domenica 3 giugno 2012

PRIMO TEMPO (racconto edito nel 2011, prime dieci pagine) - ISBN 9788891002037


Quando doveva uscire dal suo appartamento, condiviso con il padre e con la madre, B. guardava sempre dallo spioncino della porta, assicurandosi che sul pianerottolo non ci fosse anima viva. Abitava al quarto piano di un palazzo di otto piani costruito verso la fine degli anni Cinquanta, in un quartiere abbastanza periferico di una grande città. L'ascensore era molto lento, sempre occupato e le scale scivolose: la custode era una grande lavoratrice e ogni mattino, tranne la domenica, lavava con cura maniacale, canticchiando, ogni singolo gradino. Alle dieci in punto la donna giungeva al quarto piano e questo il venticinquenne lo sapeva bene.
Come conosceva a memoria gli orari dell'apertura dell'unica porta dell'appartamento di fronte al suo, in cui abitava una famiglia di origine lucana, composta da un signore sulla sessantina, in pensione, sposato con una donna molto più giovane, dalla quale aveva avuto due terribili gemelle che urlavano anche di notte. Ma il problema erano i due coniugi: ogni volta che B. li incontrava, cominciavano a parlare di cucina, dei piatti che avrebbero preparato a pranzo, a cena, e magari nei giorni a seguire. E si sentivano gli odori.  Spesso il marito, un uomo con gli occhi chiari, la pelle scura e quasi completamente senza denti, lo intratteneva per decine di minuti parlando di pranzi storici che aveva organizzato in quella casa o in giro per l'Italia (l'uomo aveva vissuto un po' in tutte le città dal Sud al Nord, vendendo frutta e verdura al mercato). Lo invitava dentro casa, ma B. rifiutava sempre, e allora il tutto si concludeva con la solita domanda, che poi dal punto di vista del giovane, pareva più una provocazione:
“E allora questi studi come vanno? Tutto bene?”
“Certo... si... tutto bene!”
B. era iscritto a Medicina, un vanto per i suoi genitori, entrambi ragionieri, e forse per l'intero palazzo: ma in verità le cose non andavano affatto. Gli mancavano sei esami, i più difficili, la media dei voti era quasi imbarazzante, e soprattutto, da qualche tempo, aveva perso del tutto la voglia di studiare. Dopo il Liceo Scientifico, che aveva concluso nel 1964, avrebbe voluto intraprendere studi umanistici, perché sognava da sempre di diventare un critico cinematografico o qualcosa di simile. Da almeno sei anni trascorreva un paio di pomeriggi alla settimana nei cinema del centro della città, tutto questo all'insaputa dei suoi genitori. All'inizio ci andava con suo amico, un ex compagno di scuola, che aveva la passione per il disegno; poi rimase solo, da quando l'amico aveva messo incinta una ragazza che avrebbe sposato.
La sera capitava che tornasse a piedi, dopo aver visto un film con Marlon Brando o l'ultimo capolavoro di Bergman. Al padre e alla madre spesso raccontava che era uscito con Marianna, una ragazza con la quale era stato fidanzato senza provare nessuna emozione, per quasi tutti i cinque anni di scuola superiore. I due si sentivano ancora per telefono, ma non era vero che si frequentavano. B. aveva sempre raccontato che la storia con la ragazza andava avanti, seppur con alti e bassi. In realtà la sua era una scusa, una copertura che durava da molto tempo, per poter andare al cinematografo senza che i suoi lo sapessero.
Era un amore segreto, il cinematografo. Nella sua camera da letto, nascondeva tutto, le riviste, i ritagli di articoli, le immagini dei divi, qualche libro di regia e i suoi quaderni in cui scriveva sui film che aveva visto. Amava soprattutto partire da un personaggio e in poche pagine raccontarne l'esistenza al di fuori della pellicola: il prima e il dopo di un protagonista, la vita di un personaggio marginale. Forse era più un fantasticatore che un interprete, uno spettatore particolare, che da un film partiva per crearne uno tutto suo. Probabilmente non sarebbe stato un bravo critico cinematografico. Amava anche leggere le biografie degli attori e delle attrici, dei produttori e dei registi. La sua stanza era composta da una piccola libreria di spessi libri di anatomia e fisiologia, un piccolo tavolo messo contro la parete pulita, senza poster e quadri o altro, un armadio e un letto. Sotto il letto nascondeva, dentro uno scatolone rosso porpora, i suoi sogni, quei libri, quei ritagli, i quaderni.

