alla sera, gli operai lo stavano rivoltando. B. era costretto a mettersi una maschera nera quando usciva a prendere aria sul balconcino. Ogni tanto ritrovava con piacere nel salotto del piano il caro Johnny, mentre della Signorina non aveva più avuto notizie e ovviamente non avrebbe osato chiedere: la sua parte d'appartamento rimaneva inaccessibile e silenziosa. “Come va?” gli chiedeva ogni tanto il piccoletto, mentre guardavano un film western alla televisione (i telegiornali non li seguivano mai, mentre Johnny era fissato con i quiz e i documentari di divulgazione scientifica). “Resisti, forza! Il palazzo è quasi pronto e diventerà un luogo unico, che non esiste da nessuna parte del mondo, vedrai!” lo rassicurava il piccoletto, senza neanche guardarlo. Grazie, prego, grazie molte. Gli anni passavano, secondo i suoi calcoli cinque anni esatti. Il ragazzo non era più un ragazzo ma un giovane uomo con i primissimi capelli bianchi ai lati, mentre gli altri sopra se ne erano andati del tutto, e in fondo l'idea di travestirsi alle feste non era poi così male (Cavour a parte). Due cose però rimanevano bizzarre, rispetto alla media: la prima riguardava Johnny. Ogni tanto tornava di sera, sporco di sangue, ed era talmente stanco che si sedeva davanti alla televisione senza cambiarsi, macchiando i divani bianchi. B. non dubitava che anch'egli lavorasse per il bene del palazzo, ma certamente non come muratore, geometra o architetto. Dormiva a due stanze da quella del trentenne. A volte usciva e rientrava con una borsa lunga e stretta: “Vado a giocare a golf” gli aveva detto in più di una occasione, un po' seccato, senza che B. gli avesse chiesto alcunché. La seconda cosa strana era che contemporaneamente ai lavori di ristrutturazione del loro palazzo, fuori, avevano costruito alcuni palazzi di otto piani praticamente identici, almeno esteriormente, a quello in cui viveva il nostro. Dalle finestre e dal balconcino del salotto poteva contare sette palazzi, ma era probabile che ce ne fossero altri. Due vecchi palazzi dei primi del Novecento e alcune villette erano state abbattute. Forse anche il parco, poco distante, era stato cancellato. Vennero aperti dei negozi, la zona stava quasi diventando il centro del quartiere. B. non riusciva più a vedere, se non a frammenti, le colline e le montagne. Una sera d'estate nel pieno degli anni Settanta, mentre B. stava ascoltando un disco di Buddy Holly (aveva chiesto invano Chopin, ma la sua musica avrebbe potuto immalinconirlo troppo; in compenso aveva scoperto dei pianisti jazz micidiali), udì la voce della Signorina, fuori nel corridoio. “Dov'è..dov'è..dov'è..il mio eroe? Il mio eroe!” Aprì la porta con impeto, lui si alzò dal letto spaventato e anche un po' commosso. La donna era sempre molto bella, bionda, con gli occhiali enormi che le coprivano metà del volto, elegante, eccessivamente profumata e miracolosamente in piedi. “Hai visto? Cinque anni a Lourdes!!” Aveva una stampella sola, sulla quale appoggiava la mano sinistra. “Lourdes? Sono contento per lei e poi che sorpresa dopo tutto questo tempo, Signorina!!” Andò per baciarla, ma lei lo fermò mettendo il braccio destro in avanti: “Signora, prego! Mi sono sposata con Johnny, non toccarmi o farai ingelosire mio marito, ci vuole rispetto!” Dietro apparve Johnny, impassibile. “Io non lo sapevo, mi scusi!” “Ah..ah.., che credulone! Mi sono sposata con Johnny! Ah..ah.. E poi Lourdes..ah..ah.., ma quale Lourdes! Sono stata in America caro, operazione riuscita e lunga fisioterapia! Grande forza di volontà come la tua, caro! Ma come hai fatto a resistere per tutto questo tempo in una stanza, un corridoio, un salotto, senza il nostro cinematografo?” Alla donna non venne in mente di usare parole come “uscire.. passeggiare.. viaggiare..”, frasi come “incontrare le persone care del passato..”, ed effettivamente a B. non venne mai, neanche per un attimo, la voglia di andarsene a spasso. Anche sul balconcino ci andava il giusto necessario per prendere una boccata d'aria e far diminuire quel costante leggero male alla testa. “Ed ora la seconda sorpresa: il palazzo è pronto!” Ma lui lo aveva intuito. Era da tempo che non sentiva più rumori. “Andiamo a fare un giro, e complimenti per i capelli! Gli uomini pelati sono più virili!” “Beh, almeno per Mussolini risparmieremo sulla parrucca”, rispose lui, con una battuta alla Woody Allen, riferendosi ai suoi futuri travestimenti alle feste. La donna rise a squarciagola, poi presero l'ascensore interno, il solito ascensore semibuio, con due tasti, uno per scendere e l'altro per salire; ora in tre dentro, senza la sedia a rotelle ci stavano, anche se un po' stretti. “Partiamo dal primo piano” disse la donna. Avevano trasformato gli appartamenti in un piccolo parco artificiale, unendo il primo e il secondo piano: un prato con l'erba che arrivava alle ginocchia, un piccolo stagno, alcuni cespugli e alberelli in fiore, tutto di plastica (tranne l'acqua dello stagno). Il soffitto, alto circa sei metri, era stato dipinto di azzurro e di bianco. In sottofondo veniva diffuso il suono dei grilli e un vento leggero provocato dai ventilatori ben nascosti: tutto si muoveva con armonia, compresi i capelli della donna, se almeno quelli erano veri. “Fuori Parigi, quando ero bambina, avevamo una casa con un grande giardino, ben curato, ma io preferivo uscire e andare nei luoghi un po' più selvatici, proprio come questo.” E aggiunse, tornando verso l'ascensore: “Anche tu potrai venire qui, quando vuoi e distenderti!” Le finestre coperte dalle tende, erano chiuse, forse sigillate. La luce artificiale simulava un'aurora o un tramonto (non si capiva bene). Faceva molto caldo, nonostante il vento. “Peccato che ci sia il muro delle scale interne e dell'ascensore!” disse B. “E' vero, ma non potevamo fare altrimenti, caro architetto!” disse lei un po' stizzita. “Le scale interne e l'ascensore sono rimaste uguali. La portinaia è cambiata, ora c'è una del nostro clan. Pensa che parla solo spagnolo! Gli ospiti devono entrare normalmente, mica possono volare e anche noi..ovviamente tutti..” “Tranne me!” disse B. sorridendo. “Beh, tra poco avrai il tuo meritato regalo!” Per evitare che qualcuno lo vedesse attraverso le finestre aperte, B. fu costretto a mettersi la solita maschera nera: il terzo piano era composto da una decina di camere con il letto a doppia piazza. Sembrava la parodia di un piccolo bordello di lusso austriaco, con quadri, piccole statue, nei corridoi, di vari animali esotici, le pareti rosse: “Qui potrai portare le tue conquiste, mio caro Napoleone, sempre se troverai una stanza libera.” Il quarto e il quinto piano erano unificati: una sala da ballo, un palcoscenico abbastanza profondo per i musicisti e tutto l'impianto, l'asta del microfono al centro che luccicava; i divanetti da una parte e i tavolini rotondi dall'altra. Ma la vera novità era lo spazio raddoppiato da tre a sei metri del soffitto, il quale avrebbe consentito maggiore respiro alla folla ubriaca e delirante durante le feste. Il pavimento era in legno. Le finestre erano aperte. Le tende avevano un colore verde smeraldo. Il bar era simile a quello precedente, e dietro c'era la cucina in stile italiano, con lo stesso grande tavolo. “Non amo le cene troppo affollate, preferisco quelle intime, con le nostre donne e gli altri della nostra squadra.” In quegli anni B. aveva sempre pranzato e cenato da solo, prima al cinemino, seduto sulle poltroncine, poi su quel tavolo nella sua stanza. Non era chiaro se lui facesse o no parte del clan, e quindi potesse mangiare con loro almeno qualche volta. Tornarono in ascensore saltando il sesto, l'unico piano che non aveva subito modifiche, e nel quale la donna sarebbe tornata a vivere in quelle sue misteriose stanze. “Capolinea!” L'ascensore s'arrestò. Giunsero alla tanto attesa destinazione: il cinematografo. Era buio. Uscirono, tenendosi tutti e tre a braccetto, camminarono per alcune decine di secondi fino a quando la donna urlò: “Luce!!” E gli occhi del nostro B., in un momento, divennero rossi e pieni di lacrime. “Gra-gra-zie!” balbettò sorridendo. Anche qui avevano unito i due piani, il settimo aggiunto all'ottavo, e l'avevano trasformato in un cinema vero, con le poltroncine blu a salire, almeno una cinquantina, divise a metà da un corridoio che terminava con le tende a spacco; lo schermo, il doppio di quello precedente, era contornato da tende rosso porpora. Alle pareti laterali, impressi nella tappezzeria marrone scuro, c'erano due giganteschi poster di Audrey Hepburn e Sterlyng Hayden da una parte, Fellini e Bergman dall'altra. “Proiettore trentacinque millimetri e tutti i film che desideri!” B., in quegli anni, aveva scritto a mano su centinaia di quaderni i titoli dei film, ordinati in base al nome del regista, una sorta di archivio personale e di promemoria. “Domani si comincia con Chinatown. Ci sarò anche io, ma normalmente avrai tutta la sala per te, perché ho male agli occhi, e già faccio fatica a leggere i miei volumi di filosofia antica. Guariscono le gambe, ma perdo la vista mio caro!” Dalla cabina uscì Mike. Indossava una lunga camicia bianca. “Ehi Mike! Mike!” B. corse su per abbracciarlo e lui ricambiò con gioia. “Cavolo, sei sempre uguale!” “Scusi Signor, io non sono Mike, ma suo fratello minore. Mi chiamo Sam. Mike è partito, lavora in un cinema fuori dall'Italia, io sono Sam!” Gli rispose un po' dispiaciuto. Il suo alito puzzava di vodka. “Ah...ah... Mi devi dieci mila lire Johnny, lo sapevo che ci sarebbe cascato!” La Signorina T. e Johnny se ne andarono. Sam gli spiegò con il suo italiano confuso, ogni dettaglio. La camera di B., collocata subito fuori la sala, era molto spaziosa ed essenziale: un letto ad una piazza con sopra libri sul cinema, a centinaia, più tutti i suoi quaderni, compresi quelli sui quali aveva fantasticato, da sistemare in uno scaffale vuoto. L'armadio era grande e conteneva qualche comodo ricambio per il quotidiano, tutto il necessario per vivere in una casa dalla quale ovviamente non poteva più uscire. L'elemento più affascinante di questo luogo era la vetrata, che sostituiva interamente una parete. Sei metri di vetro in altezza e quindici in lunghezza, senza balcone fuori. “Es doppio vetro! E poi tu vedi fuori loro, pero loro no vedono te!”: un vetro a specchio. Il paesaggio da lassù era bellissimo, anche se a circa trenta metri erano presenti palazzi di otto piani, tre per l'esattezza (uno praticamente frontale). E sembravano già abitati. In mezzo a questi riusciva a scorgere le colline che al mattino trattenevano il primo sole, e guardando più su, in quel momento, c'era un incantevole cielo stellato. La vetrata si poteva aprire solo nella parte superiore, una striscia orizzontale, giusto per un poco di ricambio d'aria. Aveva a disposizione anche un bagno tutto verniciato di azzurro. In fondo allo stretto corridoio c'era la porta dell'ascensore. B. rientrò nel cinema, pensieroso, seguito come un'ombra da Sam. Era ormai chiaro che avevano cancellato le scale interne e l'ascensore del palazzo, “perché è un piano unico, separato dal resto della casa, senza via d'uscita, se non attraverso quell'ascensore!” “Come dici signor?” “Cazzo! Se qui scoppia un incendio, come facciamo? Aspettiamo l'ascensore?” Non c'era altra via d'uscita. “Signor, il cinema è bello, non trovi?” “E' stupendo!” “E io grazie a Dio, vivo al sesto piano!” La battuta era buona, ma pensando che anche lui avrebbe trascorso parecchie ore li dentro, le possibilità di diventare carne allo spiedo erano molte pure per il povero e spiritoso Sam. B. pensò fin da subito di stabilire degli orari fissi di proiezione. “Puoi vedere film quando vuoi nel giorno e nella notte” disse Sam. Invece no, non avrebbero mai proiettato il mattino, ma solo il pomeriggio e la sera.: il suo proiezionista doveva essere lucido, ben sveglio (e possibilmente sobrio). Fare delle domande, aveva imparato negli anni vissuti li dentro, era del tutto inutile, poiché niente aveva senso: chi fossero tutti i suoi inquilini, la Signorina T. e le sue bizzarre conoscenze, compresi architetti fuorilegge, Johnny, pragmatico e di poche parole, che amava il golf violento, Mike e Sam i proiezionisti, gli altri personaggi della casa, gli invitati alle feste che duravano dal venerdì alla domenica pomeriggio