martedì 30 ottobre 2012

SECONDO TEMPO racconto integrale (2011) ISBN 9788891002037

Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era chiuso dentro quella stanza al sesto piano, dalla quale usciva solo per attraversare il corridoio che portava dritto al bagno o per andare in salotto e sul balconcino. Ogni giorno una giovane donna si prendeva cura di lui, gli portava da mangiare, i medicinali per le forti emicranie, i libri sul cinema, le pellicole otto millimetri (la sua più grande soddisfazione, le proiettava senza alcun aiuto); gli lavava i vestiti e lo faceva sfogare come poteva. Dopo un certo periodo la donna veniva sostituita: nessuna di loro parlava né l'italiano né il francese o l'inglese. Forse erano tutte dell'est dell'Europa. Bruttine e sempre molto gentili: la mente, l'idea di chi le mandava era quella di non farlo innamorare, ma nemmeno quella di farlo impazzire di astinenza. Ogni tanto, oltre che a letto, faceva altri tipi di esercizi fisici, come la breve corsa in corridoio, le flessioni, gli addominali, in camera. Non fu facile vivere in quelle condizioni. Il palazzo tremava dalla mattina alla sera, gli operai lo stavano rivoltando. B. era costretto a mettersi una maschera nera quando usciva a prendere aria sul balconcino. Ogni tanto ritrovava con piacere nel salotto del piano il caro Johnny, mentre della Signorina non aveva più avuto notizie e ovviamente non avrebbe osato chiedere: la sua parte d'appartamento rimaneva inaccessibile e silenziosa. “Come va?” gli chiedeva ogni tanto il piccoletto, mentre guardavano un film western alla televisione (i telegiornali non li seguivano mai, mentre Johnny era fissato con i quiz e i documentari di divulgazione scientifica). “Resisti, forza! Il palazzo è quasi pronto e diventerà un luogo unico, che non esiste da nessuna parte del mondo, vedrai!” lo rassicurava il piccoletto, senza neanche guardarlo. Grazie, prego, grazie molte. Gli anni passavano, secondo i suoi calcoli cinque anni esatti. Il ragazzo non era più un ragazzo ma un giovane uomo con i primissimi capelli bianchi ai lati, mentre gli altri sopra se ne erano andati del tutto, e in fondo l'idea di travestirsi alle feste non era poi così male (Cavour a parte). Due cose però rimanevano bizzarre, rispetto alla media: la prima riguardava Johnny. Ogni tanto tornava di sera, sporco di sangue, ed era talmente stanco che si sedeva davanti alla televisione senza cambiarsi, macchiando i divani bianchi. B. non dubitava che anch'egli lavorasse per il bene del palazzo, ma certamente non come muratore, geometra o architetto. Dormiva a due stanze da quella del trentenne. A volte usciva e rientrava con una borsa lunga e stretta: “Vado a giocare a golf” gli aveva detto in più di una occasione, un po' seccato, senza che B. gli avesse chiesto alcunché. La seconda cosa strana era che contemporaneamente ai lavori di ristrutturazione del loro palazzo, fuori, avevano costruito alcuni palazzi di otto piani praticamente identici, almeno esteriormente, a quello in cui viveva il nostro. Dalle finestre e dal balconcino del salotto poteva contare sette palazzi, ma era probabile che ce ne fossero altri. Due vecchi palazzi dei primi del Novecento e alcune villette erano state abbattute. Forse anche il parco, poco distante, era stato cancellato. Vennero aperti dei negozi, la zona stava quasi diventando il centro del quartiere. B. non riusciva più a vedere, se non a frammenti, le colline e le montagne. Una sera d'estate nel pieno degli anni Settanta, mentre B. stava ascoltando un disco di Buddy Holly (aveva chiesto invano Chopin, ma la sua musica avrebbe potuto immalinconirlo troppo; in compenso aveva scoperto dei pianisti jazz micidiali), udì la voce della Signorina, fuori nel corridoio. “Dov'è..dov'è..dov'è..il mio eroe? Il mio eroe!” Aprì la porta con impeto, lui si alzò dal letto spaventato e anche un po' commosso. La donna era sempre molto bella, bionda, con gli occhiali enormi che le coprivano metà del volto, elegante, eccessivamente profumata e miracolosamente in piedi. “Hai visto? Cinque anni a Lourdes!!” Aveva una stampella sola, sulla quale appoggiava la mano sinistra. “Lourdes? Sono contento per lei e poi che sorpresa dopo tutto questo tempo, Signorina!!” Andò per baciarla, ma lei lo fermò mettendo il braccio destro in avanti: “Signora, prego! Mi sono sposata con Johnny, non toccarmi o farai ingelosire mio marito, ci vuole rispetto!” Dietro apparve Johnny, impassibile. “Io non lo sapevo, mi scusi!” “Ah..ah.., che credulone! Mi sono sposata con Johnny! Ah..ah.. E poi Lourdes..ah..ah.., ma quale Lourdes! Sono stata in America caro, operazione riuscita e lunga fisioterapia! Grande forza di volontà come la tua, caro! Ma come hai fatto a resistere per tutto questo tempo in una stanza, un corridoio, un salotto, senza il nostro cinematografo?” Alla donna non venne in mente di usare parole come “uscire.. passeggiare.. viaggiare..”, frasi come “incontrare le persone care del passato..”, ed effettivamente a B. non venne mai, neanche per un attimo, la voglia di andarsene a spasso. Anche sul balconcino ci andava il giusto necessario per prendere una boccata d'aria e far diminuire quel costante leggero male alla testa. “Ed ora la seconda sorpresa: il palazzo è pronto!” Ma lui lo aveva intuito. Era da tempo che non sentiva più rumori. “Andiamo a fare un giro, e complimenti per i capelli! Gli uomini pelati sono più virili!” “Beh, almeno per Mussolini risparmieremo sulla parrucca”, rispose lui, con una battuta alla Woody Allen, riferendosi ai suoi futuri travestimenti alle feste. La donna rise a squarciagola, poi presero l'ascensore interno, il solito ascensore semibuio, con due tasti, uno per scendere e l'altro per salire; ora in tre dentro, senza la sedia a rotelle ci stavano, anche se un po' stretti. “Partiamo dal primo piano” disse la donna. Avevano trasformato gli appartamenti in un piccolo parco artificiale, unendo il primo e il secondo piano: un prato con l'erba che arrivava alle ginocchia, un piccolo stagno, alcuni cespugli e alberelli in fiore, tutto di plastica (tranne l'acqua dello stagno). Il soffitto, alto circa sei metri, era stato dipinto di azzurro e di bianco. In sottofondo veniva diffuso il suono dei grilli e un vento leggero provocato dai ventilatori ben nascosti: tutto si muoveva con armonia, compresi i capelli della donna, se almeno quelli erano veri. “Fuori Parigi, quando ero bambina, avevamo una casa con un grande giardino, ben curato, ma io preferivo uscire e andare nei luoghi un po' più selvatici, proprio come questo.” E aggiunse, tornando verso l'ascensore: “Anche tu potrai venire qui, quando vuoi e distenderti!” Le