Una tiepida mattina di fine ottobre dell'anno 1969, la sua vita cambiò per sempre. Qualche giorno prima la segreteria della sua Università lo aveva convocato per un banale chiarimento burocratico. Solitamente B. si alzava intorno alle otto, svegliato più dai rumori del piccolo ascensore che saliva e scendeva in continuazione, la sua stanza era proprio lì, a pochi metri anche dalle scale, che dalla lurida coscienza di cattivo studente mantenuto. Bevve la solita grande tazza di caffè con latte. Andò in bagno, poi si vestì per uscire. Erano le nove, non era abituato ad uscire a quell'ora, anzi, il mattino stava sempre chiuso in casa, seduto alla scrivania a fissare un libro di migliaia di pagine che proprio non gli interessava.
Il rischio di incontrare qualcuno sul pianerottolo, in ascensore o per le scale, oltre alla custode, era molto alto: “Dottore come va?”, “Ci siamo?”, “A quando il grande giorno?”, “Hai poi finito?”, “Senti ho fatto delle analisi, se passi un attimo da casa mia, puoi darmi una tua interpretazione, perché io non ci capisco niente?”. Gli inquilini non erano molti, conosceva soprattutto quelli dal quarto piano in giù, i più pericolosi; gli altri dei piani superiori erano quasi degli sconosciuti. La padrona di casa, una signora condannata a vivere su una sedia a rotelle, stava al sesto o al settimo piano: praticamente il palazzo era suo, ma ne aveva altri, e centinaia di appartamenti che affittava e vendeva (così gli raccontò una volta la nonna di B.).
Guardò come sempre dallo spioncino e trovò strada libera. La porta di fronte era chiusa, l'ascensore non era occupato. Uscì, chiuse la porta adagio, e girò la chiave con la mano destra, mentre con l'altra teneva premuto il bottone per far salire l'ascensore. Dalla parte delle scale proveniva una forte luce. Era una bella giornata, c'era anche un po' di vento; i vetri delle enormi finestre del mezzopiano vibravano. Sotto, forse al secondo piano, la custode lavava uno dei ventiquattro gradini (per piano), mentre canticchiava una canzone napoletana. L'ascensore stava arrivando. B. teneva pronta la chiave per aprire subito la porta, quando sentì un colpo di tosse di un uomo. Non proveniva dalla casa a fianco, la porta frontale al suo appartamento era molto vicina, quasi attaccata, forse poco più di due metri: questo rumore indicava una presenza ben più remota, forse qualcuno attendeva l'ascensore, sotto, al piano terra. B. entrò in ascensore e schiacciò il tasto PT. Si specchiò un attimo e pensò ai suoi capelli color castano chiaro che lentamente lo stavano abbandonando, proprio lui che da ragazzino, a scuola, veniva soprannominato 'Ciuffo', per via di quella pettinatura che voleva imitare alla lontana quella di James Dean.
L'ascensore ci mise come sempre troppo tempo. Dalla chiusura della porta alla fine della discesa ci vollero almeno quaranta secondi e per quattro piani erano troppi, una eternità, eppure questo dava a B. la possibilità di preparare la sua solita risposta: “Vado di fretta, un'altra volta, buongiorno, grazie!” Ma al pianoterra non trovò nessuno e nemmeno al portone dell'ingresso. Tanto meglio, pensò. Poteva essere il vecchio del primo piano, un ex impiegato statale, un altro che non si fermava mai al semplice “buongiorno-buonasera” e andava avanti a parlare di sé e a chiedere, domandare, rompere le scatole al povero B.
Un'ora più tardi ebbe una cattiva notizia: un impiegato della segreteria dell'Università gli disse, a malincuore, che c'era stato un errore, suo o della segreteria, non si capiva bene. Il signore dall'altra parte dello sportello aveva pure il raffreddore e una certa fretta: il sunto della questione era che B. avrebbe dovuto sostenere un esame in più, aggiunto ai sei che gli mancavano.
Tornò dal centro della città verso casa a piedi, come spesso faceva: finirò a trent'anni o forse non finirò mai più, pensò. Il vento aveva aumentato la sua forza, ma non era un vento gelido. Giunto di fronte al portone del suo palazzo, mentre inseriva la sua chiave, udì una voce femminile gridare “Ehi!”, però il ragazzo non si voltò e aprì la porta. Quando si girò per chiuderla, trovò resistenza. Era una ragazza con i capelli neri lisci a caschetto, gli occhi scuri e la pelle olivastra. Portava un cappotto blu scuro, una sciarpa rossa, lo zaino pieno di libri. I pantaloni a zampa di elefante le nascondevano le scarpe. 
“Che fai mi chiudi fuori?” gli fece lei sorridendo.
Abitava al settimo o all'ottavo piano, ma non ricordava il suo nome, ne conosceva la sua famiglia.
“Scusa ero soprappensiero.”
“Succede!”