di ogni settimana (qualche volta anche durante la settimana, oltre al periodo delle festività), con un repertorio musicale esclusivamente statunitense, che si fermava ai primissimi anni Sessanta. (E se fossero tutti delle comparse ben pagate dalla Signorina? Aveva questo dubbio B., ma in fin dei conti non avrebbero modificato la sostanza: il divertimento era vero, autentico, la gente ballava, fumava, si ubriacava, vomitava, litigava, finiva a letto per davvero e la Signorina T. era la prima a fare tutte queste cose insieme. Solo Johnny rimaneva freddo, perché lui era una guardia del corpo e contemporaneamente l'organizzatore, un direttore di produzione, doveva controllare che tutto filasse liscio. Non poteva mischiarsi nel delirio, ci voleva distacco, e questo certo non gli mancava.) E così gli anni trascorrevano fuori dalla casa, ma non dentro, in cui il tempo si era fermato, o meglio era assente la burocrazia che lo ricordava: nella dimora di B. non c'erano orologi, calendari e sveglie. Lo stesso ai piani inferiori. (Forse solo Johnny aveva un orologio da polso, l'agenda e sapeva distinguere un venerdì da un martedì.) B. non guardava mai più di quattro pellicole al giorno. Il mattino faceva ginnastica, correva su e giù per la sala. Tra un film e l'altro leggeva e rileggeva libri sul cinema, mai altro. Ed era felice così. Non gli mancava niente: per lui scoprire un nuovo film, un genio registico o un attore o un'attrice di talento o un direttore della fotografia era un'emozione sconfinata. Sulla morte di un noto personaggio del cinema poteva venirne a conoscenza solo dopo molto tempo, quando gli arrivava un libro biografico, anche perché B. non aveva radio o TV, e aveva deciso di non leggere più recensioni di quotidiani o riviste, in inglese, in italiano o in francese. Aveva un interesse quasi esclusivo per le biografie e le autobiografie: i saggi di estetica cinematografica non gli dicevano più niente, faticava a capirli, lo annoiavano. Ogni mese gli portavano una lista dei film usciti nelle vere sale. Mangiava da solo, così si era abituato, al tavolino della sua stanza. Ci pensava Sam a portare le delizie che venivano dalla cucina. Era raro che scendesse sotto, ed era ancora più raro che la Signorina T. salisse per guardare un film. Un pomeriggio d'inverno videro insieme Eraserhead ed Elephant man di David Lynch, ma lei rimase disgustata. Preferiva il cinema classico americano dagli anni Trenta ai Cinquanta, e qualche volta, con dolore, qualche film francese, anche muto. Rimase spiazzata dall'interpretazione di Marlon Brando nel film L'ultimo tango a Parigi, mentre non capì la grandezza di Missouri di Arthur Penn e L'inqulino del terzo piano di Roman Polanski. Il piccoletto veniva su solo per Kubrick, mentre Sam amava tutti i film che B. sceglieva, anche se andava pazzo per le pellicole d'avventura e tifava per i comici americani e i comici italiani, soprattutto quelli più grossolani. Ma non era un proiezionista abile come il fratello maggiore; anche se Sam doveva confrontarsi con mezzi più professionali, era comunque impreciso, sbadato, perennemente ubriaco e inoltre aveva scarsa memoria. Ed era anche miope. “Fuori fuoco Sam!” gli urlava qualche volta con gentilezza il nostro B. Durante il pomeriggio del cinque giugno del 1983, il piccoletto annunciò a B. che ci sarebbe stata una festa speciale, con musica swing e il suo 'Re' presente, Benny Goodman, il suo clarinetto e una piccola orchestra improvvisata al seguito. B., incredulo, e questa volta molto scettico nei confronti della notizia, quella sera avrebbe dovuto impersonare, per l'ennesima volta, il ruolo di Napoleone. (Era quello che lo faceva scopare di più. Inoltre entrambi non erano delle pertiche e con gli anni B. aveva studiato abbastanza il suo carattere, grazie soprattutto al film muto di Abel Gance.) Una giovane costumista di Napoli gli aveva preparato molti anni prima un abito con cappello di feltro a due punte abbassato sulla fronte e sulla nuca, giacca nera a coda di rondine tagliata sui fianchi, stivali di pelle a metà polpaccio e calzoni bianchi aderenti. B. teneva spesso la mano sinistra infilata nel panciotto. La donna veniva ogni volta per vestirlo e truccarlo. La notte tra il cinque e il sei giugno fu una notte indimenticabile: 'Napoleone' non aveva mai visto tante persone insieme dentro quel palazzo. Già ad inizio serata uomini e donne bevevano bottiglie di vino coricati sul prato, al chiaro di luna di una lampada bianca, quasi pronti per le fatiche dell'amore. Come sempre nessuno degli ospiti poteva spingersi oltre il quarto-quinto piano: il terzo era ancora semi-deserto e la grande confusione veniva dalla sala da ballo dove B., appoggiato al bancone, beveva cognac, recitava la sua parte, parlando in lingua italiana, ma con accento corso (così almeno credeva, grazie a qualche lezione privata), ascoltava quella musica sublime, avendo la certezza che quel clarinetto non poteva essere suonato dal vero Benny Goodman, ma da una sua talentuosa controfigura. “Tanto è tutto finto qui dentro!” pensò sorridendo. Però la gente era talmente accalcata verso il piccolo palcoscenico, che non riuscì mai a confutare questa sua teoria. D'improvviso, nel pieno del delirio, apparve Sam, completamente ubriaco. “Signor B. vieni, ho una cosa!” disse lui agitato. “Ma che ci fai qui, se ti trova il piccoletto sono guai!” Infatti i membri del clan del palazzo non potevano partecipare alle feste, poiché lavoravano al bar, in cucina, o come guardie dell'ordine. Inoltre nessun invitato poteva usare l'ascensore interno; c'erano una decina di buttafuori (più o meno gli stessi da anni), che giravano per la casa. Tre di loro sostavano davanti alla porta dell'ascensore del primo-secondo piano, del terzo e del quarto-quinto piano. “Tranquillo, io sono a controllare esto piano e sopra ci aspetta una bella sorpresa!” I due erano diventati amici, stravolgendo in parte la regola secondo cui non bisognava mai parlare di sé, delle proprie origini, dei propri sogni. B. più che altro lo ascoltava, perché su di sé non raccontò nulla, tranne del fatto che stava bene e che voleva vivere per sempre in quel cinema. Discutevano sulle pellicole, a volte litigavano pure. Lui era argentino, di Buenos Aires, e un giorno avrebbe voluto tornare dalla sua famiglia, che sentiva solo per telefono. “Magari apriamo un piccolo cinema io, mio fratello Mike e te, nelle zone più povere!” gli diceva spesso Sam. Presero l'ascensore, poi lasciarono aperta la porta per bloccarlo; giunsero nella sala dove ad attenderli, sedute sulle poltroncine, c'erano due bellissime ragazza nere, molto alte, bionde, in minigonna, ubriache, che parlavano discretamente l'italiano. “Sono due modelle che lavorano a Milano, pero sono di New York! Capisci?” “Ciao ragazze, qui non si fuma!” “Ehi, tranquillo Napoleone!” disse una, facendo ridere l'altra. B. si sentiva a casa sua, lì non aveva mai portato nessuna, era proibito, anche se qualche volta gli sarebbe piaciuto; e la sua recita in maschera non serviva più, così si tolse il cappello. “Smettila amigo! Fumiamoci una bella canna di erba, poi le signorine vogliono divertirsi sai? Facciamo vedere un pezzo di un film bello divertente!” Il film era Blues Brother. Sam aveva alcune bottiglie di birra nascoste nella sua cabina e le offrì. Dopo dieci minuti salì subito a fermare il proiettore, poiché B. stava già scopando, mentre l'altra aspettava Sam a gambe all'aria. Andarono avanti per tutta la notte, in quella sala, fecero sesso, scambiandosi le ragazze, su tutte le poltroncine, per terra, sotto lo schermo bianco. Poi, verso il mattino, andarono nella stanza di B. per assistere all'aurora attraverso la grande vetrata, ma le due ragazze si addormentarono subito nel letto, abbracciate, Sam vaneggiava, emetteva solo più suoni, B. un po' più lucido (aveva bevuto solo qualche cognac, una birra e non aveva fumato) vide nel palazzo di fronte, dalla finestra di un appartamento dell'ottavo piano, un qualcosa di strano che usciva, forse uno sciame d'api, non si capiva bene. “Guarda Sam” Lo tirò su. “Cosa?” E cadde in terra. B. non aveva un binocolo. La serranda di quella finestra senza balcone era alzata solo a metà, e da lì continuavano a venire fuori, liberandosi verso l'alto, oltre il tetto, ogni pochi secondi, come un respiro dalla bocca di una persona che russava, un qualcosa simile a migliaia di insetti, api o piccolissimi uccelli. Sam si era già addormentato. Anche B. aveva sonno e così lo seguì. Il pomeriggio seguente i quattro si svegliarono più o meno nello stesso momento. Le due donne andarono in bagno, poi Sam, scuro in volto, abbracciò forte B., prima di liberare la porta dell'ascensore tenuta aperta per ore grazie ad uno spesso libro biografico su Alfred Hitchcock. I tre scesero giù, mentre lui tornò in camera e chiuse le tende. Si buttò nel letto. Era ancora vestito da Napoleone, a parte il cappello di feltro con le due punte. Grattandosi il petto, trovò una piccola foglia verde. Poi si riaddormentò subito. “Svegliati! Svegliati!” senza urlare, il piccoletto, lo strattonava forte. “Che c'è?” disse B., ancora assonnato. “Lei ti vuole giù, al primo piano, immediatamente!” “Lei chi?” “Ida Lupino!” Scesero al primo piano, quello dove c'era il piccolo parco di plastica. La Signorina T. lo attendeva sdraiata a testa in su, sotto un salice piangente. In quel posto la luce simulava un tramonto, ma era incerto se fuori fosse pomeriggio, mattino, notte o davvero l'ora del tramonto. “Mio caro amico, finalmente insieme, qui! Non vieni mai!” Era vestita con un abito di seta color blu scuro, lungo fino alle caviglie, che le lasciava interamente scoperte le braccia, un po' grassottelle. Lui si coricò a testa in giù, e lo stesso fece al suo fianco Johnny. “Mi dispiace, ma io non la voglio disturbare, questo è il suo posto preferito, immagino!” “Si, ma è aperto a tutti come ben sai. E quanti amori nascono proprio quaggiù e non al terzo piano o nella sala da ballo. Qui la gente viene per baciarsi! Che romantico!” Si alzò un attimo, con fatica, e staccò un ramoscello del salice. Tornò a coricarsi e continuò a parlare: “Tu invece preferisci masturbarti al cinema lo so, però l'altra notte eravate in quattro a farlo, lo so!” D'improvviso Johnny gli saltò sulla schiena, tenendogli ferme entrambe le braccia: “Te le spezzo se ti muovi” La donna tolse le foglie dal ramoscello, che così divenne una frusta sottile. Gli abbassò a fatica quei pantaloni bianchi, sollevò la giacca nera, mise il suo corpo sulle gambe di B. all'altezza delle ginocchia, e una volta scoperto il suo culo, gli diede una forte frustata. “Ahiii, ferma!” “Non sei stato mai preso a cinghiate o a frustate in vita tua? Beh..c'è sempre una prima volta, anche a quarant'anni..!” Gliene diede un'altra ancora più forte. “Avevamo fatto un patto! Nessuno poteva salire in quel piano, nessuno, a parte noi interni!” “Fermi vi prego! Eravamo ubriachi! Alla festa c'era troppa gente e allora io e Sam siamo saliti, anche un po' per respirare!” La donna lo frustò per una ventina di volte di seguito, poi si fermò. “Va bene così, lascialo Johnny! E tu tirati su i pantaloni!” B. aveva male e pianse nell'erba senza odore. “Sappiamo che non è stata una tua idea, anche se il tuo proiezionista ha detto che tu lo hai obbligato e che lui non voleva salire. Io invece credo un'altra cosa, che sia stato proprio Sam a convincerti, lo so, lo sappiamo! Comunque ora è tutto risolto!” “In che senso? Dov'è Sam?” chiese B. “Vi siete persi un grande concerto: Benny è stato caro a venire a suonare per noi!” “E Sam?” “Sam è tornato in Argentina, come sognava da tempo. Beh, ha lasciato qui qualche dente, ma credo che la famiglia lo riconoscerà senza fatica” “E le ragazze?” chiese B. rialzandosi. “Quali ragazze?” disse la donna. Allora intervenne il piccoletto: “Quali ragazze? Non ricordo, di che stiamo parlando?” “Sei perdonato, non è successo niente, puoi tornare al tuo cinema! Domani avrai un nuovo proiezionista, si chiama Mike, te lo ricordi? E' qui per scusarsi per la cattiva condotta del fratellino. Oltretutto è diventato un mago: pensa che in Svizzera è il numero uno! E' un uomo che studia, proprio come te, che si aggiorna, sperimenta e cerca sempre nuove strade per migliorare l'immagine e il suono. Ci farà spendere milioni