finestre coperte dalle tende, erano chiuse, forse sigillate. La luce artificiale simulava un'aurora o un tramonto (non si capiva bene). Faceva molto caldo, nonostante il vento. “Peccato che ci sia il muro delle scale interne e dell'ascensore!” disse B. “E' vero, ma non potevamo fare altrimenti, caro architetto!” disse lei un po' stizzita. “Le scale interne e l'ascensore sono rimaste uguali. La portinaia è cambiata, ora c'è una del nostro clan. Pensa che parla solo spagnolo! Gli ospiti devono entrare normalmente, mica possono volare e anche noi..ovviamente tutti..” “Tranne me!” disse B. sorridendo. “Beh, tra poco avrai il tuo meritato regalo!” Per evitare che qualcuno lo vedesse attraverso le finestre aperte, B. fu costretto a mettersi la solita maschera nera: il terzo piano era composto da una decina di camere con il letto a doppia piazza. Sembrava la parodia di un piccolo bordello di lusso austriaco, con quadri, piccole statue, nei corridoi, di vari animali esotici, le pareti rosse: “Qui potrai portare le tue conquiste, mio caro Napoleone, sempre se troverai una stanza libera.” Il quarto e il quinto piano erano unificati: una sala da ballo, un palcoscenico abbastanza profondo per i musicisti e tutto l'impianto, l'asta del microfono al centro che luccicava; i divanetti da una parte e i tavolini rotondi dall'altra. Ma la vera novità era lo spazio raddoppiato da tre a sei metri del soffitto, il quale avrebbe consentito maggiore respiro alla folla ubriaca e delirante durante le feste. Il pavimento era in legno. Le finestre erano aperte. Le tende avevano un colore verde smeraldo. Il bar era simile a quello precedente, e dietro c'era la cucina in stile italiano, con lo stesso grande tavolo. “Non amo le cene troppo affollate, preferisco quelle intime, con le nostre donne e gli altri della nostra squadra.” In quegli anni B. aveva sempre pranzato e cenato da solo, prima al cinemino, seduto sulle poltroncine, poi su quel tavolo nella sua stanza. Non era chiaro se lui facesse o no parte del clan, e quindi potesse mangiare con loro almeno qualche volta. Tornarono in ascensore saltando il sesto, l'unico piano che non aveva subito modifiche, e nel quale la donna sarebbe tornata a vivere in quelle sue misteriose stanze. “Capolinea!” L'ascensore s'arrestò. Giunsero alla tanto attesa destinazione: il cinematografo. Era buio. Uscirono, tenendosi tutti e tre a braccetto, camminarono per alcune decine di secondi fino a quando la donna urlò: “Luce!!” E gli occhi del nostro B., in un momento, divennero rossi e pieni di lacrime. “Gra-gra-zie!” balbettò sorridendo. Anche qui avevano unito i due piani, il settimo aggiunto all'ottavo, e l'avevano trasformato in un cinema vero, con le poltroncine blu a salire, almeno una cinquantina, divise a metà da un corridoio che terminava con le tende a spacco; lo schermo, il doppio di quello precedente, era contornato da tende rosso porpora. Alle pareti laterali, impressi nella tappezzeria marrone scuro, c'erano due giganteschi poster di Audrey Hepburn e Sterlyng Hayden da una parte, Fellini e Bergman dall'altra. “Proiettore trentacinque millimetri e tutti i film che desideri!” B., in quegli anni, aveva scritto a mano su centinaia di quaderni i titoli dei film, ordinati in base al nome del regista, una sorta di archivio personale e di promemoria. “Domani si comincia con Chinatown. Ci sarò anche io, ma normalmente avrai tutta la sala per te, perché ho male agli occhi, e già faccio fatica a leggere i miei volumi di filosofia antica. Guariscono le gambe, ma perdo la vista mio caro!” Dalla cabina uscì Mike. Indossava una lunga camicia bianca. “Ehi Mike! Mike!” B. corse su per abbracciarlo e lui ricambiò con gioia. “Cavolo, sei sempre uguale!” “Scusi Signor, io non sono Mike, ma suo fratello minore. Mi chiamo Sam. Mike è partito, lavora in un cinema fuori dall'Italia, io sono Sam!” Gli rispose un po' dispiaciuto. Il suo alito puzzava di vodka. “Ah...ah... Mi devi dieci mila lire Johnny, lo sapevo che ci sarebbe cascato!” La Signorina T. e Johnny se ne andarono. Sam gli spiegò con il suo italiano confuso, ogni dettaglio. La camera di B., collocata subito fuori la sala, era molto spaziosa ed essenziale: un letto ad una piazza con sopra libri sul cinema, a centinaia, più tutti i suoi quaderni, compresi quelli sui quali aveva fantasticato, da sistemare in uno scaffale vuoto. L'armadio era grande e conteneva qualche comodo ricambio per il quotidiano, tutto il necessario per vivere in una casa dalla quale ovviamente non poteva più uscire. L'elemento più affascinante di questo luogo era la vetrata, che sostituiva interamente una parete. Sei metri di vetro in altezza e quindici in lunghezza, senza balcone fuori. “Es doppio vetro! E poi tu vedi fuori loro, pero loro no vedono te!”: un vetro a specchio. Il paesaggio da lassù era bellissimo, anche se a circa trenta metri erano presenti palazzi di otto piani, tre per l'esattezza (uno praticamente frontale). E sembravano già abitati. In mezzo a questi riusciva a scorgere le colline che al mattino trattenevano il primo sole, e guardando più su, in quel momento, c'era un incantevole cielo stellato. La vetrata si poteva aprire solo nella parte superiore, una striscia orizzontale, giusto per un poco di ricambio d'aria. Aveva a disposizione anche un bagno tutto verniciato di azzurro. In fondo allo stretto corridoio c'era la porta dell'ascensore. B. rientrò nel cinema, pensieroso, seguito come un'ombra da Sam. Era ormai chiaro che avevano cancellato le scale interne e l'ascensore del palazzo, “perché è un piano unico, separato dal resto della casa, senza via d'uscita, se non attraverso quell'ascensore!” “Come dici signor?” “Cazzo! Se qui scoppia un incendio, come facciamo? Aspettiamo l'ascensore?” Non c'era altra via d'uscita. “Signor, il cinema è bello, non trovi?” “E' stupendo!” “E io grazie a Dio, vivo al sesto piano!” La battuta era buona, ma pensando che anche lui avrebbe trascorso parecchie ore li dentro, le possibilità di diventare carne allo spiedo erano molte pure per il povero e spiritoso Sam. B. pensò fin da subito di stabilire degli orari fissi di proiezione. “Puoi vedere film quando vuoi nel giorno e nella notte” disse Sam. Invece no, non avrebbero mai proiettato il mattino, ma solo il pomeriggio e la sera.: il suo proiezionista doveva essere lucido, ben sveglio (e possibilmente sobrio). Fare delle domande, aveva imparato negli anni vissuti li dentro, era del tutto inutile, poiché niente aveva senso: chi fossero tutti i suoi inquilini, la Signorina T. e le sue bizzarre conoscenze, compresi architetti fuorilegge, Johnny, pragmatico e di poche parole, che amava il golf