“Torni da scuola?”
“Si..ma non c'era lezione, si faceva altro, sai in questo periodo..”
B. annuì.
“Fai il liceo?”
“Classico, sono all'ultimo anno.”
Arrivarono davanti all'ascensore, occupato.
B. si massaggiò le tempie. Aveva gli occhi un po' arrossati.
“Ehi ma che hai? Ti vedo giù!”
“Mi deve essere andato qualcosa negli occhi, con questo ventaccio!”
“E anche questo nei capelli” e gli tolse una foglia.
“Grazie!” disse lui.
“Era un regalo di Eolo” disse lei, sorridendo.
La foglia, minuscola, rotonda, era una foglia verde scuro. B. se la mise in tasca. Poi si accorse che la ragazza aveva una farfalla azzurra tra i capelli, o meglio un fermaglio a forma di farfalla, quasi all'altezza dell'orecchio destro. 
“Ma questo ascensore è sempre occupato?” disse il fuoricorso.
La ragazza perse d'improvviso il sorriso.
“Che hai?” chiese lei.
“Niente. E che...” abbassò la voce, e avvicinò la bocca all'orecchio del ragazzo, “...e che, ai piani superiori avvengono cose strane...”.
“Cosa vuoi dire?” disse lui.
“Sia di notte che di giorno, nei tre appartamenti dal sesto all'ottavo piano, si sentono sempre degli strani rumori. E da quella porta escono ed entrano persone un po' particolari...”
“Lei chi sarebbe, la padrona di casa, la Signora T.?”
“Si. Io qualche volta li vedo dallo spioncino, è gente sempre diversa e di ogni età. Qualcuno anche straniero, inglese e francese di sicuro” 
L'ascensore si era finalmente liberato; nello stesso istante i due schiacciarono in tutta fretta con l'indice della mano, il tasto dell'ascensore. All'improvviso si udì il rumore di una chiave girata nel portone dell'ingresso.
Un omino dai lineamenti orientali, con i baffetti, il cappello tipo panama, la camicia hawaiana rossa con sopra una giacca scura, si avvicinò. Intanto l'ascensore era arrivato.
“Buongiorno! Prego!” disse la ragazza.
L'uomo, di età indefinibile, fece un gesto come a dire 'salite prima voi'.
“No..no..prego, salga lei! Noi facciamo ancora due chiacchiere.”
Era praticamente un nano. Teneva una grossa borsa a tracolla. Non disse nulla, entrò dentro e salì, senza salutare.
“Quello è il 'giapponese', praticamente è uno di quelli fissi, che vivono con la Signora. Deve essere un figlio adottivo!”
“Certo che ne sai di cose! Comunque è la prima volta che lo vedo.”
Chiamarono l'ascensore e questa volta salirono.
B. schiacciò il tasto P4.
La farfalla che la ragazza teneva tra i capelli sembrava vera. Ci furono dieci secondi di silenzio. Poi lei gli chiese, guardandolo negli occhi:
“Senti ti va qualche volta di fare due passi al parco qui vicino? Sarebbe bello!”
“Certo, quando?” rispose il ragazzo.
“Facciamo sabato pomeriggio. Basta che suoni, a qualsiasi ora dopo le tre e mi trovi!”
“Va bene, passo sabato dopo le tre. Grazie!”
“Allora ci conto, ciao!”
B. entrò a casa sua, si buttò nel letto e pensò a quella simpatica ragazza, spontanea, piena di vita e anche molto carina, che nemmeno sapeva come si chiamava. Inoltre avrebbe dovuto suonare al settimo o all'ottavo piano?
Poi pensò alle sue cose. I sette esami, il futuro che non c'era. Doveva prendere una decisione entro la serata, quando i genitori sarebbero tornati. Amava troppo il cinema, avrebbe voluto chiudersi in una sala cinematografica e non pensare più alla sua vita. Ma anche se avesse mollato Medicina, cosa avrebbe fatto?
Prese due soldi e uscì con l'intenzione di andare verso il centro storico per fare una lunga passeggiata e magari avrebbe trovato una sala, il film giusto.
L'ascensore era occupato, mentre dalla porta dei vicini qualcuno stava per uscire. B. sentì sbattere una porta anche al terzo piano. Si trattava di una congiura contro di lui? Lì sotto c'erano i peggiori, quelli che ogni volta, da qualche anno, gli chiedevano addirittura il giorno della discussione della tesi di laurea e dove avrebbe fatto la festa. Non avendo scampo, invece di rientrare in casa, (ci avrebbe impiegato troppo tempo con le chiavi), scappò verso l'alto, al piano superiore.