di lire, ma ne vale la pena!” In un momento B. era tornato di buon umore, pensava solo al cinema, ed era contento così. Poi aggiunse: “Grazie. Però da ora in avanti vorrei evitare di partecipare alle feste, perché non mi sento più...” “Giovane?” lo interruppe la donna. “No, mi piacciono le feste che organizzate, per me sono arte pura! E travestirmi e recitare mi diverte molto, e imparo sempre, però mi fanno perdere troppo tempo ed io vorrei vedere più film ancora.” “E le donne? Come faranno senza di te?” chiese la donna, mentre si accendeva una sigaretta. “A me basta che mi facciate incontrare una donna ogni tanto, così..” “Così..così..come..intendi una puttana, una a pagamento? E con quali soldi? Noi non facciamo queste cose! Johnny, io sono scandalizzata, che dice questo qui? Davanti ad una Signora poi, mi ha forse preso per una matrona di bordello?” “Chiedi scusa! Subito!” disse il piccoletto. “Scusi davvero, io..” disse B. “Ah..ah..testa di cavolo! Scherzo! Ah..ah.. Mi fai ridere, dici sempre qualcosa che mi diverte! Hai un talento comico che nemmeno sai di avere! Comunque ogni tuo desiderio sarà realizzato: chiuditi pure in quel bellissimo cinema, tu che hai la forza di farlo, e non sai quanto ti invidio!” B. se ne andò. In tutto questa assurda conversazione si era accorto di un dettaglio di non poco conto: entrambi avevano la fede al dito. Forse si erano sposati veramente? Con il ritorno di Mike, B. riusciva a vedere fino a cinque pellicole al giorno: l'argentino era un perfezionista, amava il cinema in maniera opposta al fratello: curava ogni dettaglio, non sbagliava mai una proiezione, controllava anche il telone, lo puliva se c'era un poco di polvere, quasi ogni giorno. Una volta aveva interrotto una proiezione, si era accorto che una pizza era leggermente rovinata, e l'immagine rimaneva sgranata da una parte. “Vai pure avanti! Il film si vede benissimo!” gli urlò B., ma lui non ne volle sapere. Anche l'audio era importante. Con gli anni passarono da due a quattro casse. Al nostro sarebbe bastato anche il vecchio cinemino sedici millimetri o addirittura le proiezioni in otto millimetri che faceva autonomamente nella sua camera, durante il periodo in cui visse al sesto piano; anzi gli piaceva proprio quell'imperfezione di certi film proiettati e che ritrovava, un tempo, nei più piccoli cinematografi della città. Tra Mike e B. c'era reciproco rispetto, ma totale distacco. Inoltre B. sapeva che non avrebbe potuto fidarsi né di lui, né di nessun altro dentro quella casa, quindi la storia delle farfalle che vedeva quasi tutti i giorni a partire da quel sei giugno 1983, dalla vetrata della sua stanza, doveva tenersela stretta stretta per sé. Sarebbe stato un rischio parlarne con la Signora, con Johnny o Mike, e con le donne e gli uomini che lavoravano lì: chiedere, domandare “anche tu vedi quello che vedo io?”: lo avrebbero preso per matto, troppi anni chiuso in quel palazzo, troppi film, sessant'anni di età, i primi sintomi della vecchiaia. Anche i suoi compagni di casa non erano proprio dei ragazzini, eppure erano rimasti sempre uguali: la donna, almeno ottantenne, continuava a vivere a pieno le feste, non aveva neanche più la stampella o un bastone, anche se era quasi cieca, preferiva ascoltare la musica, fumava, beveva e trascorreva più tempo al piano-bordello o sui prati del primo, che nel suo appartamento. Johhny andava tutti i giorni a giocare a 'golf' e qualche volta macchiava di sangue le poltroncine del cinema. Oramai voleva vedere solo più Spartacus e nient'altro, almeno due volte al mese. E così B. rimaneva solo dinanzi a un tale inspiegabile spettacolo e al quale poteva assistere non solo dalla vetrata, ma anche da altre finestre e balconi dei vari piani, purché fossero frontali o quasi a quel palazzo di otto piani (doveva comunque mascherarsi, la regola era rimasta, anche se le rughe, la schiena un po' curva, i capelli bianchi ai lati, erano già un buon travestimento, e nessuno del suo passato di quando era poco più che ventenne, sempre se qualcuno era ancora vivo, lo avrebbe più riconosciuto). Erano farfalle quelle che fuoriuscivano da quella finestra dell'ottavo piano e non api, piccoli uccelli, mosche. Farfalle di ogni colore. Forse avevano delle sfumature che però B. non poteva cogliere, perché esse si perdevano quasi sempre verso il cielo, senza mai avvicinarsi al suo palazzo e ai suoi occhi. Potevano liberarsi a migliaia, anche durante il mattino o nel pomeriggio, come la sera o la notte, e in qualsiasi stagione, anche con la neve e il freddo. D'estate, in agosto, improvvisamente sparivano, ma alla fine del mese ritornavano sempre. Quell'appartamento era abitato, le luci si accendevano e si spegnevano, quelle della finestra destra, della stanza che portava ad un piccolo balcone vuoto, e quelle della finestra sinistra. Sul balcone non era mai uscito nessuno in oltre vent'anni. Le serrande venivano alzate ed abbassate regolarmente. Le tende color arancio erano sempre tirate. Le farfalle uscivano solo dalla finestra a sinistra del balcone: venivano sputate fuori, la serranda non era mai abbassata del tutto, neanche durante la notte. Probabilmente veniva lasciata leggermente aperta, anche in pieno inverno, quando c'era il gelo. Ma B. si domandava come fosse possibile che Johnny e (probabile) consorte, lo stesso Mike, che aveva una vista come un'aquila, non si fossero accorti di questo strano evento. E le persone che abitavano in quel palazzo? E gli altri abitanti della zona? E i negozianti? Certo se B. avesse chiesto a qualche festaiolo, gli avrebbe detto subito di sì, che era tutto vero, dandogli poi una pacca sulla spalla. Comunque lui non partecipava più a questi party; ogni tanto Johnny gli organizzava un incontro sessuale con una giovane donna, al piano-bordello, ma lei era sempre bendata. “O tu ti trucchi e ti travesti o noi bendiamo loro, chiaro?” gli disse il piccoletto una sola volta. E da allora fece sempre così. Non poteva più cambiare, non poteva chiedere a nessuno. Voleva vivere ancora a lungo e se avessero sospettato qualunque cosa, lo avrebbero ucciso. Lui doveva farsi gli affari suoi e non occuparsi nè del mondo reale né degli strani giri finanziari del clan: guardare film, questo era il suo compito. E il cinema lo amava sempre, come quando era ragazzino. La macchina non si fermava mai, uscivano di continuo nuovi film da gustare, oltre ai vecchi film che mai si stancava di vedere. Il suo destino era quello di morire (il più tardi possibile) dentro quel cinematografo, come Moliére sul palcoscenico, anche se B. non era un artista, ma solamente uno spettatore passionale e fanatico che aveva una grande paura di vivere la realtà fuori da quel palazzo. Una mattina d'autunno del 2010 la sua vita ebbe decisamente una svolta. Non aveva mai pensato al futuro, se non del giorno dopo, un altro film da vedere, e il giorno precedente si era fatto gli occhi con due pellicole di Kitano Takeshi, poi L'arca russa di Sokurov, La grande guerra di Monicelli, con Sordi, Gassman, la Mangano, Romolo Valli e in più cinque cortometraggi islandesi. Mike gli aveva promesso che avrebbe lavorato ancora due anni, anche se un sostituto era già pronto, uno della sua famiglia argentina, un nipote abbastanza giovane che amava più la pellicola che il digitale e l'alta definizione. Era l'alba quando B. venne svegliato da una farfalla azzurra che quasi gli baciò la bocca. Era entrata dalla fessura in alto della vetrata, lasciata aperta nonostante fuori facesse freddo. Stropicciò gli occhi, mentre la farfalla si allontanò verso altre stanze. Dalla vetrata vide migliaia e migliaia di altre farfalle, tutte di colori e dimensioni diverse. Mai si erano avvicinate al palazzo, perché sempre si disperdevano lontano, verso il cielo, mentre in quel momento era in atto una vera invasione: i palazzi erano circondati da farfalle, la strada sotto, qualcuno passava e nemmeno se ne accorgeva. Ne entrarono altre. B. apprezzava le farfalle, le considerava delle creature meravigliose, ma le conosceva poco, non aveva mai letto manuali o articoli sulla loro natura: certo avrebbe potuto chiederlo ai piani bassi, ma Johnny e Signora si sarebbero insospettiti, poiché lui leggeva solo libri sul cinema. Ora l'intero piano era occupato da farfalle: una rossa con macchie bianche e angolose ali aperte, una con le ali color cioccolata, un'altra gigante rispetto alle altre, con ali blu marino chiaro tranne alcune ampie fasce sulle ali anteriori, la prima delle quali, nera, un'altra arancione. Quest'ultima inseguiva le altre farfalle, strofinando le ali l'una contro le altre. Battagliavano, una completamente verde sembrava una foglia, altre ancora, ognuna diversa dall'altra, danzavano nell'aria, mentre B. rimaneva paralizzato nel suo letto. Solo dopo qualche minuto si alzò e si vestì. La sala cinematografica era piena di farfalle. Cercò di chiamare l'ascensore, ma era occupato: giunse al suo piano una donna, un'assistente della Signora: “Venga giù, al piano di sotto!” gli disse un po' allarmata. “Al piano di sotto?” Era la prima volta che veniva convocato in quel luogo dalla Signora. Finalmente avrebbe visto quel misterioso appartamento? Le farfalle erano ovunque, anche in ascensore. Giunsero al piano, la donna aprì la porta bianca della misteriosa ala di quell'appartamento, e lo lasciò entrare da solo, chiudendo immediatamente la porta. Era dentro. Anche qui non mancavano le farfalle, anche se il buio pesto nascondeva la loro bellezza. “Avanti caro!Avanti!Avanti!” Era la voce squillante della Signora T. Percorse brevemente un corridoio, alle cui pareti erano appesi decine e decine di ritratti di persone e di fotografie in bianco e nero. “Entra pure nella stanza!” Lui entrò, ancora nel buio, le tende erano tirate. Si intravedeva la donna seduta su una poltrona molto alta. L'aria era satura di profumo, di tanti profumi mischiati all'odore di sigaretta. Alla destra della Signora c'era un letto matrimoniale con lenzuola bianche e un grande armadio di legno scuro. In terra c'erano solo tappeti ben distesi. Anche le pareti della stanza erano riempite di immagini di volti umani. Le farfalle lambivano i corpi di entrambi; B. ogni tanto doveva ripararsi gli occhi. “Siedi pure” disse lei. C'era una sedia a dondolo, messa frontalmente alla poltrona. “Ti ho chiamato perché oggi è un grande giorno!” “Mi sembra proprio di si!” rispose lui. “Ho una grande notizia, e volevo dartela io direttamente!” “L'ascolto con immenso piacere!” “Questa sera io e Johnny abbiamo organizzato la più grande festa della nostra storia: questa sera suonerà per noi e pochi altri amici intimi, senti..senti.. non ci crederai mai: Chuck Berry! Hai capito? Chuck Berry!” B. rimase di pietra. Non disse nulla: la casa, il quartiere, forse l'intera città erano invase, in pieno autunno, da farfalle d'ogni forma e colore, le quali provenivano da quella finestra all'ottavo piano del palazzo di fronte al loro. E Chuck Berry? Con tutto rispetto, ma cosa c'entrava lui con quello che stava accadendo, pensò B. “Io non capisco..” disse lui, subito interrotto dalla vecchia donna: “Lo so, anche io pensavo che fosse morto, o gravemente malato, invece stasera suonerà, da solo con la sua chitarra, per me e per pochi intimi. Ovviamente non puoi mancare e questa volta potrai venire senza travestimenti. Nessuno degli ospiti ti riconoscerà e..” “Io non capisco! Pensavo mi avesse fatto chiamare per qualcos'altro, no?” disse lui un po' arrabbiato. “Si, hai ragione. Ti ho chiamato qui anche per un'altra cosa. Credo sia giunto il momento di raccontarti brevemente la storia della mia vita. Ora posso fidarmi, siamo vecchi, forse più tu di me, quindi..” B. si rilassò. Le farfalle svolazzavano ovunque. La donna ne aveva alcune appoggiate sulle gambe. “Mio caro, qui siamo nel mio rifugio, l'appartamento dei ricordi. Tutte le immagini che vedi rappresentano i miei cari dalla metà del Settecento ed io sono l'ultima ed unica discendente di una famiglia molto benestante” Fece una pausa, poi ricominciò: “Sarò molto sintetica, come al solito, perché amo l'essenzialità! Come ti ho già detto una volta, sono nata a Parigi, da una famiglia di imprenditori. Mio nonno paterno, per esempio, era il più intraprendente e il più ricco: produceva profumi e aveva aperto una decina di negozi nella 