violento, Mike e Sam i proiezionisti, gli altri personaggi della casa, gli invitati alle feste che duravano dal venerdì alla domenica pomeriggio di ogni settimana (qualche volta anche durante la settimana, oltre al periodo delle festività), con un repertorio musicale esclusivamente statunitense, che si fermava ai primissimi anni Sessanta. (E se fossero tutti delle comparse ben pagate dalla Signorina? Aveva questo dubbio B., ma in fin dei conti non avrebbero modificato la sostanza: il divertimento era vero, autentico, la gente ballava, fumava, si ubriacava, vomitava, litigava, finiva a letto per davvero e la Signorina T. era la prima a fare tutte queste cose insieme. Solo Johnny rimaneva freddo, perché lui era una guardia del corpo e contemporaneamente l'organizzatore, un direttore di produzione, doveva controllare che tutto filasse liscio. Non poteva mischiarsi nel delirio, ci voleva distacco, e questo certo non gli mancava.) E così gli anni trascorrevano fuori dalla casa, ma non dentro, in cui il tempo si era fermato, o meglio era assente la burocrazia che lo ricordava: nella dimora di B. non c'erano orologi, calendari e sveglie. Lo stesso ai piani inferiori. (Forse solo Johnny aveva un orologio da polso, l'agenda e sapeva distinguere un venerdì da un martedì.) B. non guardava mai più di quattro pellicole al giorno. Il mattino faceva ginnastica, correva su e giù per la sala. Tra un film e l'altro leggeva e rileggeva libri sul cinema, mai altro. Ed era felice così. Non gli mancava niente: per lui scoprire un nuovo film, un genio registico o un attore o un'attrice di talento o un direttore della fotografia era un'emozione sconfinata. Sulla morte di un noto personaggio del cinema poteva venirne a conoscenza solo dopo molto tempo, quando gli arrivava un libro biografico, anche perché B. non aveva radio o TV, e aveva deciso di non leggere più recensioni di quotidiani o riviste, in inglese, in italiano o in francese. Aveva un interesse quasi esclusivo per le biografie e le autobiografie: i saggi di estetica cinematografica non gli dicevano più niente, faticava a capirli, lo annoiavano. Ogni mese gli portavano una lista dei film usciti nelle vere sale. Mangiava da solo, così si era abituato, al tavolino della sua stanza. Ci pensava Sam a portare le delizie che venivano dalla cucina. Era raro che scendesse sotto, ed era ancora più raro che la Signorina T. salisse per guardare un film. Un pomeriggio d'inverno videro insieme Eraserhead ed Elephant man di David Lynch, ma lei rimase disgustata. Preferiva il cinema classico americano dagli anni Trenta ai Cinquanta, e qualche volta, con dolore, qualche film francese, anche muto. Rimase spiazzata dall'interpretazione di Marlon Brando nel film L'ultimo tango a Parigi, mentre non capì la grandezza di Missouri di Arthur Penn e L'inqulino del terzo piano di Roman Polanski. Il piccoletto veniva su solo per Kubrick, mentre Sam amava tutti i film che B. sceglieva, anche se andava pazzo per le pellicole d'avventura e tifava per i comici americani e i comici italiani, soprattutto quelli più grossolani. Ma non era un proiezionista abile come il fratello maggiore; anche se Sam doveva confrontarsi con mezzi più professionali, era comunque impreciso, sbadato, perennemente ubriaco e inoltre aveva scarsa memoria. Ed era anche miope. “Fuori fuoco Sam!” gli urlava qualche volta con gentilezza il nostro B. Durante il pomeriggio del cinque giugno del 1983, il piccoletto annunciò a B. che ci sarebbe stata una festa speciale, con musica swing e il suo 'Re' presente, Benny Goodman, il suo clarinetto e una piccola orchestra improvvisata al seguito. B., incredulo, e questa volta molto scettico nei confronti della notizia, quella sera avrebbe dovuto impersonare, per l'ennesima volta, il ruolo di Napoleone. (Era quello che lo faceva scopare di più. Inoltre entrambi non erano delle pertiche e con gli anni B. aveva studiato abbastanza il suo carattere, grazie soprattutto al film muto di Abel Gance.) Una giovane costumista di Napoli gli aveva preparato molti anni prima un abito con cappello di feltro a due punte abbassato sulla fronte e sulla nuca, giacca nera a coda di rondine tagliata sui fianchi, stivali di pelle a metà polpaccio e calzoni bianchi aderenti. B. teneva spesso la mano sinistra infilata nel panciotto. La donna veniva ogni volta per vestirlo e truccarlo. La notte tra il cinque e il sei giugno fu una notte indimenticabile: 'Napoleone' non aveva mai visto tante persone insieme dentro quel palazzo. Già ad inizio serata uomini e donne bevevano bottiglie di vino coricati sul prato, al chiaro di luna di una lampada bianca, quasi pronti per le fatiche dell'amore. Come sempre nessuno degli ospiti poteva spingersi oltre il quarto-quinto piano: il terzo era ancora semi-deserto e la grande confusione veniva dalla sala da ballo dove B., appoggiato al bancone, beveva cognac, recitava la sua parte, parlando in lingua italiana, ma con accento corso (così almeno credeva, grazie a qualche lezione privata), ascoltava quella musica sublime, avendo la certezza che quel clarinetto non poteva essere suonato dal vero Benny Goodman, ma da una sua talentuosa controfigura. “Tanto è tutto finto qui dentro!” pensò sorridendo. Però la gente era talmente accalcata verso il piccolo palcoscenico, che non riuscì mai a confutare questa sua teoria. D'improvviso, nel pieno del delirio, apparve Sam, completamente ubriaco. “Signor B. vieni, ho una cosa!” disse lui agitato. “Ma che ci fai qui, se ti trova il piccoletto sono guai!” Infatti i membri del clan del palazzo non potevano partecipare alle feste, poiché lavoravano al bar, in cucina, o come guardie dell'ordine. Inoltre nessun invitato poteva usare l'ascensore interno; c'erano una decina di buttafuori (più o meno gli stessi da anni), che giravano per la casa. Tre di loro sostavano davanti alla porta dell'ascensore del primo-secondo piano, del terzo e del quarto-quinto piano. “Tranquillo, io sono a controllare esto piano e sopra ci aspetta una bella sorpresa!” I due erano diventati amici, stravolgendo in parte la regola secondo cui non bisognava mai parlare di sé, delle proprie origini, dei propri sogni. B. più che altro lo ascoltava, perché su di sé non raccontò nulla, tranne del fatto che stava bene e che voleva vivere per sempre in quel cinema. Discutevano sulle pellicole, a volte litigavano pure. Lui era argentino, di Buenos Aires, e un giorno avrebbe voluto tornare dalla sua famiglia, che sentiva solo per telefono. “Magari apriamo un piccolo cinema io, mio fratello Mike e te, nelle zone più povere!” gli diceva spesso Sam. Presero l'ascensore, poi lasciarono aperta la porta per