Si buttò a terra sul pianerottolo, ansimando, e rimase coricato con la faccia al soffitto fino a quando non sentì aprire anche una delle due porte del quinto. Salì ancora. L'ascensore segnava sempre rosso. Già non ne poteva più. Lo spavento e quegli scatti improvvisi gli avevano fatto perdere il fiato. B. era un grande camminatore, abituato solo alla pianura. Salì ancora, affannato, per alcuni minuti. Anche se andava piano ed era poco lucido, si accorse che stava continuando a salire, quando in teoria il palazzo sarebbe dovuto finire da un pezzo.
L'ascensore ora era libero. Schiacciò il tasto ma la luce rossa non si accese. Salì ancora. Le porte sembravano tutte uguali, in legno scuro, mentre gli zerbini non c'erano più e nemmeno i vasi con le piante. Guardò i nomi dei campanelli e le targhette erano vuote.
Così decise di scendere: lo fece per alcuni minuti. Provò ad urlare. Bussò a tutte le porte, “Aiuto!”, mentre le grandi finestre con i vetri opachi nei metà-piani proprio non si aprivano. Svenì prima di poter ricavare una propria conclusione filosofica su se stesso, il genere umano, la vita, l'universo..

“E questo coglione dove cazzo lo hai trovato?”
B. aprì gli occhi e vide la faccia del piccoletto, quello che la ragazza chiamava il 'giapponese', ma a parlare non era stato lui.
“L'ho trovato addormentato qui davanti alla porta” sussurrò l'uomo.
“Dove sono?” chiese il ragazzo, che si trovava in un letto, con la testa appoggiata su un cuscino.
“Sei all'inferno caro mio bel ragazzo, all'inferno!”
Finalmente, girandosi da una parte vide una donna sulla sedia a rotelle, vestita in modo elegante, tutta di rosa, piena di collane di perle, braccialetti d'oro e altro; portava anche un paio di occhiali da vista con le lenti enormi leggermente scure. Il 'giapponese' era senza cappello ed era completamente pelato. Ora gli sembrava un giovane uomo, riusciva quasi a dargli un'età approssimativa, trentacinque anni, non di più. La donna ne aveva almeno dieci di più. Era una bella signora, bionda e nella stanza, piccola e poco illuminata per via delle tende chiuse, si sentiva solo il suo forte profumo all'arancio.
“Io la conosco, lei è la Signora T., la padrona di casa e di questo palazzo!”
“Signorina, prego! E poi tu chi sei, l'investigatore Marlowe?”
“Magari... sono solo lo studente di Medicina che abita al quarto piano!”
 “Allora mi dia il libretto universitario, subito!”
“Come?”
“Questa era una battuta. Quarto piano di cosa, di quale palazzo? Io ne ho almeno cinquanta. Che sta dicendo? Cosa vuole, chi cazzo è questo qua, Johnny?”
“Non lo so, deve essere quel ragazzo del quarto piano, di questo palazzo.”
“Pagano sempre l'affitto? Con puntualità?”
“Sempre, sono tra i migliori. Lui deve essere il figlio, uno che vedo passeggiare sempre solo. Non so altro.”
“Beh allora rimettilo in ascensore! Saprà premere un tasto o no?”
B. era confuso, fissava la Signorina.
“Che cazzo hai da guardarmi! Vuoi che ti portiamo giù in braccio?”
Il piccoletto Johnny non sorrise. Sembrava una maschera, sempre impassibile.
“Cosa... cosa...?”, disse B.
“Cosa... cosa... ti sembro Parmenide? Non capisci quello che dico! E' così complesso? Mio Dio, ma questo è proprio rincoglionito! Portalo sopra e fagli fare un caffè da Teresa o Maria, che io devo andare all'ottavo per la mia proiezione!”
Il ragazzo si alzò dal letto.
“Aspetti Signorina! Quale proiezione?”
“Ti spiego tutto subito perché sono una persona che ama la chiarezza e l'essenzialità: questa non è una casa, ma un luogo dove ci si diverte sempre, perché noi amiamo la bellezza. Sai che cos'è la bellezza, ragazzo?”
“Si... per me la bellezza è il cinematografo! Solo quando mi chiudo in una sala buia, solo quando si accende un proiettore che su un telo bianco lo infiamma con le immagini di un film, anche un brutto film, per me è bellezza. Io mi sento libero, io mi sento vero solo in quei momenti. Per me tutto il resto è finzione!”
La donna si accese una sigaretta e fece una breve pausa. Poi disse:
“Benvenuto all'inferno, amico mio! Fai vedere la casa a questo giovane. Per la proiezione del film di Billy Wilder attenderò in sala: trenta minuti massimo! Fai una cosa veloce, per i dettagli ci sarà tempo. Stasera c'è anche la festa!”