'Ville Lumiére'. Lui era parigino da diverse generazioni. Il suo unico figlio, mio padre, aveva sposato mia madre, una maestra ligure, poche settimane dopo averla conosciuta per caso per le strade di Genova. Nel 1925 sono nata io e ho vissuto fino al 1937 tra Parigi e una bellissima casa poco lontano, in campagna. A dodici anni ho perso i genitori in uno stupido incidente stradale, così mio nonno mi mandò in Italia, in un collegio di suore sperso tra le colline torinesi. Nel giro di pochi anni, purtroppo, morirono tutti, chi di vecchiaia, chi di malattie incurabili. Io rimasi l'unica erede, e una volta compiuti i ventuno anni di età, ho cominciato a fare soldi, investendo nell'edilizia e sono diventata, come mi pare tu abbia capito, sempre più forte e ricca. Praticamente facevo costruire, affittavo e vendevo singoli appartamenti o interi palazzi”. “E Johnny?” chiese B. “Lui ha undici anni meno di me. L'ho adottato pagando un sacco di soldi, facendo la cosa per vie traverse, durante un viaggio in Giappone, nell'isola di Hokkaido, in un villaggio vicino a Sapporo. Ero con un amichetto di allora di cui non ricordo nemmeno il nome, un siciliano molto simpatico. Siamo nel 1949: Johnny era un orfanello che cercò di derubarci nella villa in cui eravamo ospiti. Lo trovai molto intelligente; mi impietosii per la sua condizione di estrema solitudine e povertà, così lo portai con me in Italia. L'ho fatto studiare privatamente, lingua italiana, francese e inglese, e poi economia e filosofia. Per me era come un fratello minore o un figlio. Verso la fine degli anni Cinquanta ci siamo trasferiti qui. Lui era ed è un genio, con il fiuto per gli affari e ha anche un dono particolare per le cose pratiche, molto più di me, direi. E' un tipo serio, uno che si fa rispettare!” “E la sua malattia? Perché lei stava su una sedia a rotelle?” “Ah.. quella è una storia banale: un amante, durante l'estate del cinquantasei o del cinquantacinque, in un albergo di Nizza, dopo essersi ubriacato, mi ha pestato a sangue, rompendomi le ginocchia e le caviglie con una mazza da baseball, dopo che gli avevo detto che ero poligama! Johnny gli ha sparato in fronte dopo poche ore e poi ha fatto a pezzi il suo corpo. Peccato, era un uomo del Sud, molto molto affascinante e colto! Peccato davvero!” “Ed ora lei e Johnny siete sposati?” “Si! Subito dopo il periodo in cui abbiamo restaurato il palazzo io e lui ci siamo sposati per interessi: nel caso dovessi morire prima io, a lui andrebbe tutto” “Quindi non dormite insieme?” “Ma che cazzo dici, lui è asessuato ed io sono una grande troia, altro che dormire insieme!” La donna si grattò il naso e aggiunse: “Sei contento! Fine della storia, ora sai tutto! Puoi pure tornare al tuo cinematografo! Ci vediamo stasera alle otto per la cena, mentre per il concerto..” Ma B. la interruppe subito: “Ma di cosa sta parlando! Fine della storia? Lei mi ha riassunto in poche frasi la sua vita, sempre se mi ha raccontato il vero, ma non ha accennato alla storia delle farfalle!” “Quale storia delle farfalle?” “Quali farfalle? Ma non si vede attorno? La casa è invasa, e anche fuori, la città intera. Ha guardato fuori?” “E a te cosa te ne frega di ciò che sta fuori? Cos'è questa novità! E poi io ci vedo pochissimo.” B. si alzò in piedi di scatto: “Ma la casa è piena di farfalle! Ed io so da dove provengono! Sono anni che vedevo uscire qualcosa da quella finestra..” “Siedi, vecchia ciabatta!” urlo lei. “No, non mi siedo brutta stronza! Anche se sei cieca, non puoi non sentirle! Questa stanza è piena di farfalle!” “Johhny!Johnny!Johnny!” urlò lei. “Io me ne vado!” “Johnny!Johnny!” B. fuggì dalla stanza. Cercò di sfondare la porta d'uscita verso le scale interne: era l'unico modo per uscire. Provò anche con l'altra porta, ma non ci fu niente da fare, erano chiuse bene. Da lontano si sentiva la voce della vecchia Signora strillare: “Fermalo, vuole fuggire! Non sa quello che fa!” B. prese l'ascensore, che fortunatamente era già al piano. Vide il piccoletto con la coda dell'occhio, mezzo barcollante, ostruito dalle farfalle, con una mazza da golf in mano lunga quanto il suo corpo. B. scese giù fino al primo piano. Da lì poteva tentare solo due cose: sfondare le due porte o buttarsi dal balcone. Il piccoletto però stava già entrando da una di esse, così il vecchio B. ruppe il vetro di una finestra e si affacciò pronto a lanciarsi. “Fermati non andare!” gli urlò Johnny. “Ti spiegherò tutto, ti racconterò la storia della ragazza che sputa le farfalle dalla bocca. Però dovrai fare uno sforzo e credermi, perché quello che ti sto per dire è una storia vera e non un'invenzione. D'altronde lo vedi tu stesso in che situazione ci troviamo, le vedi anche tu le farfalle, no?” B. rimase in piedi sulla ringhiera, in equilibrio, dando le spalle al piccoletto, che cominciò il racconto: “All'inizio della primavera del 1983, un amico di un nostro amico, chiamiamolo Mister X, un tipo solitario, sulla quarantina, un po' cupo, era venuto ad una festa delle nostre e ci propose di collaborare ad un affare: dovevamo affittare a lui e ad una ragazza un appartamento purché fosse all'ultimo piano e in una zona nuova della città. Ci disse che avrebbe pagato anche venti volte il prezzo normale. Inoltre ci chiese protezione. La ragazza era molto giovane, aveva la pelle olivastra, gli occhi neri, lo sguardo intenso, il viso nascosto da una maschera. Non parlava mai, era muta. Mister X diceva che l'aveva conosciuta durante un viaggio per affari, in Indonesia, poco fuori Giakarta, in un villaggio poverissimo. Faceva la guaritrice dentro una capanna, molte persone andavano, pagando poco o nulla, appoggiavano la propria bocca sulla mammella della sua tetta destra, e chiudendo gli occhi, potevano vedere per alcuni momenti, le immagini di un luogo bellissimo e misterioso, finché lei dalla bocca non sputava fuori delle bellissime farfalle e tutto finiva. Lui credeva fosse tutto un trucco, comunque provò una volta e vide qualche cosa, gli passò anche un dolore al piede, ma era convinto che si trattasse di semplice autosuggestione. Le farfalle le uscivano dalla bocca, a decine, le sputava tossendo, e dopo soffriva, aveva delle brevissime convulsioni. Secondo Mister X era una recita, un trucco fatto ad arte. Comunque decise di fermarsi ancora un mese, per organizzare il suo rapimento e portarla in Italia, in una casa di sua proprietà, sperduta nella Val Pellice: aveva fiutato un grosso affare. La ragazza era muta, ma aveva con sé un vecchio quaderno scritto a mano, in lingua inglese, che riassumeva il mondo dal quale proveniva. Mister X riuscì a farlo interpretare e autenticare da uno storico londinese: la giovane, senza un nome, aveva diecimila anni ed era una specie di eterna ragazza che proveniva da un mondo perduto con montagne alte fino a seimila metri, valli e spiagge bellissime e spaziose, un'isola situata vicino all'attuale Papua Nuova Guinea, in cui vivevano uomini e donne in perfetta armonia, e con numerose farfalle d'ogni forma e colore, le quali erano considerate divinità, il grado più alto di bellezza. Un brutto giorno però una delle montagne più alte e affascinanti si trasformò in un terribile vulcano, che in poche ore eruttò, e poi scoppiò facendo scomparire l'isola. La ragazza era sulla spiaggia da sola, pronta a fuggire con una piccola barca attraverso l'Oceano, e le farfalle per salvarsi entrarono tutte insieme a centinaia di milioni dentro la sua bocca. Non si sa come, forse grazie alle farfalle intrappolate nel suo corpo, che le diedero la forza necessaria, sopravvisse alla catastrofe, divenendo così una piccola divinità, unica, senza più tempo, eterna fanciulla, che portava dentro di sé il ricordo dell'isola, dei suoi cari, di un mondo che non esisteva più. Viaggiò dall'Australia all'Indonesia, nascosta all'umanità, fino a quando non trovò qualcuno che la proteggesse. Era una ragazza molto bella, e così un giorno un uomo le saltò addosso baciandola per tutto il corpo fino a succhiarle la mammella, quando vide a frammenti quelle immagini lontane, e dalla bocca della ragazza fuoriuscire delle farfalle. Si spaventò, poi decise di aiutarla. Lei rimase per millenni in quel villaggio fuori Giakarta; non aveva bisogno di cibo, di acqua, non invecchiava mai. Chiusa dentro quella capanna, protetta dalla sua gente, e il suo viso stupendo da una maschera, veniva solo sfiorata dalle persone che volevano guarire o stare meglio, anche solo per pochi attimi. La gente aveva ammirazione, ma anche paura e nessuno tentò mai di violarla. Era considerata una divinità terrestre. Qualcuno tentò di scrivere un resoconto su questa storia, forse un esploratore inglese, oltre duecento anni fa, tentò di appuntare la storia della ragazza che sputava farfalle. A me questo fu raccontato da Mister X durante quella festa del 1983: lui era uno speculatore, non gli credevo, comunque io e la Signora gli affittammo l'appartamento ad un prezzo folle. In cambio dovevamo garantirgli la protezione, poiché la zona era nostra. Lui trovava i clienti, gente molto ricca, qualcuno passava anche dalle nostre feste alle quali tu avevi smesso di partecipare. Il tutto doveva rimanere una cosa di nicchia. Un giorno spinti dalla curiosità ci andammo anche io e la Signora. Credevo si trattasse di suggestione, perché conoscevo un po' la storia, comunque vidi qualche cosa di strano, una spiaggia, tante farfalle e forse qualche essere umano che pescava. Dalla bocca della ragazza, che aveva una maschera nera, uscirono due o tre farfalle, una, ricordo era arancione: le sputava, tossendo, quasi le vomitava. Infatti erano bagnate, all'inizio sembravano morte, ma poi, magicamente, dopo pochi attimi, si sollevavano da terra e volavano via dalla finestra. Mister X la portava in Val Pellice nel mese di agosto, lontano da tutto e da tutti, e lì non succedeva nulla. Lui amava fare passeggiate solitarie, lei se ne stava in casa. Pensa che non dormiva mai! Il libro di appunti raccontava poche cose, ma una di queste era di non toglierle mai la maschera e di non violarla, perché il rischio sarebbe stato la fine di tutto. Lei si sarebbe dissolta in milioni di farfalle, mentre l'amatore sarebbe morto all'istante. E così, per ventisette anni, tutto filò liscio: un paio di clienti tra il giorno e la notte, noi gli regalammo la casa, ma pretendemmo una percentuale sulle 'donazioni'. La gente usciva sollevata, nessuno guariva da una grave malattia, però si sentiva un po' meglio, diventava di buon umore. Forse perché vedeva quel mondo felice. Inoltre assistevi ad un altro spettacolo, forse doloroso per lei, ma esteticamente unico e affascinante: le farfalle sputate dalla sua bocca. Pensa che una volta mi fece passare un leggero dolore alla spalla, pazzesco! La Signora credeva fosse tutto una montatura, a partire dal quaderno di appunti. Ci andava ogni tanto, una volta al mese, solo per lo spettacolo, e non per i suoi problemi alla vista o alle gambe. Io avevo provato ad informarmi meglio su quest'uomo, ma non riuscii a saperne molto; anche chi lo presentò a noi, non era proprio un suo amico, ma un amico di un suo amico. Infine l'altra sera venne a trovarci invaso dall'ansia: ci disse che voleva toglierle la maschera, vedere il suo viso e fare l'amore con lei, perché nella sua lunga vita non si era mai innamorato, e aveva fatto sesso solo con le puttane o con donne per le quali non provava niente. Lui sentiva di amare questa misteriosa e silente creatura. Sono certo che questa notte il vecchio abbia esaudito il suo desiderio, ecco perché tutto questo casino! Ora credo anche io che questa storia sia vera!” B. rimase in perfetto equilibrio sulla ringhiera per tutto il tempo, ascoltando con attenzione. Infine disse: “Grazie, per questa bella storia!” Aveva gli occhi chiusi per non essere accecato dalle farfalle. Nel frattempo giunsero al piano anche la Signora T. e Mike, ma lui si buttò giù facendo un volo di qualche metro. Non si fece nulla, era come se le farfalle lo avessero accompagnato in questo suo salto, frenandone del tutto la caduta, e così rimase in piedi. Johnny si affacciò dal balconcino, gli lanciò la mazza da golf, che lentamente finì a terra. Poi gli urlò, proprio lui che mai aveva alzato la voce: “Non andare..non andare!” Per la strada non si vedeva un essere umano. Era in atto