bloccarlo; giunsero nella sala dove ad attenderli, sedute sulle poltroncine, c'erano due bellissime ragazza nere, molto alte, bionde, in minigonna, ubriache, che parlavano discretamente l'italiano. “Sono due modelle che lavorano a Milano, pero sono di New York! Capisci?” “Ciao ragazze, qui non si fuma!” “Ehi, tranquillo Napoleone!” disse una, facendo ridere l'altra. B. si sentiva a casa sua, lì non aveva mai portato nessuna, era proibito, anche se qualche volta gli sarebbe piaciuto; e la sua recita in maschera non serviva più, così si tolse il cappello. “Smettila amigo! Fumiamoci una bella canna di erba, poi le signorine vogliono divertirsi sai? Facciamo vedere un pezzo di un film bello divertente!” Il film era Blues Brother. Sam aveva alcune bottiglie di birra nascoste nella sua cabina e le offrì. Dopo dieci minuti salì subito a fermare il proiettore, poiché B. stava già scopando, mentre l'altra aspettava Sam a gambe all'aria. Andarono avanti per tutta la notte, in quella sala, fecero sesso, scambiandosi le ragazze, su tutte le poltroncine, per terra, sotto lo schermo bianco. Poi, verso il mattino, andarono nella stanza di B. per assistere all'aurora attraverso la grande vetrata, ma le due ragazze si addormentarono subito nel letto, abbracciate, Sam vaneggiava, emetteva solo più suoni, B. un po' più lucido (aveva bevuto solo qualche cognac, una birra e non aveva fumato) vide nel palazzo di fronte, dalla finestra di un appartamento dell'ottavo piano, un qualcosa di strano che usciva, forse uno sciame d'api, non si capiva bene. “Guarda Sam” Lo tirò su. “Cosa?” E cadde in terra. B. non aveva un binocolo. La serranda di quella finestra senza balcone era alzata solo a metà, e da lì continuavano a venire fuori, liberandosi verso l'alto, oltre il tetto, ogni pochi secondi, come un respiro dalla bocca di una persona che russava, un qualcosa simile a migliaia di insetti, api o piccolissimi uccelli. Sam si era già addormentato. Anche B. aveva sonno e così lo seguì. Il pomeriggio seguente i quattro si svegliarono più o meno nello stesso momento. Le due donne andarono in bagno, poi Sam, scuro in volto, abbracciò forte B., prima di liberare la porta dell'ascensore tenuta aperta per ore grazie ad uno spesso libro biografico su Alfred Hitchcock. I tre scesero giù, mentre lui tornò in camera e chiuse le tende. Si buttò nel letto. Era ancora vestito da Napoleone, a parte il cappello di feltro con le due punte. Grattandosi il petto, trovò una piccola foglia verde. Poi si riaddormentò subito. “Svegliati! Svegliati!” senza urlare, il piccoletto, lo strattonava forte. “Che c'è?” disse B., ancora assonnato. “Lei ti vuole giù, al primo piano, immediatamente!” “Lei chi?” “Ida Lupino!” Scesero al primo piano, quello dove c'era il piccolo parco di plastica. La Signorina T. lo attendeva sdraiata a testa in su, sotto un salice piangente. In quel posto la luce simulava un tramonto, ma era incerto se fuori fosse pomeriggio, mattino, notte o davvero l'ora del tramonto. “Mio caro amico, finalmente insieme, qui! Non vieni mai!” Era vestita con un abito di seta color blu scuro, lungo fino alle caviglie, che le lasciava interamente scoperte le braccia, un po' grassottelle. Lui si coricò a testa in giù, e lo stesso fece al suo fianco Johnny. “Mi dispiace, ma io non la voglio disturbare, questo è il suo posto preferito, immagino!” “Si, ma è aperto a tutti come ben sai. E quanti amori nascono proprio quaggiù e non al terzo piano o nella sala da ballo. Qui la gente viene per baciarsi! Che romantico!” Si alzò un attimo, con fatica, e staccò un ramoscello del salice. Tornò a coricarsi e continuò a parlare: “Tu invece preferisci masturbarti al cinema lo so, però l'altra notte eravate in quattro a farlo, lo so!” D'improvviso Johnny gli saltò sulla schiena, tenendogli ferme entrambe le braccia: “Te le spezzo se ti muovi” La donna tolse le foglie dal ramoscello, che così divenne una frusta sottile. Gli abbassò a fatica quei pantaloni bianchi, sollevò la giacca nera, mise il suo corpo sulle gambe di B. all'altezza delle ginocchia, e una volta scoperto il suo culo, gli diede una forte frustata. “Ahiii, ferma!” “Non sei stato mai preso a cinghiate o a frustate in vita tua? Beh..c'è sempre una prima volta, anche a quarant'anni..!” Gliene diede un'altra ancora più forte. “Avevamo fatto un patto! Nessuno poteva salire in quel piano, nessuno, a parte noi interni!” “Fermi vi prego! Eravamo ubriachi! Alla festa c'era troppa gente e allora io e Sam siamo saliti, anche un po' per respirare!” La donna lo frustò per una ventina di volte di seguito, poi si fermò. “Va bene così, lascialo Johnny! E tu tirati su i pantaloni!” B. aveva male e pianse nell'erba senza odore. “Sappiamo che non è stata una tua idea, anche se il tuo proiezionista ha detto che tu lo hai obbligato e che lui non voleva salire. Io invece credo un'altra cosa, che sia stato proprio Sam a convincerti, lo so, lo sappiamo! Comunque ora è tutto risolto!” “In che senso? Dov'è Sam?” chiese B. “Vi siete persi un grande concerto: Benny è stato caro a venire a suonare per noi!” “E Sam?” “Sam è tornato in Argentina, come sognava da tempo. Beh, ha lasciato qui qualche dente, ma credo che la famiglia lo riconoscerà senza fatica” “E le ragazze?” chiese B. rialzandosi. “Quali ragazze?” disse la donna. Allora intervenne il piccoletto: “Quali ragazze? Non ricordo, di che stiamo parlando?” “Sei perdonato, non è successo niente, puoi tornare al tuo cinema! Domani avrai un nuovo proiezionista, si chiama Mike, te lo ricordi? E' qui per scusarsi per la cattiva condotta del fratellino. Oltretutto è diventato un mago: pensa che in Svizzera è il numero uno! E' un uomo che studia, proprio come te, che si aggiorna, sperimenta e cerca sempre nuove strade per migliorare l'immagine e il suono. Ci farà spendere milioni di lire, ma ne vale la pena!” In un momento B. era tornato di buon umore, pensava solo al cinema, ed era contento così. Poi aggiunse: “Grazie. Però da ora in avanti vorrei evitare di partecipare alle feste, perché non mi sento più...” “Giovane?” lo interruppe la donna. “No, mi piacciono le feste che organizzate, per me sono arte pura! E travestirmi e recitare mi diverte molto, e imparo sempre, però mi fanno perdere troppo tempo ed io vorrei vedere più film ancora.” “E le donne? Come faranno senza di te?” chiese la donna, mentre si accendeva una sigaretta. “A me basta che mi facciate incontrare una donna ogni tanto, così..” “Così..così..come..intendi una puttana, una a pagamento? E con quali soldi? Noi non facciamo queste cose! Johnny, io sono scandalizzata, che dice questo qui? Davanti ad una Signora poi, mi ha forse preso per