una tempesta di farfalle. I negozi era chiusi. Non passavano automobili. Si fermò di fronte al portone di quel palazzo, che poi era identico a quello in cui aveva sempre vissuto. Suonò a caso qualche campanello, ma nessuno rispose. Non vedeva più niente. Fortunatamente la porta d'ingresso non era chiusa, ma appoggiata. Entrò dentro. Il portone, la casa della custode, il tappeto, l'ascensore, le scale che portavano agli appartamenti, tutto era identico all'ultima volta, quando, a venticinque anni, B. aveva deciso di non uscire più dalla dimora della Signora T. L'ascensore era occupato, come sempre. Prese le scale, con l'intento di salire fino alla fine e scoprire la verità. Intanto le farfalle erano completamente sparite. Al primo piano gli zerbini erano quelli di un tempo e anche le targhette dei campanelli, i cognomi. Al quarto piano c'era la porta di casa sua, della sua famiglia. Intanto l'ascensore scendeva con due o tre persone dentro. Era forse tornato indietro di quarant'anni? Salì ancora. Ritrovò le famose porte degli appartamenti della Signorina T., fino all'ultimo piano. Le sue mani erano improvvisamente tornate giovani come quelle di un ventenne. Si toccò il viso, la pelle era liscia, i capelli c'erano, anche se era un po' stempiato. All'ottavo piano, da una parte, la porta del cinemino, dall'altra quella della ragazza che aveva incontrato quel giorno d'autunno del 1969. Suonò, senza pensarci, con il cuore in gola. Dopo una brevissima attesa, aprì la porta proprio lei, la ragazza diciottenne, con in testa quella farfalla come fermaglio per i capelli. Aveva l'aria assonnata, ma gli fece comunque un grande sorriso: “Ciao, ma che ci fai già qui? Non avevamo detto sabato pomeriggio?” B. si mise la mano sulla fronte. Ora aveva capito: era stato tutto un sogno. “Ma che hai?” disse lei un po' preoccupata, poi aggiunse: “Vuoi entrare un attimo? Scusa, sono mezza addormentata!” “No..no..! Vestiti, usciamo a fare due passi ora! Ti va? E' una bella giornata!” “Si!” Non era poi così convinta, ma si vestì lo stesso, in fretta. B. aspettò seduto sui luccicanti gradini. Scesero le scale a piedi, perché l'ascensore non era disponibile. Al secondo piano B. vide l'ascensore salire e gli parve di scorgere, dal vetro rettangolare della porta, Johnny e la Signorina o Signora T., probabilmente seduta sulla sedia a rotelle, (era alta come l'uomo). La donna gli fece l'occhiolino, mentre il piccoletto rimase impassibile. O almeno così parve a B. Uscirono dal palazzo. Era una bella giornata ventosa, un vento caldo nonostante la stagione autunnale. Andarono verso il parco, poco distante, e non tornarono a casa fino a sera. FINE (Racconto presente nel libro LA RAGAZZA CHE SPUTAVA FARFALLE E ALTRE STORIE, ilmiolibro 2011) D.I.

giovedì 18 ottobre 2012

PRIMO TEMPO racconto integrale (2011) ISBN 9788891002037

Quando doveva uscire dal suo appartamento, condiviso con il padre e con la madre, B. guardava sempre dallo spioncino della porta, assicurandosi che sul pianerottolo non ci fosse anima viva. Abitava al quarto piano di un palazzo di otto piani costruito verso la fine degli anni Cinquanta, in un quartiere abbastanza periferico di una grande città. L'ascensore era molto lento, sempre occupato e le scale scivolose: la custode era una grande lavoratrice e ogni mattino, tranne la domenica, lavava con cura maniacale, canticchiando, ogni singolo gradino. Alle dieci in punto la donna giungeva al quarto piano e questo il venticinquenne lo sapeva bene. Come conosceva a memoria gli orari dell'apertura dell'unica porta dell'appartamento di fronte al suo, in cui abitava una famiglia di origine lucana, composta da un signore sulla sessantina, in pensione, sposato con una donna molto più giovane, dalla quale aveva avuto due terribili gemelle che urlavano anche di notte. Ma il problema erano i due coniugi: ogni volta che B. li incontrava, cominciavano a parlare di cucina, dei piatti che avrebbero preparato a pranzo, a cena, e magari nei giorni a seguire. E si sentivano gli odori. Spesso il marito, un uomo con gli occhi chiari, la pelle scura e quasi completamente senza denti, lo intratteneva per decine di minuti parlando di pranzi storici che aveva organizzato in quella casa o in giro per l'Italia (l'uomo aveva vissuto un po' in tutte le città dal Sud al Nord, vendendo frutta e verdura al mercato). Lo invitava dentro casa, ma B. rifiutava sempre, e allora il tutto si concludeva con la solita domanda, che poi dal punto di vista del giovane, pareva più una provocazione: “E allora questi studi come vanno? Tutto bene?” “Certo... si... tutto bene!” B. era iscritto a Medicina, un vanto per i suoi genitori, entrambi ragionieri, e forse per l'intero palazzo: ma in verità le cose non andavano affatto. Gli mancavano sei esami, i più difficili, la media dei voti era quasi imbarazzante, e soprattutto, da qualche tempo, aveva perso del tutto la voglia di studiare. Dopo il Liceo Scientifico, che aveva concluso nel 1964, avrebbe voluto intraprendere studi umanistici, perché sognava da sempre di diventare un critico cinematografico o qualcosa di simile. Da almeno sei anni trascorreva un paio di pomeriggi alla settimana nei cinema del centro della città, tutto questo all'insaputa dei suoi genitori. All'inizio ci andava con suo amico, un ex compagno di scuola, che aveva la passione per il disegno; poi rimase solo, da quando l'amico aveva messo incinta una ragazza che avrebbe sposato. La sera capitava che tornasse a piedi, dopo aver visto un film con Marlon Brando o l'ultimo capolavoro di Bergman. Al padre e alla madre spesso raccontava che era uscito con Marianna, una ragazza con la quale era stato fidanzato senza provare nessuna emozione, per quasi tutti i cinque anni di scuola superiore. I due si sentivano ancora per telefono, ma non era vero che si frequentavano. B. aveva sempre raccontato che la storia con la ragazza andava avanti, seppur con alti e bassi. In realtà la sua era una scusa, una copertura che durava da molto tempo, per poter andare al cinematografo senza che i suoi lo sapessero. Era un amore segreto, il cinematografo. Nella sua camera da letto, nascondeva tutto, le riviste, i ritagli di articoli, le immagini dei divi, qualche libro di regia e i suoi quaderni in cui scriveva sui film che aveva visto. Amava soprattutto partire da un personaggio e in poche pagine raccontarne l'esistenza al di fuori della pellicola: il prima e il dopo di un protagonista, la vita di un personaggio marginale. Forse era più un fantasticatore che un interprete, uno spettatore particolare, che da un film partiva per crearne uno tutto suo. Probabilmente non sarebbe stato un bravo critico cinematografico. Amava anche leggere le biografie degli attori e delle attrici, dei produttori e dei registi. La sua stanza era composta da una piccola libreria di spessi libri di anatomia e fisiologia, un piccolo tavolo messo contro la parete pulita, senza poster e quadri o altro, un armadio e un letto. Sotto il letto nascondeva, dentro uno scatolone rosso porpora, i suoi sogni, quei libri, quei ritagli, i quaderni. Una tiepida mattina di fine ottobre dell'anno 1969, la sua vita cambiò per sempre. Qualche giorno prima la segreteria della sua Università lo aveva convocato per un banale chiarimento burocratico. Solitamente B. si alzava intorno alle otto, svegliato più dai rumori del piccolo ascensore che saliva e scendeva in continuazione, la sua stanza era proprio lì, a pochi metri anche dalle scale, che dalla lurida coscienza di cattivo studente mantenuto. Bevve la solita grande tazza di caffè con latte. Andò in bagno, poi si vestì per uscire. Erano le nove, non era abituato ad uscire a quell'ora, anzi, il mattino stava sempre chiuso in casa, seduto alla scrivania a fissare un libro di migliaia di pagine che proprio non gli interessava. Il rischio di incontrare qualcuno sul pianerottolo, in ascensore o per le scale, oltre alla custode, era molto alto: “Dottore come va?”, “Ci siamo?”, “A quando il grande giorno?”, “Hai poi finito?”, “Senti ho fatto delle analisi, se passi un attimo da casa mia, puoi darmi una tua interpretazione, perché io non ci capisco niente?”. Gli inquilini non erano molti, conosceva soprattutto quelli dal quarto piano in giù, i più pericolosi; gli altri dei piani superiori erano quasi degli sconosciuti. La padrona di casa, una signora condannata a vivere su una sedia a rotelle, stava al sesto o al settimo piano: praticamente il palazzo era suo, ma ne aveva altri, e centinaia di appartamenti che affittava e vendeva (così gli raccontò una volta la nonna di B.). Guardò come sempre dallo spioncino e trovò strada libera. La porta di fronte era chiusa, l'ascensore non era occupato. Uscì, chiuse la porta adagio, e girò la chiave con la mano destra, mentre con l'altra teneva premuto il bottone per far salire l'ascensore. Dalla parte delle scale proveniva una forte luce. Era una bella giornata, c'era anche un po' di vento; i vetri delle enormi finestre del mezzopiano vibravano. Sotto, forse al secondo piano, la custode lavava uno dei ventiquattro gradini (per piano), mentre canticchiava una canzone napoletana. L'ascensore stava arrivando. B. teneva pronta la chiave per aprire subito la porta, quando sentì un colpo di tosse di un uomo. Non proveniva dalla casa a fianco, la porta frontale al suo appartamento era molto vicina, quasi attaccata, forse poco più di due metri: questo rumore indicava una presenza ben più remota, forse qualcuno attendeva l'ascensore, sotto, al piano terra. B. entrò in ascensore e schiacciò il tasto PT. Si specchiò un attimo e pensò ai suoi capelli color castano chiaro che lentamente lo stavano abbandonando, proprio lui che da ragazzino, a scuola, veniva soprannominato 'Ciuffo', per via di quella pettinatura che voleva imitare alla lontana quella di James Dean. L'ascensore ci mise come sempre troppo tempo. Dalla chiusura della porta alla fine della discesa ci vollero almeno quaranta secondi e per quattro piani erano troppi, una eternità, eppure questo dava a B. la possibilità di preparare la sua solita risposta: “Vado di fretta, un'altra volta, buongiorno, grazie!” Ma al pianoterra non trovò nessuno e nemmeno al portone dell'ingresso. Tanto meglio, pensò. Poteva essere il vecchio del primo piano, un ex impiegato statale, un altro che non si fermava mai al semplice “buongiorno-buonasera” e andava avanti a parlare di sé e a chiedere, domandare, rompere le scatole al povero B. Un'ora più tardi ebbe una cattiva notizia: un impiegato della segreteria dell'Università gli disse, a malincuore, che c'era stato un errore, suo o della segreteria, non si capiva bene. Il signore dall'altra parte dello sportello aveva pure il raffreddore e una certa fretta: il sunto della questione era che B. avrebbe dovuto sostenere un esame in più, aggiunto ai sei che gli mancavano. Tornò dal centro della città verso casa a piedi, come spesso faceva: finirò a trent'anni o forse non finirò mai più, pensò. Il vento aveva aumentato la sua forza, ma non era un vento gelido. Giunto di fronte al portone del suo palazzo, mentre inseriva la sua chiave, udì una voce femminile gridare “Ehi!”, però il ragazzo non si voltò e aprì la porta. Quando si girò per chiuderla, trovò resistenza. Era una ragazza con i capelli neri lisci a caschetto, gli occhi scuri e la pelle olivastra. Portava un cappotto blu scuro, una sciarpa rossa, lo zaino pieno di libri. I pantaloni a zampa di elefante le nascondevano le scarpe. “Che fai mi chiudi fuori?” gli fece lei sorridendo. Abitava al settimo o all'ottavo piano, ma non ricordava il suo nome, ne conosceva la sua famiglia. “Scusa ero soprappensiero.” “Succede!” “Torni da scuola?” “Si..ma non c'era lezione, si faceva altro, sai in questo periodo..” B. annuì. “Fai il liceo?” “Classico, sono all'ultimo anno.” Arrivarono davanti all'ascensore, occupato. B. si massaggiò le tempie. Aveva gli occhi un po' arrossati. “Ehi ma che hai? Ti vedo giù!” “Mi deve essere andato qualcosa negli occhi, con questo ventaccio!” “E anche questo nei capelli” e gli tolse una foglia. “Grazie!” disse lui. “Era un regalo di Eolo” disse lei, sorridendo. La foglia, minuscola, rotonda, era una foglia verde scuro. B. se la mise in tasca. Poi si accorse che la ragazza aveva una farfalla azzurra tra i capelli, o meglio un fermaglio a forma di farfalla, quasi all'altezza dell'orecchio destro. “Ma questo ascensore è sempre occupato?” disse il fuoricorso. La ragazza perse d'improvviso il sorriso. “Che hai?” chiese lei. “Niente. E che...” abbassò la voce, e avvicinò la bocca all'orecchio del ragazzo, “...e che, ai piani superiori avvengono cose strane...”. “Cosa vuoi dire?” disse lui. “Sia di notte che di giorno, nei tre appartamenti dal sesto all'ottavo piano, si sentono sempre degli strani rumori. E da quella porta escono ed entrano persone un po' particolari...” “Lei chi sarebbe, la padrona di casa, la Signora T.?” “Si. Io qualche volta li vedo dallo spioncino, è gente sempre diversa e di ogni età. Qualcuno anche straniero, inglese e francese di sicuro” L'ascensore si era finalmente liberato; nello stesso istante i due schiacciarono in tutta fretta con l'indice della mano, il tasto dell'ascensore. All'improvviso si udì il rumore di una chiave girata nel portone dell'ingresso. Un omino dai lineamenti orientali, con i baffetti, il cappello tipo panama, la camicia hawaiana rossa con sopra una giacca scura, si avvicinò. Intanto l'ascensore era arrivato. “Buongiorno! Prego!” disse la ragazza. L'uomo, di età indefinibile, fece un gesto come a dire 'salite prima voi'. “No..no..prego, salga lei! Noi facciamo ancora due chiacchiere.” Era praticamente un nano. Teneva una grossa borsa a tracolla. Non disse nulla, entrò dentro e salì, senza salutare. “Quello è il 'giapponese', praticamente è uno di quelli fissi, che vivono con la Signora. Deve essere un figlio adottivo!” “Certo che ne sai di cose! Comunque è la prima volta che lo vedo.” Chiamarono l'ascensore e questa volta salirono. B. schiacciò il tasto P4. La farfalla che la ragazza teneva tra i capelli sembrava vera. Ci furono dieci secondi di silenzio. Poi lei gli chiese, guardandolo negli occhi: “Senti ti va qualche volta di fare due passi al parco qui vicino? Sarebbe bello!” “Certo, quando?” rispose il ragazzo. “Facciamo sabato pomeriggio. Basta che suoni, a qualsiasi ora dopo le tre e mi trovi!” “Va bene, passo sabato dopo le tre. Grazie!” “Allora ci conto, ciao!” B. entrò a casa sua, si buttò nel letto e pensò a quella simpatica ragazza, spontanea, piena di vita e anche molto carina, che nemmeno sapeva come si chiamava. Inoltre avrebbe dovuto suonare al settimo o all'ottavo piano? Poi pensò alle sue cose. I sette esami, il futuro che non c'era. Doveva prendere una decisione entro la serata, quando i genitori sarebbero tornati. Amava troppo il cinema, avrebbe voluto chiudersi in una sala cinematografica e non pensare più alla sua vita. Ma anche se avesse mollato Medicina, cosa avrebbe fatto? Prese due soldi e uscì con l'intenzione di andare verso il centro storico per fare una lunga passeggiata e magari avrebbe trovato una sala, il film giusto. L'ascensore era occupato, mentre dalla porta dei vicini qualcuno stava per uscire. B. sentì sbattere una porta anche al terzo piano. Si trattava di una congiura contro di lui? Lì sotto c'erano i peggiori, quelli che ogni volta, da qualche anno, gli chiedevano addirittura il giorno della discussione della tesi di laurea e dove avrebbe fatto la festa. Non avendo scampo, invece di rientrare in casa, (ci avrebbe impiegato troppo tempo con le chiavi), scappò verso l'alto, al piano superiore. Si buttò a terra sul pianerottolo, ansimando, e rimase coricato con la faccia al soffitto fino a quando non sentì aprire anche una delle due porte del quinto. Salì ancora. L'ascensore segnava sempre rosso. Già non ne poteva più. Lo spavento e quegli scatti improvvisi gli avevano fatto perdere il fiato. B. era un grande camminatore, abituato solo alla pianura. Salì ancora, affannato, per alcuni minuti. Anche se andava piano ed era poco lucido, si accorse che stava continuando a salire, quando in teoria il palazzo sarebbe dovuto finire da un pezzo. L'ascensore ora era libero. Schiacciò il tasto ma la luce rossa non si accese. Salì ancora. Le porte sembravano tutte uguali, in legno scuro, mentre gli zerbini non c'erano più e nemmeno i vasi con le piante. Guardò i nomi dei campanelli e le targhette erano vuote. Così decise di scendere: lo fece per alcuni minuti. Provò ad urlare. Bussò a tutte le porte, “Aiuto!”, mentre le grandi finestre con i vetri opachi nei metà-piani proprio non si aprivano. Svenì prima di poter ricavare una propria conclusione filosofica su se stesso, il genere umano, la vita, l'universo.. “E questo coglione dove cazzo lo hai trovato?” B. aprì gli occhi e vide la faccia del piccoletto, quello che la ragazza chiamava il 'giapponese', ma a parlare non era stato lui. “L'ho trovato addormentato qui davanti alla porta” sussurrò l'uomo. “Dove sono?” chiese il ragazzo, che si trovava in un letto, con la testa appoggiata su un cuscino. “Sei all'inferno caro mio bel ragazzo, all'inferno!” Finalmente, girandosi da una parte vide una donna sulla sedia a rotelle, vestita in modo elegante, tutta di rosa, piena di collane di perle, braccialetti d'oro e altro; portava anche un paio di occhiali da vista con le lenti enormi leggermente scure. Il 'giapponese' era senza cappello ed era completamente pelato. Ora gli sembrava un giovane uomo, riusciva quasi a dargli un'età approssimativa, trentacinque anni, non di più. La donna ne aveva almeno dieci di più. Era una bella signora, bionda e nella stanza, piccola e poco illuminata per via delle tende chiuse, si sentiva solo il suo forte profumo all'arancio. “Io la conosco, lei è la Signora T., la padrona di casa e di questo palazzo!” “Signorina, prego! E poi tu chi sei, l'investigatore Marlowe?” “Magari... sono solo lo studente di Medicina che abita al quarto piano!” “Allora mi dia il libretto universitario, subito!” “Come?” “Questa era una battuta. Quarto piano di cosa, di quale palazzo? Io ne ho almeno cinquanta. Che sta dicendo? Cosa vuole, chi cazzo è questo qua, Johnny?” “Non lo so, deve essere quel ragazzo del quarto piano, di questo palazzo.” “Pagano sempre l'affitto? Con puntualità?” “Sempre, sono tra i migliori. Lui deve essere il figlio, uno che vedo passeggiare sempre solo. Non so altro.” “Beh allora rimettilo in ascensore! Saprà premere un tasto o no?” B. era confuso, fissava la Signorina. “Che cazzo hai da guardarmi! Vuoi che ti portiamo giù in braccio?” Il piccoletto Johnny non sorrise. Sembrava una maschera, sempre impassibile. “Cosa... cosa...?”, disse B. “Cosa... cosa... ti sembro Parmenide? Non capisci quello che dico! E' così complesso? Mio Dio, ma questo è proprio rincoglionito! Portalo sopra e fagli fare un caffè da Teresa o Maria, che io devo andare all'ottavo per la mia proiezione!” Il ragazzo si alzò dal letto. “Aspetti Signorina! Quale proiezione?” “Ti spiego tutto subito perché sono una persona che ama la chiarezza e l'essenzialità: questa non è una casa, ma un luogo dove ci si diverte sempre, perché noi amiamo la bellezza. Sai che cos'è la bellezza, ragazzo?” “Si... per me la bellezza è il cinematografo! Solo quando mi chiudo in una sala buia, solo quando si accende un proiettore che su un telo bianco lo infiamma con le immagini di un film, anche un brutto film, per me è bellezza. Io mi sento libero, io mi sento vero solo in quei momenti. Per me tutto il resto è finzione!” La donna si accese una sigaretta e fece una breve pausa. Poi disse: “Benvenuto all'inferno, amico mio! Fai vedere la casa a questo giovane. Per la proiezione del film di Billy Wilder attenderò in sala: trenta minuti massimo! Fai una cosa veloce, per i dettagli ci sarà tempo. Stasera c'è anche la festa!” Johnny lo accompagnò come se si trattasse di una visita guidata in un museo. E ci volle ben poco perché il giovane comprendesse che era finito in un luogo davvero particolare e affascinante. L'appartamento in cui si trovavano era al sesto piano ed era doppio o meglio unificato: tutto il sesto piano del palazzo era della Signorina. Oltre duecento e quaranta metri quadrati, pensò B., poiché quello in cui abitava con la sua famiglia era circa la metà, centoventi. La stanza dove si era svegliato era molto piccola, con un letto a due piazze, una finestra chiusa e coperta del tutto da una tenda, un armadio alto quasi tre metri, che lambiva il soffitto, di legnaccio scuro e largo non più di un metro e mezzo. Johnny non sembrava proprio una persona che amasse parlare. Più che altro sussurrava, in lingua italiana senza fare errori: aveva un accento neutro, sembrava un robottino. Non si fermava mai sui dettagli. Apriva le porte di ogni stanza: c'erano le stanze degli ospiti, ben cinque, essenziali come quella in cui si era risvegliato, ed erano tutte concentrate in una parte dell'appartamento. Nel corridoio con le pareti bianche, alcuni quadri in cui il soggetto era sempre un paesaggio come una montagna, il mare, un lago, un vulcano, una foresta, le dune di un deserto, si alternavano a piccoli specchi con cornici dorate apparentemente antiche. I vetri degli specchi erano puliti e non sembravano scalfiti dal tempo. Il pavimento era in legno chiaro. Il bagno, in fondo al corridoio, era molto grande: c'era una grande vasca azzurra, la finestra era chiusa, tutto brillava. “Il bagno degli ospiti.” A fianco del bagno il ragazzo scorse la presenza di un vero ascensore interno alla casa. Dall'altra parte c'era la zona della Signorina e delle persone che l'assistevano, ed era privata, esclusiva, una zona inaccessibile, gli spiegò il piccoletto. “Lì non si può andare, chiaro?” Giunsero in un salotto, con poltrone, divani, un televisore molto grande, un tavolino in vetro e una grande finestra con le tende tirate e una porta che conduceva ad un balconcino identico a quello di casa sua. Finalmente un po' di luce, pensò il ragazzo. Una porta bianca presente in quel salotto portava alla zona privata; i due tornarono indietro, attraversando di nuovo il buio corridoio e giunsero di fronte all'ascensore interno. Johnny schiacciò il tasto rosso. B. era incredulo: come era possibile che in un palazzo potesse esserci un ascensore privato? Era anche un po' più spazioso rispetto a quello che usavano lui e gli altri condomini. Non aveva lo specchio interno. Si apriva in modo semplice, senza chiave, tirando verso di sé la porta bianca, identica a tutte le altre della casa. Se non fosse stato per il bottone, che era solo ad un metro dal pavimento, nessuno si sarebbe accorto di quella strana presenza. Entrarono. Era buio. Le pareti erano di legno. C'erano solo due tasti, uno per salire e uno per scendere. Andava lento e faceva meno rumore dell'altro ascensore. Il settimo piano era un altro mondo, praticamente un corpo unico, senza pareti divisorie, (tranne in un punto, dove c'erano le scale e l'ascensore del palazzo). Anche qui le finestre erano coperte da tende rosso porpora. Il pavimento era in legno, le pareti spoglie e completamente bianche. Da una parte c'erano dei tavolini, almeno una decina, rotondi, scuri, forse di marmo, con delle sedie, eleganti, quattro, tre, due per tavolo. Più in là il bancone del bar, con centinaia di bottiglie. Nella stanza oltre il bancone, c'era una cucina in stile moderno italiano anni Sessanta: in quel momento, una donna sulla cinquantina, canuta, con la pelle bianchissima, stava preparando il caffè. Il tavolo a forma rettangolare, aveva dieci sedie. “Ecco signore” disse lei con gentilezza. Aveva un forte accento meridionale, (forse calabrese, come il padre di B.). Versò in una tazzina verde il caffè bollente. “Ho già messo due cucchiaini di zucchero” disse la donna. Johnny lo aspettava seduto, mentre dalla tasca tirò fuori una minuscola agenda e la scrutò per qualche momento. B. lo bevve in piedi. Poi tornarono indietro. Nello spazio di fronte ai tavolini c'era un grande vuoto, come se si trattasse di una pista da ballo. In fondo, in un angolo, un pianoforte a coda, nero. Altri strumenti erano appoggiati, ma chiusi dentro le rispettive custodie. Oramai non aveva più dubbi, si trovava in un piccolo locale dove si suonava dal vivo e si poteva bere, ballare e anche appartarsi in una zona poco illuminata, su degli enormi cuscini-divani a forma di labbra, cinque in tutto. C'era anche un piccolo bagno. Presero l'ascensore per l'ottavo piano, il terzo appartamento. Ed era lì che la Signorina li attendeva. Intanto il giovane stava per svenire nuovamente, nonostante tutto quello che aveva visto fino a quel momento fosse già da