una matrona di bordello?” “Chiedi scusa! Subito!” disse il piccoletto. “Scusi davvero, io..” disse B. “Ah..ah..testa di cavolo! Scherzo! Ah..ah.. Mi fai ridere, dici sempre qualcosa che mi diverte! Hai un talento comico che nemmeno sai di avere! Comunque ogni tuo desiderio sarà realizzato: chiuditi pure in quel bellissimo cinema, tu che hai la forza di farlo, e non sai quanto ti invidio!” B. se ne andò. In tutto questa assurda conversazione si era accorto di un dettaglio di non poco conto: entrambi avevano la fede al dito. Forse si erano sposati veramente? Con il ritorno di Mike, B. riusciva a vedere fino a cinque pellicole al giorno: l'argentino era un perfezionista, amava il cinema in maniera opposta al fratello: curava ogni dettaglio, non sbagliava mai una proiezione, controllava anche il telone, lo puliva se c'era un poco di polvere, quasi ogni giorno. Una volta aveva interrotto una proiezione, si era accorto che una pizza era leggermente rovinata, e l'immagine rimaneva sgranata da una parte. “Vai pure avanti! Il film si vede benissimo!” gli urlò B., ma lui non ne volle sapere. Anche l'audio era importante. Con gli anni passarono da due a quattro casse. Al nostro sarebbe bastato anche il vecchio cinemino sedici millimetri o addirittura le proiezioni in otto millimetri che faceva autonomamente nella sua camera, durante il periodo in cui visse al sesto piano; anzi gli piaceva proprio quell'imperfezione di certi film proiettati e che ritrovava, un tempo, nei più piccoli cinematografi della città. Tra Mike e B. c'era reciproco rispetto, ma totale distacco. Inoltre B. sapeva che non avrebbe potuto fidarsi né di lui, né di nessun altro dentro quella casa, quindi la storia delle farfalle che vedeva quasi tutti i giorni a partire da quel sei giugno 1983, dalla vetrata della sua stanza, doveva tenersela stretta stretta per sé. Sarebbe stato un rischio parlarne con la Signora, con Johnny o Mike, e con le donne e gli uomini che lavoravano lì: chiedere, domandare “anche tu vedi quello che vedo io?”: lo avrebbero preso per matto, troppi anni chiuso in quel palazzo, troppi film, sessant'anni di età, i primi sintomi della vecchiaia. Anche i suoi compagni di casa non erano proprio dei ragazzini, eppure erano rimasti sempre uguali: la donna, almeno ottantenne, continuava a vivere a pieno le feste, non aveva neanche più la stampella o un bastone, anche se era quasi cieca, preferiva ascoltare la musica, fumava, beveva e trascorreva più tempo al piano-bordello o sui prati del primo, che nel suo appartamento. Johhny andava tutti i giorni a giocare a 'golf' e qualche volta macchiava di sangue le poltroncine del cinema. Oramai voleva vedere solo più Spartacus e nient'altro, almeno due volte al mese. E così B. rimaneva solo dinanzi a un tale inspiegabile spettacolo e al quale poteva assistere non solo dalla vetrata, ma anche da altre finestre e balconi dei vari piani, purché fossero frontali o quasi a quel palazzo di otto piani (doveva comunque mascherarsi, la regola era rimasta, anche se le rughe, la schiena un po' curva, i capelli bianchi ai lati, erano già un buon travestimento, e nessuno del suo passato di quando era poco più che ventenne, sempre se qualcuno era ancora vivo, lo avrebbe più riconosciuto). Erano farfalle quelle che fuoriuscivano da quella finestra dell'ottavo piano e non api, piccoli uccelli, mosche. Farfalle di ogni colore. Forse avevano delle sfumature che però B. non poteva cogliere, perché esse si perdevano quasi sempre verso il cielo, senza mai avvicinarsi al suo palazzo e ai suoi occhi. Potevano liberarsi a migliaia, anche durante il mattino o nel pomeriggio, come la sera o la notte, e in qualsiasi stagione, anche con la neve e il freddo. D'estate, in agosto, improvvisamente sparivano, ma alla fine del mese ritornavano sempre. Quell'appartamento era abitato, le luci si accendevano e si spegnevano, quelle della finestra destra, della stanza che portava ad un piccolo balcone vuoto, e quelle della finestra sinistra. Sul balcone non era mai uscito nessuno in oltre vent'anni. Le serrande venivano alzate ed abbassate regolarmente. Le tende color arancio erano sempre tirate. Le farfalle uscivano solo dalla finestra a sinistra del balcone: venivano sputate fuori, la serranda non era mai abbassata del tutto, neanche durante la notte. Probabilmente veniva lasciata leggermente aperta, anche in pieno inverno, quando c'era il gelo. Ma B. si domandava come fosse possibile che Johnny e (probabile) consorte, lo stesso Mike, che aveva una vista come un'aquila, non si fossero accorti di questo strano evento. E le persone che abitavano in quel palazzo? E gli altri abitanti della zona? E i negozianti? Certo se B. avesse chiesto a qualche festaiolo, gli avrebbe detto subito di sì, che era tutto vero, dandogli poi una pacca sulla spalla. Comunque lui non partecipava più a questi party; ogni tanto Johnny gli organizzava un incontro sessuale con una giovane donna, al piano-bordello, ma lei era sempre bendata. “O tu ti trucchi e ti travesti o noi bendiamo loro, chiaro?” gli disse il piccoletto una sola volta. E da allora fece sempre così. Non poteva più cambiare, non poteva chiedere a nessuno. Voleva vivere ancora a lungo e se avessero sospettato qualunque cosa, lo avrebbero ucciso. Lui doveva farsi gli affari suoi e non occuparsi nè del mondo reale né degli strani giri finanziari del clan: guardare film, questo era il suo compito. E il cinema lo amava sempre, come quando era ragazzino. La macchina non si fermava mai, uscivano di continuo nuovi film da gustare, oltre ai vecchi film che mai si stancava di vedere. Il suo destino era quello di morire (il più tardi possibile) dentro quel cinematografo, come Moliére sul palcoscenico, anche se B. non era un artista, ma solamente uno spettatore passionale e fanatico che aveva una grande paura di vivere la realtà fuori da quel palazzo. Una mattina d'autunno del 2010 la sua vita ebbe decisamente una svolta. Non aveva mai pensato al futuro, se non del giorno dopo, un altro film da vedere, e il giorno precedente si era fatto gli occhi con due pellicole di Kitano Takeshi, poi L'arca russa di Sokurov, La grande guerra di Monicelli, con Sordi, Gassman, la Mangano, Romolo Valli e in più cinque cortometraggi islandesi. Mike gli aveva promesso che avrebbe lavorato ancora due anni, anche se un sostituto era già pronto, uno della sua famiglia argentina, un nipote abbastanza giovane che amava più la pellicola che il digitale e l'alta definizione. Era l'alba quando B. venne svegliato da una farfalla azzurra che quasi gli baciò la bocca. Era entrata dalla fessura in alto della vetrata, lasciata aperta nonostante