capogiro, così assurdo e tremendamente eccitante, la vista da lì a pochi momenti di una sala cinematografica, seppur per poche decine di spettatori, non gli poteva sembrare vero. Nell'ingresso appena fuori dall'ascensore, attaccate alle pareti, c'erano delle locandine grandi come quelle dei cinema, di film importanti come Gilda, La febbre dell'oro, entrambi in lingua italiana e Ladri di biciclette, stranamente in lingua inglese. E ancora, di dimensioni ridotte, locandine in lingua francese, La grande illusion di Renoir e, un po' sorprendentemente, A bout a souffle, del giovane regista Godard, un film mitico secondo B. Sempre nel piccolo ingresso, c'erano centinaia di libri sulla storia del cinema. Prima di entrare nella sala cinematografica, B. fissò per un attimo quei libri; ne aveva già riconosciuto qualcuno che possedeva lui stesso, quelli nascosti sotto il suo letto, dentro quello scatolone. “I veri libri sono sotto, nell'area inaccessibile della Signorina, in una stanza dove lei qualche volta si ritira per riflettere e studiare. Ma è una donna generosa, e qualche volta se le chiedo un libro che vorrei leggere nella mia stanza o in salotto, dopo poco tempo ecco che lei me lo porta.” B. sentiva l'odore del proiettore. “Dentro, venite..!” urlava la donna. Superate la tende purpuree a spacco, entrarono nella sala, larga almeno cinquanta metri quadri, con tre file da cinque posti per ciascun fila. Lo schermo bianco era due metri in lunghezza e quattro o cinque in larghezza, e non poteva essere altrimenti, poiché si trattava di una stanza da appartamento adattata a cinema e che l'altezza del soffitto non superava i tre metri. La sala era interamente tappezzata di marrone scuro. In fondo c'era una piccola cabina per il proiettore e il proiezionista, rialzata di mezzo metro. “Qui posso fumare solo io!” disse la Signorina in prima fila, messa al fianco della quinta sedia, parlando loro di spalle. Le luci erano accese, ma molto deboli. “In questo piano è proibito fumare, le pellicole sedici millimetri sono come benzina!” ribadì la donna. “Certo, lo so...l'ho letto su molti manuali” rispose il ragazzo. “Allora che ne pensi? Lo sai che ho migliaia di copie. Basta che alzo il telefono e in mezza giornata posso farmi arrivare il film che voglio!” B. si era finalmente accorto che la donna aveva un leggero accento francese, anche se il suo italiano era limpido, senza errori. “E' incredibile! Sono senza parole! Che film di Wilder stavate per proiettare?” “Non lo so, ero indecisa tra Irma la dolce e L'appartamento. Ieri ho rivisto Giorni perduti, buon film! Ho pianto tanto.” “Mi scusi Signorina, lei è francese?” “E a te che cazzo te ne frega stronzo!” B. rimase di sasso, pensava che la donna avesse superato quell'aggressività dei primi minuti. “Mi scusi, non sono affari miei!” Intervenne il piccoletto, sempre sussurrando: “La Signorina non ama parlare di sé, del suo passato, delle cose che riguardano il tempo. In questa casa esiste solo l'attimo, quello che avviene o è avvenuto al di fuori non ha alcuna importanza, anzi direi che non esiste proprio nulla oltre queste mura. Qui abbiamo tutto ciò che occorre per essere felici e...” “Lascia perdere, se ne renderà conto molto presto. Comunque sono nata e cresciuta a Parigi: padre francese e madre italiana. Fine della storia. Sbrighiamoci. La festa si avvicina. A te la scelta del film.” “John Huston!” disse lui con entusiasmo. “John Huston cosa?” rispose lei. “E' un grande regista, ma ho visto solo una volta Giungla d'asfalto e Sterling Hayden è uno dei miei attori preferiti. Vorrei rivederlo” “Segna, per il pomeriggio di domani, sarai accontentato. Te l'ho detto, puoi vedere tutti i film della storia del cinema. Io ti faccio portare qui in due giorni pure le pizze dall'Indonesia o un cortometraggio di un regista dell'Isola di Pasqua. Ti porto pure lui in persona a presentarlo! Ed ora basta! Decido io il film, stiamo perdendo tempo: L'appartamento.. vai Johnny..!” Uno dei film più riusciti di Wilder, pensò B., che intanto si sedette in terza fila. “Vai Johnny..vai..uuuuh” continuava ad urlare la signorina con furiosa gioia. Il film cominciò. Il piccoletto sembrava esperto; forse era lì per quello, faceva il proiezionista? Prendeva le pellicole sedici millimetri da un loro magazzino e le portava alla Signorina? Un proiezionista-assistente personale, un tuttofare della donna? L'audio era buono: le due casse fissate in alto, le immagini a fuoco, in certi momenti un po' sgranate, quel rumore delle bobine che giravano nei due rulli, le comode poltrone blu imbottite, l'odore del cinematografo era sempre lo stesso. Mancavano le persone, ma raramente B. capitava in serate piene di spettatori, anzi, a volte preferiva la sala silenziosa dello spettacolo pomeridiano, senza dover fare la coda per il biglietto. Per lui il cinematografo era un luogo di riflessione, in cui entrava con la speranza di trovare il suono profondo della propria anima; ma era anche una forma di intrattenimento puro, il più lontano possibile dalla vita reale. “Bellissimo!” urlò. Finito il film la donna era commossa. Si accesero le luci, e voltandosi guardò B. “Allora ragazzo, che dici?” “Non saprei, sono ancora molto preso dall'interpretazione di Jack Lemmon!” “Preso? Parli di emozioni? Ma noi dobbiamo fare un dibattito serio, altrimenti che senso ha guardare un film così..?” “Ma quale dibattito? Io detesto i dibattiti!” “Ah..ah.. Ma ti sto prendendo in giro! Dibattito? Ah..ah.. neanche fossimo in quindici, qui dentro, in questa mia casa non ci sarà mai nessun dibattito! Su, ora vai a farti bello per la festa..” Poi aggiunse rivolgendosi al piccoletto: “Io devo fare alcune telefonate. Scendo prima io, a dopo!” Poco più tardi Johnny lo accompagnò nella piccola camera dove era rinvenuto poche ore prima. Gli spiegò che doveva lavarsi e poi avrebbe dovuto pensare ai vestiti, poiché quelli che aveva indosso non andavano bene: jeans, maglione a righe, scarpe da ginnastica, giacchetta nera... Oramai era giunta la sera e B. non aveva alcuna intenzione di uscire da quella casa, almeno per il momento. Fuori lo attendevano solo cose brutte, grandi responsabilità che in quel momento lui non avrebbe saputo affrontare. Si coricò. Le coperte del letto erano di lana morbida. Non gli venne neanche la voglia di aprire le tende e vedere fuori dalla finestra. Pensò ai suoi genitori, sicuramente preoccupati per il suo ritardo, però aveva deciso che sarebbe rimasto lì. I suoi pensieri vennero subito interrotti da una signora molto grassa, con gli occhiali spessi e i capelli bianchi molto corti. “Devo misurare.. per i vestiti!” disse lei, aggiungendo: “Desidera qualche cosa in particolare?” “No!” rispose lui. “Si può spogliare?” “Come?” “Può farmi vedere che mutande porta. E le calze e la canottiera?” B. non fece opposizione, in fondo non era nemmeno tra le cose più strane avvenute fino a quel momento. La donna, evidentemente una sarta, gli misurò quasi ogni parte del corpo. Subito dopo il giovane andò a fare una doccia calda: lei gli aveva lasciato un accappatoio color verde smeraldo. Non sapeva bene quanto tempo fosse rimasto in quel confortevole bagno, ma quando tornò nella sua stanza, trovò l'armadio pieno di vestiti particolarmente 'eleganti' e un foglio in cui veniva spiegato come indossarli. I suoi abiti, invece, erano scomparsi, tranne il portafoglio che era rimasto appoggiato sul cuscino del letto. A parte duemila lire, mancavano la carta d'identità, la tessera della biblioteca, un piccolo ritratto del suo gatto, che B. aveva fatto a matita circa un anno prima. “Li avrò lasciati a casa? Possibile? O li avrà presi la sarta?” pensò. Non sapeva che ore fossero quando il citofono del sesto piano cominciò a suonare senza sosta, e poi il campanello della porta, la gente che entrava in casa, giubilante, le risate, gli idiomi che si mischiavano, il francese, l'inglese, lo spagnolo, ma anche l'italiano con i vari accenti, soprattutto il romano, mentre B. stava chiuso in quella che era la sua stanza provvisoria, in piedi, con l'orecchio teso alla porta, impaurito da tanta confusione, irrigidito da quei vestiti 'eleganti' che mai aveva portato in vita sua. Guardò l'armadio con un certo disprezzo perché gli sembravano più dei costumi di scena per un ruolo di aristocratico decaduto, e ciò che aveva indosso era una marsina giallognola che arrivava alle ginocchia, un lungo gilè rosso e braghe corte, roba che forse aveva visto in un film sulla Reggia di Versailles? B. portava anche delle scarpe marroni con il tacco rosso. In testa aveva una parrucca di lana. Era una festa in maschera? O la Signorina teneva alle sue presunte origini di aristocratica francese e tutti gli ospiti ne erano rappresentanti? Si sarebbe dovuto vestire con gli altri abiti presenti in quell'armadio anche per andare a vedere il film scelto per il pomeriggio? E dopo, se fosse rimasto ancora un po', come avrebbe potuto vivere nel quotidiano con tanta scomodità? La nuova biancheria intima, mutande e canottiera, erano gli unici indumenti legati al suo tempo. Prese coraggio e uscì dalla stanza. Il corridoio era un tunnel nebbioso senza alcuna presenza umana, ma all'ingresso una folla stava aspettando l'ascensore fumando sigarette e sigari, mentre una donna ritirava le loro giacche. La prima cosa che notò in questo gruppetto era che nessuno vestiva come lui e questo fu un sollievo. Inoltre erano quasi tutti abbastanza giovani, sulla trentina o poco più; B. conosceva un po' il francese e meglio l'inglese che aveva imparato guardando i film in lingua originale, con i sottotitoli, in un cinemino ai piedi delle colline, vicino al centro storico della città. “Ah ah ah, ma guarda questo qua!” disse uno biondo, probabilmente romano, vestito con camicia hawaiana (o californiana?) rossa. B. si avvicinò a loro, tutti vestiti in maniera estiva, comprese due donne, una con gli occhiali da sole. “Prego Re Luigi!” disse il biondo, ora composto. “Grazie” rispose B. con distacco ed entrò nell'ascensore, da solo. Salì al piano superiore. In pochi attimi capì di essere finito alla festa sbagliata e che la Signorina lo aveva preso in giro. Si udivano da sopra famose melodie di canzoni americane, probabilmente dei Beach Boys; la gente urlava, sembrava già eccitata dall'alcool e da altro. B. decise comunque di reggere il gioco al proprio personaggio, e di rimanere serio il più a lungo possibile. Al suo arrivo al piano risero tutti. Qualcuno applaudì. B. passò in mezzo ad una cinquantina di persone; si stava molto stretti, c'era chi urlava “Whisky! Whisky!”