fuori facesse freddo. Stropicciò gli occhi, mentre la farfalla si allontanò verso altre stanze. Dalla vetrata vide migliaia e migliaia di altre farfalle, tutte di colori e dimensioni diverse. Mai si erano avvicinate al palazzo, perché sempre si disperdevano lontano, verso il cielo, mentre in quel momento era in atto una vera invasione: i palazzi erano circondati da farfalle, la strada sotto, qualcuno passava e nemmeno se ne accorgeva. Ne entrarono altre. B. apprezzava le farfalle, le considerava delle creature meravigliose, ma le conosceva poco, non aveva mai letto manuali o articoli sulla loro natura: certo avrebbe potuto chiederlo ai piani bassi, ma Johnny e Signora si sarebbero insospettiti, poiché lui leggeva solo libri sul cinema. Ora l'intero piano era occupato da farfalle: una rossa con macchie bianche e angolose ali aperte, una con le ali color cioccolata, un'altra gigante rispetto alle altre, con ali blu marino chiaro tranne alcune ampie fasce sulle ali anteriori, la prima delle quali, nera, un'altra arancione. Quest'ultima inseguiva le altre farfalle, strofinando le ali l'una contro le altre. Battagliavano, una completamente verde sembrava una foglia, altre ancora, ognuna diversa dall'altra, danzavano nell'aria, mentre B. rimaneva paralizzato nel suo letto. Solo dopo qualche minuto si alzò e si vestì. La sala cinematografica era piena di farfalle. Cercò di chiamare l'ascensore, ma era occupato: giunse al suo piano una donna, un'assistente della Signora: “Venga giù, al piano di sotto!” gli disse un po' allarmata. “Al piano di sotto?” Era la prima volta che veniva convocato in quel luogo dalla Signora. Finalmente avrebbe visto quel misterioso appartamento? Le farfalle erano ovunque, anche in ascensore. Giunsero al piano, la donna aprì la porta bianca della misteriosa ala di quell'appartamento, e lo lasciò entrare da solo, chiudendo immediatamente la porta. Era dentro. Anche qui non mancavano le farfalle, anche se il buio pesto nascondeva la loro bellezza. “Avanti caro!Avanti!Avanti!” Era la voce squillante della Signora T. Percorse brevemente un corridoio, alle cui pareti erano appesi decine e decine di ritratti di persone e di fotografie in bianco e nero. “Entra pure nella stanza!” Lui entrò, ancora nel buio, le tende erano tirate. Si intravedeva la donna seduta su una poltrona molto alta. L'aria era satura di profumo, di tanti profumi mischiati all'odore di sigaretta. Alla destra della Signora c'era un letto matrimoniale con lenzuola bianche e un grande armadio di legno scuro. In terra c'erano solo tappeti ben distesi. Anche le pareti della stanza erano riempite di immagini di volti umani. Le farfalle lambivano i corpi di entrambi; B. ogni tanto doveva ripararsi gli occhi. “Siedi pure” disse lei. C'era una sedia a dondolo, messa frontalmente alla poltrona. “Ti ho chiamato perché oggi è un grande giorno!” “Mi sembra proprio di si!” rispose lui. “Ho una grande notizia, e volevo dartela io direttamente!” “L'ascolto con immenso piacere!” “Questa sera io e Johnny abbiamo organizzato la più grande festa della nostra storia: questa sera suonerà per noi e pochi altri amici intimi, senti..senti.. non ci crederai mai: Chuck Berry! Hai capito? Chuck Berry!” B. rimase di pietra. Non disse nulla: la casa, il quartiere, forse l'intera città erano invase, in pieno autunno, da farfalle d'ogni forma e colore, le quali provenivano da quella finestra all'ottavo piano del palazzo di fronte al loro. E Chuck Berry? Con tutto rispetto, ma cosa c'entrava lui con quello che stava accadendo, pensò B. “Io non capisco..” disse lui, subito interrotto dalla vecchia donna: “Lo so, anche io pensavo che fosse morto, o gravemente malato, invece stasera suonerà, da solo con la sua chitarra, per me e per pochi intimi. Ovviamente non puoi mancare e questa volta potrai venire senza travestimenti. Nessuno degli ospiti ti riconoscerà e..” “Io non capisco! Pensavo mi avesse fatto chiamare per qualcos'altro, no?” disse lui un po' arrabbiato. “Si, hai ragione. Ti ho chiamato qui anche per un'altra cosa. Credo sia giunto il momento di raccontarti brevemente la storia della mia vita. Ora posso fidarmi, siamo vecchi, forse più tu di me, quindi..” B. si rilassò. Le farfalle svolazzavano ovunque. La donna ne aveva alcune appoggiate sulle gambe. “Mio caro, qui siamo nel mio rifugio, l'appartamento dei ricordi. Tutte le immagini che vedi rappresentano i miei cari dalla metà del Settecento ed io sono l'ultima ed unica discendente di una famiglia molto benestante” Fece una pausa, poi ricominciò: “Sarò molto sintetica, come al solito, perché amo l'essenzialità! Come ti ho già detto una volta, sono nata a Parigi, da una famiglia di imprenditori. Mio nonno paterno, per esempio, era il più intraprendente e il più ricco: produceva profumi e aveva aperto una decina di negozi nella 'Ville Lumiére'. Lui era parigino da diverse generazioni. Il suo unico figlio, mio padre, aveva sposato mia madre, una maestra ligure, poche settimane dopo averla conosciuta per caso per le strade di Genova. Nel 1925 sono nata io e ho vissuto fino al 1937 tra Parigi e una bellissima casa poco lontano, in campagna. A dodici anni ho perso i genitori in uno stupido incidente stradale, così mio nonno mi mandò in Italia, in un collegio di suore sperso tra le colline torinesi. Nel giro di pochi anni, purtroppo, morirono tutti, chi di vecchiaia, chi di malattie incurabili. Io rimasi l'unica erede, e una volta compiuti i ventuno anni di età, ho cominciato a fare soldi, investendo nell'edilizia e sono diventata, come mi pare tu abbia capito, sempre più forte e ricca. Praticamente facevo costruire, affittavo e vendevo singoli appartamenti o interi palazzi”. “E Johnny?” chiese B. “Lui ha undici anni meno di me. L'ho adottato pagando un sacco di soldi, facendo la cosa per vie traverse, durante un viaggio in Giappone, nell'isola di Hokkaido, in un villaggio vicino a Sapporo. Ero con un amichetto di allora di cui non ricordo nemmeno il nome, un siciliano molto simpatico. Siamo nel 1949: Johnny era un orfanello che cercò di derubarci nella villa in cui eravamo ospiti. Lo trovai molto intelligente; mi impietosii per la sua condizione di estrema solitudine e povertà, così lo portai con me in Italia. L'ho fatto studiare privatamente, lingua italiana, francese e inglese, e poi economia e filosofia. Per me era come un fratello minore o un figlio. Verso la fine degli anni Cinquanta ci siamo trasferiti qui. Lui era ed è un genio, con il fiuto per gli affari e ha anche un dono particolare per le cose pratiche, molto più di me, direi. E' un tipo serio, uno che si fa rispettare!” “E la sua malattia? Perché lei stava su una sedia a rotelle?” “Ah.. quella è una storia banale: un amante, durante l'estate del cinquantasei o del cinquantacinque, in un albergo di Nizza, dopo essersi ubriacato, mi ha pestato a sangue, rompendomi le ginocchia e le caviglie con una mazza da baseball, dopo che gli avevo detto che ero poligama! Johnny gli ha sparato in fronte dopo poche ore e poi ha fatto a pezzi il suo corpo. Peccato, era un uomo del Sud, molto molto affascinante e colto! Peccato davvero!” “Ed ora lei e Johnny siete sposati?” “Si! Subito dopo il periodo in cui abbiamo restaurato il palazzo io e lui ci siamo sposati per interessi: nel caso dovessi morire prima io, a lui andrebbe tutto” “Quindi non dormite insieme?” “Ma che cazzo dici, lui è asessuato ed io sono una grande troia, altro che dormire insieme!” La donna si grattò il naso e aggiunse: “Sei contento! Fine della storia, ora sai tutto! Puoi pure tornare al tuo cinematografo! Ci vediamo stasera alle otto per la cena, mentre per il concerto..” Ma B. la interruppe subito: “Ma di cosa sta parlando! Fine della storia? Lei mi ha riassunto in poche frasi la sua vita, sempre se mi ha raccontato il vero, ma non ha accennato alla storia delle farfalle!” “Quale storia delle farfalle?” “Quali farfalle? Ma non si vede attorno? La casa è invasa, e anche fuori, la città intera. Ha guardato fuori?” “E a te cosa te ne frega di ciò che sta fuori? Cos'è questa novità! E poi io ci vedo pochissimo.” B. si alzò in piedi di scatto: “Ma la casa è piena di farfalle! Ed io so da dove provengono! Sono anni che vedevo uscire qualcosa da quella finestra..” “Siedi, vecchia ciabatta!” urlo lei. “No, non mi siedo brutta stronza! Anche se sei cieca, non puoi non sentirle! Questa stanza è piena di farfalle!” “Johhny!Johnny!Johnny!” urlò lei. “Io me ne vado!” “Johnny!Johnny!” B. fuggì dalla stanza. Cercò di sfondare la porta d'uscita verso le scale interne: era l'unico modo per uscire. Provò anche con l'altra porta, ma non ci fu niente da fare, erano chiuse bene. Da lontano si sentiva la voce della vecchia Signora strillare: “Fermalo, vuole fuggire! Non sa quello che fa!” B. prese l'ascensore, che fortunatamente era già al piano. Vide il piccoletto con la coda dell'occhio, mezzo barcollante, ostruito dalle farfalle, con una mazza da golf in mano lunga quanto il suo corpo. B. scese giù fino al primo piano. Da lì poteva tentare solo due cose: sfondare le due porte o buttarsi dal balcone. Il piccoletto però stava già entrando da una di esse, così il vecchio B. ruppe il vetro di una finestra e si affacciò pronto a lanciarsi. “Fermati non andare!” gli urlò Johnny. “Ti spiegherò tutto, ti racconterò la storia della ragazza che sputa le farfalle dalla bocca. Però dovrai fare uno sforzo e credermi, perché quello che ti sto per dire è una storia vera e non un'invenzione. D'altronde lo vedi tu stesso in che situazione ci troviamo, le vedi anche tu le farfalle, no?” B. rimase in piedi sulla ringhiera, in equilibrio, dando le spalle al piccoletto, che cominciò il racconto: “All'inizio della primavera del 1983, un amico di un nostro amico, chiamiamolo Mister X, un tipo solitario, sulla quarantina, un po' cupo, era venuto ad una festa delle nostre e ci propose di collaborare ad un affare: dovevamo affittare a lui e ad una ragazza un appartamento purché fosse all'ultimo piano e in una zona nuova della città. Ci disse che avrebbe pagato anche venti volte il prezzo normale. Inoltre ci chiese protezione. La ragazza era molto giovane, aveva la pelle olivastra, gli occhi neri, lo sguardo intenso, il viso nascosto da una maschera. Non parlava mai, era muta. Mister X diceva che l'aveva conosciuta durante un viaggio per affari, in Indonesia, poco fuori Giakarta, in un villaggio poverissimo. Faceva la guaritrice dentro una capanna, molte persone andavano, pagando poco o nulla, appoggiavano la propria bocca sulla mammella della sua tetta destra, e chiudendo gli occhi, potevano vedere per alcuni momenti, le immagini di un luogo bellissimo e misterioso, finché lei dalla bocca non sputava fuori delle bellissime farfalle e tutto finiva. Lui credeva fosse tutto un trucco, comunque provò una volta e vide qualche cosa, gli passò anche un dolore al piede, ma era convinto che si trattasse di semplice autosuggestione. Le farfalle le uscivano dalla bocca, a decine, le sputava tossendo, e dopo soffriva, aveva delle brevissime convulsioni. Secondo Mister X era una recita, un trucco fatto ad arte. Comunque decise di fermarsi ancora un mese, per organizzare il suo rapimento e portarla in Italia, in una casa di sua proprietà, sperduta nella Val Pellice: aveva fiutato un grosso affare. La ragazza era muta, ma aveva con sé un vecchio quaderno scritto a mano, in lingua inglese, che riassumeva il mondo dal quale proveniva. Mister X riuscì a farlo interpretare e autenticare da uno storico londinese: la giovane, senza un nome, aveva diecimila anni ed era una specie di eterna ragazza che proveniva da un mondo perduto con montagne alte fino a seimila metri, valli e spiagge bellissime e spaziose, un'isola situata vicino all'attuale Papua Nuova Guinea, in cui vivevano uomini e donne in perfetta armonia, e con numerose farfalle d'ogni forma e colore, le quali erano considerate divinità, il grado più alto di bellezza. Un brutto giorno però una delle montagne più alte e affascinanti si trasformò in un terribile vulcano, che in poche ore eruttò, e poi scoppiò facendo scomparire l'isola. La ragazza era sulla spiaggia da sola, pronta a fuggire con una piccola barca attraverso l'Oceano, e le farfalle per salvarsi entrarono tutte insieme a centinaia di milioni dentro la sua bocca. Non si sa come, forse grazie alle farfalle intrappolate nel suo corpo, che le diedero la forza necessaria, sopravvisse alla catastrofe, divenendo così una piccola divinità, unica, senza più tempo, eterna fanciulla, che portava dentro di sé il ricordo dell'isola, dei suoi cari, di un mondo che non esisteva più. Viaggiò dall'Australia all'Indonesia, nascosta all'umanità, fino a quando non trovò qualcuno che la proteggesse. Era una ragazza molto bella, e così un giorno un uomo le saltò addosso baciandola per tutto il corpo fino a succhiarle la mammella, quando vide a frammenti quelle immagini lontane, e dalla bocca della ragazza fuoriuscire delle farfalle. Si spaventò, poi decise di aiutarla. Lei rimase per millenni in quel villaggio fuori Giakarta; non aveva bisogno di cibo, di acqua, non invecchiava mai. Chiusa dentro quella capanna, protetta dalla sua gente, e il suo viso stupendo da una maschera, veniva solo sfiorata dalle persone che volevano guarire o stare meglio, anche solo per pochi attimi. La gente