. La Signorina stava vicino al pianoforte, muovendo a tempo la testa. Era vestita con un abito da sera nero. Il piccoletto non si vedeva. Sembrava una festa vicina alla moda 'surfers', ma erano presenti anche personaggi vestiti con giacca e cravatta: uno di questi, molto vecchio, ballava strusciandosi sul corpo di una bella giovane. “Grande...grande, yeah...!” urlò a B., che intanto si dirigeva al bancone in cui venivano serviti whisky, cocktail, vino, birra e altro da una bella ragazza che parlava solo in inglese. Ordinò in lingua inglese un jack daniel's senza ghiaccio, ma la ragazza, forse distratta dall'abbigliamento di B., mise dentro tre o quattro cubetti di ghiaccio, e rise. E' incredibile, pensò, poche ore prima questo luogo era solo una grande stanza completamente vuota ed ora.. ma tu guarda..! Si appoggiò al bancone. Dall'altra parte la Signorina si voltò per un attimo e gli fece l'occhiolino, o almeno così gli parve, poiché a dividerli c'erano troppe persone (inoltre lei aveva quegli occhiali abbastanza scuri). All'improvviso un uomo di colore estrasse il suo sax, e accompagnato dal pianista, suonò per ore una musica bellissima che B. non aveva mai udito in vita sua. C'era sempre più gente e confusione: Fellini non avrebbe potuto immaginare di meglio. Il quarto jack gli fece perdere la sua timidezza, baciò in bocca molte donne, forse anche qualche uomo, e alla fine si ritrovò a letto con la barista e una sua amica di nemmeno vent'anni, che la ospitava a Milano. La barista diceva di essere del Montana, U.S.A.! Quella notte B. aveva conosciuto almeno un centinaio di persone, ma non si ricordava nemmeno un nome o un dialogo o un volto. Si svegliò nudo tra le braccia delle due sconosciute quando qualcuno bussò alla sua porta: era il piccoletto Johnny che gli ricordava la proiezione del film di Huston. “Tra dieci minuti si inizia. Sarai solo in sala. Fai presto che poi ho altri impegni!” “Certo. Grazie!” rispose. Non aveva fame perché per tutta la notte aveva mangiato parecchi stuzzichini, soprattutto quelli con il salmone affumicato. Nell'armadio ritrovò i suoi vestiti, le scarpe da ginnastica e il suo documento d'identità, la tessera della biblioteca, il ritratto del suo gatto. Degli abiti da aristocratico nessuna traccia. Si rivestì. Uscì dalla camera. Nel corridoio tutte le altre stanze sembravano occupate, e in una qualcuno russava. Provò ad andare in bagno, ma era chiuso a chiave. Salì fino all'ultimo piano e per prima cosa andò in quello dell'ottavo piano, al quale però mancava lo specchio. Terminate le sue cose, si sedette al centro della vuota sala, e il film cominciò immediatamente. Era ancora assonnato, non aveva mai visto una pellicola in un cinema dopo una sbronza e con il mal di testa. (Era stata anche la prima volta con due donne contemporaneamente). Fu comunque un dolore emozionante vedere quell'omaccione di Sterling Hayden stramazzare a terra nel luogo in cui era cresciuto, morire nell'erba, tra i suoi cavalli. Per questo personaggio B. non aveva mai inventato una vita felice, e nemmeno per il 'dottore', interpretato da Sam Jaffe, il quale, ad un passo dalla libertà, viene arrestato, perché rimane a guardare una ragazza che balla al ju-box. Non sempre il giovane riusciva a fantasticare su un'altra possibile esistenza dei personaggi che vedeva sullo schermo: alcuni gli sembravano perfetti così come erano, chiusi nella loro grandezza, inaccessibili alla sua fantasia, senza un prima e senza un dopo, e scrivere sarebbe stato inutile. Quando si accesero le luci, il giovane si accorse che il piccoletto era stato sostituito da un uomo sulla trentina, con i capelli neri corti, i baffi, la pelle scura, la camicia bianca fuori dai pantaloni. “Buongiorno signore, io sono il proiezionista, mi chiamo Mike.” “Buongiorno Mike, io sono B.!” “Lo so, vuoi vedere altro signore? Quando vuoi vedere altro, devi scrivere su questo foglio il titolo e in poco tempo troverò il film.” “Grazie Mike!” e B. scrisse senza pensarci una decina di titoli, tra cui un film di Dreyer, Ordet, che purtroppo non aveva mai visto, mentre gli altri film li conosceva bene, ma avrebbe voluto rivederli all'istante. Il proiezionista poteva essere sudamericano. B. spinto ancora una volta dalla curiosità gli chiese: “Scusa Mike, di dove sei?” “Di questa casa” rispose, poi aggiunse: “Bene li abbiamo tutti i film, due sono qui. Vuoi vedere?” “Sì” Rimase in quella sala per svariate settimane o forse per mesi, vedendo solo film. Ogni tanto parlava con Mike, ma di cose pragmatiche, non facevano mai discorsi che finissero sul personale e nemmeno discussioni sulle pellicole. L'uomo era anche molto geloso del suo proiettore sedici millimetri, non amava che lo spettatore B. si avvicinasse ad esso o che chiedesse dettagli tecnici sul suo funzionamento. Al ragazzo, comunque, interessavano i film, e ne guardò molti: film con Marlon Brando e con James Dean, i film di Bergman degli anni Cinquanta, tra cui Un'estate d'amore, le comiche mute di Charlot, un film con Totò e alcuni con Alberto Sordi, almeno dieci film con Bogart, e poi Il carretto fantasma, tre film di Murnau, tre film con Greta Garbo e altri film classici di Hollywood, Come foglie al vento, i musical, alcuni film di film di John Ford, Kurosawa e un film di Ozu, e tanti altri, francesi, soprattutto Renè Clair, Godard e Jacques Tati, film russi, film inglesi, film messicani, film spagnoli, insomma, passava da un film all'altro, da un genere ad un autore sempre diverso. Scoprì che gliene mancavano ancora molti e così la sua fame di cinema aumentava. Dopo la sesta proiezione consecutiva si addormentava sulle comode poltroncine. Il bagno era a pochi passi: Mike aveva provveduto a tutto, spazzolino, asciugamani, vestiti di ricambio e soprattutto gli portava il cibo su un vassoio ogni tre visioni. Avrebbe potuto vivere così per sempre, dentro quella sala buia, senza conoscere più la differenza tra la notte e il giorno. E così stava già accadendo. L'unica interferenza era ciò che appariva dallo spioncino della porta chiusa a chiave di quell'ottavo piano. (E mai più aperta). “Fermo signore dove vai?” gli ripeteva per l'ennesima volta Mike, ma lui guardava la ragazza che aveva conosciuto durante il suo ultimo giorno nel mondo reale. “Niente!” rispondeva. Se aveva oramai dimenticato la sua famiglia, i suoi studi in medicina, gli ex compagni di scuola, le strade della città, la ragazza senza nome gli era rimasta dentro come un cortometraggio proiettato continuamente nella sua testa e con continue varianti, ma sempre con lo stesso finale: “Allora a Sabato pomeriggio!” Inoltre lei abitava proprio lì, solo una porta chiusa, un pianerottolo, e un'altra porta li divideva. Ma riuscire a vederla fu un caso e anche una grande fatica. Durante le pause in cui non venivano proiettati film, Mike viveva al sesto piano, e B., sapendo che era giorno (poteva aprire le tende, ma il balcone era inaccessibile, la porticina era chiusa con un grande lucchetto e inoltre non c'erano orologi), aspettava che lei uscisse dall'ascensore o dalla porta di casa. Una volta aveva visto il padre e due volte la madre (e anche la custode che lavava le scale e il pianerottolo), infine lei, senza più quella sciarpa rossa, ma con i pantaloni lunghi e una felpa sportiva a volte blu: portava sempre i capelli a caschetto e quel fermaglio a forma di farfalla. Una volta era pure inciampata uscendo dall'ascensore, facendo sorridere lo spione. Quanto era graziosa.. B. teneva nella tasca destra dei jeans, quella foglia che lei gli aveva tolto dai capelli. La foglia stranamente non era secca, e il suo verde scuro era lo stesso di qualche mese prima. Verso la fine della primavera, il ragazzo non era ancora uscito da quella saletta cinematografica. Si era anche dimenticato della Signorina e del piccoletto. L'unico suo contatto con gli esseri umani rimaneva Mike, che continuava a fargli da proiezionista e da cameriere. Poi, un bel giorno, durante la proiezione di un film di Marcel Carnè, Les enfants du paradis (versione senza tagli e in lingua originale), una volta accese le luci della saletta, si ritrovò dietro di sè la Signorina T., con le lacrime agli occhi e Johnny, impassibile, seduto nell'ultima fila, con le mani affondate nelle tasche della giacca nera. “Quando Mike mi ha detto che avevi scelto questo film, sono venuta quì!” “Buongiorno, buonasera..!” disse lui alzandosi in piedi. “Buonanotte! Seduto! Non interrompere la Signorina!” disse il piccoletto. “Dicevo.. è uno dei miei film preferiti! Non dovrei vederlo, perché mi fa star male!” Si avvicinò a lui, mentre Johnny rimase seduto in fondo. Si asciugò le lacrime con un foulard bianco, e dopo un colpo di tosse, la sua voce tornò normale. “Noi dobbiamo parlare, amico mio!” Aveva un profumo molto forte e un altro foulard, azzurro, attorno al collo. Il rossetto le lambiva quasi le narici del naso. Era sempre difficile capire se la donna lo guardasse negli occhi, per via di quegli occhialoni con le lenti un po' scure. “Intanto è inutile chiederti come va? Credo tu stia bene, anzi non ho dubbi, ne sono sicura..” “Si sono felice, è il momento più bello della mia vita, è sempre ciò che ho sognato!” “Bene! E allora cosa hai da guardare dalla porta?” “Quale porta?” D'impeto la donna lo prese dalla camicia, strattonandolo, poi gli tirò alcuni schiaffi in faccia. Il ragazzo non reagì. “Quale porta? Quale porta? Hai fatto tanto per rimanere qui, noi facciamo dei sacrifici per mantenere i tuoi sogni ed ora tu vuoi andartene via?” “No, voglio rimanere qui per sempre! Non voglio andare da nessuna parte! Si..è vero..è vero.. ogni tanto ho guardato quella ragazza che abita accanto. L'ho conosciuta un po' di tempo fa, ma non volevo aprire la porta, mai l'avrei fatto, a me interessa vivere qui!” La donna appoggiò le spalle contro lo schienale della sedia a rotelle. “Ti credo, ti credo! E' stato un momento di debolezza! D'altronde sei giovane! E comunque la porta è sigillata! Ora però è arrivato il momento di darti una grande notizia: presto tutto il palazzo sarà a nostra disposizione!” La prima cosa che B. pensò non fu quella di chiedere dei suoi genitori, la loro reazione dopo la sua scomparsa, come stavano e dove sarebbero andati a vivere. La loro esistenza non gli importava più e nemmeno la sua: gli interessava solo la ragazza. Non l'avrebbe più rivista e in quel momento sentì i brividi in ogni parte del suo corpo. “Beh.. non sei contento? A cosa stai pensando? I tuoi genitori stanno bene, tranquillo! La polizia ti ha cercato, ma Johnny è un genio, ha sistemato tutto: non sei morto, perché vivi alle Hawaii! Hai capito? Sei fuggito lì per amore, un colpo di fulmine e via.. e in Europa non vuoi tornare. L'hanno bevuta tutti, i tuoi, la polizia.. Le indagini sono chiuse da tempo. Ogni tanto gli scrivi delle belle lettere rassicuranti, prometti che magari un giorno chissà.. tornerai, ma per ora no! Perché stai bene lì, in quella meravigliosa isola. D'altronde è vero che stai bene, no?” “Si, molto! Grazie!” “In questo periodo ti sei perso un sacco di feste, peccato, mi dispiace! Comunque tra pochi mesi cominceranno i lavori ed entro due anni avremo otto piani tutti per noi” “E il cinema?” “Il cinema rimarrà all'ottavo, lo ingrandiremo. Ho molti amici che mi hanno chiesto perché non proiettavo più film e ho deciso che così sarà. Nessuno a parte te, me, Johnny e Mike, o altri addetti della casa potranno salire quassù. Ma per questo dobbiamo fare un patto!” “Sono pronto a tutto!” La donna gli tirò uno schiaffo, meno forte, quasi un buffetto. Poi gli fece l'occhiolino e se ne andò. “Preparati, domani c'è una grande festa rock'n'roll. Tutti i pezzi del '57..Uhhh!” gli urlò da lontano. A quel punto si alzò Johnny che gli spiegò, come sempre a bassa voce, alcune regole. Per circa due anni avrebbe dovuto vivere in una stanzetta del sesto piano. Gli avrebbero aggiunto un tavolino per le sue letture sul cinema e un proiettore otto millimetri facile da usare per la proiezione di qualche film. Inoltre ci sarebbe stato il televisore nel salotto. Una volta terminati i lavori, sarebbe tornato al nuovo piano del cinema, e avrebbe dormito in una stanza fatta apposta per lui. Ma sui lavori della casa non aggiunse molto altro. Le feste sarebbero continuate ancora per qualche mese, poi averebbero ristrutturato anche il settimo: B. poteva parteciparvi, ma solo ad alcune condizioni, e la prima era di natura scenica. La Signorina amava stupire: introducendo un elemento estraniante che non c'entrasse nulla con il tipo di festa, il ragazzo si sarebbe dovuto vestire una volta da Napoleone, una volta da Giulio Cesare, da Casanova, da Cavour e altri ancora, cercando di recitare la parte il meglio possibile, almeno per una notte. Anche a letto con le ragazze, perché dopo le feste tutti in un modo o nell'altro ci finivano, avrebbe dovuto fare sesso non alla B., ma come Napoleone, come Casanova, come Cavour.. Inoltre il mascheramento serviva per non essere riconosciuto; mai avrebbe dovuto parlare di sè. Gli era vietato uscire dal palazzo, e sul balcone ci poteva stare solo se avesse messo una maschera. Non poteva usare il telefono, e in caso di malore avevano a disposizione alcuni medici personali. Se si fosse ammalato in modo grave, pazienza, in ospedale non avrebbero potuto portarlo e sarebbe morto lì, in casa, e amen. “Infine se un giorno tenterai di scappare da qui, dovrò ucciderti!” aggiunse Johnny. “Uccidermi?” “Si, ma non preoccuparti. Sono sicuro che vivrai più che bene da noi, quindi ti diamo ufficialmente il benvenuto!” Gli tese la mano, poi lo abbracciò, senza sorridere, infine si allontanò. B. rimase spiazzato più dal gesto di affetto, che dalle tante novità. Lo richiamò più volte, “Johnny.. Johnny!” quando l'uomo era oramai davanti all'ascensore. Allora B. gli andò dietro. “Johnny! Senti, una cosa però devo proprio chiedertela!” “Dimmi” “Ma tu sei per caso giapponese?” “E a te che cazzo te ne frega, stronzo!” entrò in ascensore, sbattendo forte la porta, e scese giù ai piani inferiori. FINE PRIMO TEMPO