aveva ammirazione, ma anche paura e nessuno tentò mai di violarla. Era considerata una divinità terrestre. Qualcuno tentò di scrivere un resoconto su questa storia, forse un esploratore inglese, oltre duecento anni fa, tentò di appuntare la storia della ragazza che sputava farfalle. A me questo fu raccontato da Mister X durante quella festa del 1983: lui era uno speculatore, non gli credevo, comunque io e la Signora gli affittammo l'appartamento ad un prezzo folle. In cambio dovevamo garantirgli la protezione, poiché la zona era nostra. Lui trovava i clienti, gente molto ricca, qualcuno passava anche dalle nostre feste alle quali tu avevi smesso di partecipare. Il tutto doveva rimanere una cosa di nicchia. Un giorno spinti dalla curiosità ci andammo anche io e la Signora. Credevo si trattasse di suggestione, perché conoscevo un po' la storia, comunque vidi qualche cosa di strano, una spiaggia, tante farfalle e forse qualche essere umano che pescava. Dalla bocca della ragazza, che aveva una maschera nera, uscirono due o tre farfalle, una, ricordo era arancione: le sputava, tossendo, quasi le vomitava. Infatti erano bagnate, all'inizio sembravano morte, ma poi, magicamente, dopo pochi attimi, si sollevavano da terra e volavano via dalla finestra. Mister X la portava in Val Pellice nel mese di agosto, lontano da tutto e da tutti, e lì non succedeva nulla. Lui amava fare passeggiate solitarie, lei se ne stava in casa. Pensa che non dormiva mai! Il libro di appunti raccontava poche cose, ma una di queste era di non toglierle mai la maschera e di non violarla, perché il rischio sarebbe stato la fine di tutto. Lei si sarebbe dissolta in milioni di farfalle, mentre l'amatore sarebbe morto all'istante. E così, per ventisette anni, tutto filò liscio: un paio di clienti tra il giorno e la notte, noi gli regalammo la casa, ma pretendemmo una percentuale sulle 'donazioni'. La gente usciva sollevata, nessuno guariva da una grave malattia, però si sentiva un po' meglio, diventava di buon umore. Forse perché vedeva quel mondo felice. Inoltre assistevi ad un altro spettacolo, forse doloroso per lei, ma esteticamente unico e affascinante: le farfalle sputate dalla sua bocca. Pensa che una volta mi fece passare un leggero dolore alla spalla, pazzesco! La Signora credeva fosse tutto una montatura, a partire dal quaderno di appunti. Ci andava ogni tanto, una volta al mese, solo per lo spettacolo, e non per i suoi problemi alla vista o alle gambe. Io avevo provato ad informarmi meglio su quest'uomo, ma non riuscii a saperne molto; anche chi lo presentò a noi, non era proprio un suo amico, ma un amico di un suo amico. Infine l'altra sera venne a trovarci invaso dall'ansia: ci disse che voleva toglierle la maschera, vedere il suo viso e fare l'amore con lei, perché nella sua lunga vita non si era mai innamorato, e aveva fatto sesso solo con le puttane o con donne per le quali non provava niente. Lui sentiva di amare questa misteriosa e silente creatura. Sono certo che questa notte il vecchio abbia esaudito il suo desiderio, ecco perché tutto questo casino! Ora credo anche io che questa storia sia vera!” B. rimase in perfetto equilibrio sulla ringhiera per tutto il tempo, ascoltando con attenzione. Infine disse: “Grazie, per questa bella storia!” Aveva gli occhi chiusi per non essere accecato dalle farfalle. Nel frattempo giunsero al piano anche la Signora T. e Mike, ma lui si buttò giù facendo un volo di qualche metro. Non si fece nulla, era come se le farfalle lo avessero accompagnato in questo suo salto, frenandone del tutto la caduta, e così rimase in piedi. Johnny si affacciò dal balconcino, gli lanciò la mazza da golf, che lentamente finì a terra. Poi gli urlò, proprio lui che mai aveva alzato la voce: “Non andare..non andare!” Per la strada non si vedeva un essere umano. Era in atto una tempesta di farfalle. I negozi era chiusi. Non passavano automobili. Si fermò di fronte al portone di quel palazzo, che poi era identico a quello in cui aveva sempre vissuto. Suonò a caso qualche campanello, ma nessuno rispose. Non vedeva più niente. Fortunatamente la porta d'ingresso non era chiusa, ma appoggiata. Entrò dentro. Il portone, la casa della custode, il tappeto, l'ascensore, le scale che portavano agli appartamenti, tutto era identico all'ultima volta, quando, a venticinque anni, B. aveva deciso di non uscire più dalla dimora della Signora T. L'ascensore era occupato, come sempre. Prese le scale, con l'intento di salire fino alla fine e scoprire la verità. Intanto le farfalle erano completamente sparite. Al primo piano gli zerbini erano quelli di un tempo e anche le targhette dei campanelli, i cognomi. Al quarto piano c'era la porta di casa sua, della sua famiglia. Intanto l'ascensore scendeva con due o tre persone dentro. Era forse tornato indietro di quarant'anni? Salì ancora. Ritrovò le famose porte degli appartamenti della Signorina T., fino all'ultimo piano. Le sue mani erano improvvisamente tornate giovani come quelle di un ventenne. Si toccò il viso, la pelle era liscia, i capelli c'erano, anche se era un po' stempiato. All'ottavo piano, da una parte, la porta del cinemino, dall'altra quella della ragazza che aveva incontrato quel giorno d'autunno del 1969. Suonò, senza pensarci, con il cuore in gola. Dopo una brevissima attesa, aprì la porta proprio lei, la ragazza diciottenne, con in testa quella farfalla come fermaglio per i capelli. Aveva l'aria assonnata, ma gli fece comunque un grande sorriso: “Ciao, ma che ci fai già qui? Non avevamo detto sabato pomeriggio?” B. si mise la mano sulla fronte. Ora aveva capito: era stato tutto un sogno. “Ma che hai?” disse lei un po' preoccupata, poi aggiunse: “Vuoi entrare un attimo? Scusa, sono mezza addormentata!” “No..no..! Vestiti, usciamo a fare due passi ora! Ti va? E' una bella giornata!” “Si!” Non era poi così convinta, ma si vestì lo stesso, in fretta. B. aspettò seduto sui luccicanti gradini. Scesero le scale a piedi, perché l'ascensore non era disponibile. Al secondo piano B. vide l'ascensore salire e gli parve di scorgere, dal vetro rettangolare della porta, Johnny e la Signorina o Signora T., probabilmente seduta sulla sedia a rotelle, (era alta come l'uomo). La donna gli fece l'occhiolino, mentre il piccoletto rimase impassibile. O almeno così parve a B. Uscirono dal palazzo. Era una bella giornata ventosa, un vento caldo nonostante la stagione autunnale. Andarono verso il parco, poco distante, e non tornarono a casa fino a sera. FINE (Racconto presente nel libro LA RAGAZZA CHE SPUTAVA FARFALLE E ALTRE STORIE, ilmiolibro 2011) D.I.

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