Quando
doveva uscire dal suo appartamento, condiviso con il padre e con la madre, B.
guardava sempre dallo spioncino della porta, assicurandosi che sul pianerottolo
non ci fosse anima viva. Abitava al quarto piano di un palazzo di otto piani
costruito verso la fine degli anni Cinquanta, in un quartiere abbastanza
periferico di una grande città. L'ascensore era molto lento, sempre occupato e
le scale scivolose: la custode era una grande lavoratrice e ogni mattino,
tranne la domenica, lavava con cura maniacale, canticchiando, ogni singolo
gradino. Alle dieci in punto la donna giungeva al quarto piano e questo il
venticinquenne lo sapeva bene.
Come
conosceva a memoria gli orari dell'apertura dell'unica porta dell'appartamento
di fronte al suo, in cui abitava una famiglia di origine lucana, composta da un
signore sulla sessantina, in pensione, sposato con una donna molto più giovane,
dalla quale aveva avuto due terribili gemelle che urlavano anche di notte. Ma
il problema erano i due coniugi: ogni volta che B. li incontrava, cominciavano
a parlare di cucina, dei piatti che avrebbero preparato a pranzo, a cena, e
magari nei giorni a seguire. E si sentivano gli odori. Spesso il marito, un uomo con gli occhi
chiari, la pelle scura e quasi completamente senza denti, lo intratteneva per
decine di minuti parlando di pranzi storici che aveva organizzato in quella
casa o in giro per l'Italia (l'uomo aveva vissuto un po' in tutte le città dal
Sud al Nord, vendendo frutta e verdura al mercato). Lo invitava dentro casa, ma
B. rifiutava sempre, e allora il tutto si concludeva con la solita domanda, che
poi dal punto di vista del giovane, pareva più una provocazione:
“E
allora questi studi come vanno? Tutto bene?”
“Certo...
si... tutto bene!”
B. era
iscritto a Medicina, un vanto per i suoi genitori, entrambi ragionieri, e forse
per l'intero palazzo: ma in verità le cose non andavano affatto. Gli mancavano
sei esami, i più difficili, la media dei voti era quasi imbarazzante, e
soprattutto, da qualche tempo, aveva perso del tutto la voglia di studiare.
Dopo il Liceo Scientifico, che aveva concluso nel 1964, avrebbe voluto
intraprendere studi umanistici, perché sognava da sempre di diventare un
critico cinematografico o qualcosa di simile. Da almeno sei anni trascorreva un
paio di pomeriggi alla settimana nei cinema del centro della città, tutto
questo all'insaputa dei suoi genitori. All'inizio ci andava con suo amico, un
ex compagno di scuola, che aveva la passione per il disegno; poi rimase solo,
da quando l'amico aveva messo incinta una ragazza che avrebbe sposato.
La
sera capitava che tornasse a piedi, dopo aver visto un film con Marlon Brando o
l'ultimo capolavoro di Bergman. Al padre e alla madre spesso raccontava che era
uscito con Marianna, una ragazza con la quale era stato fidanzato senza provare
nessuna emozione, per quasi tutti i cinque anni di scuola superiore. I due si
sentivano ancora per telefono, ma non era vero che si frequentavano. B. aveva
sempre raccontato che la storia con la ragazza andava avanti, seppur con alti e
bassi. In realtà la sua era una scusa, una copertura che durava da molto tempo,
per poter andare al cinematografo senza che i suoi lo sapessero.
Era un
amore segreto, il cinematografo. Nella sua camera da letto, nascondeva tutto,
le riviste, i ritagli di articoli, le immagini dei divi, qualche libro di regia
e i suoi quaderni in cui scriveva sui film che aveva visto. Amava soprattutto
partire da un personaggio e in poche pagine raccontarne l'esistenza al di fuori
della pellicola: il prima e il dopo di un protagonista, la vita di un
personaggio marginale. Forse era più un fantasticatore che un interprete, uno spettatore
particolare, che da un film partiva per crearne uno tutto suo. Probabilmente
non sarebbe stato un bravo critico cinematografico. Amava anche leggere le
biografie degli attori e delle attrici, dei produttori e dei registi. La sua
stanza era composta da una piccola libreria di spessi libri di anatomia e
fisiologia, un piccolo tavolo messo contro la parete pulita, senza poster e
quadri o altro, un armadio e un letto. Sotto il letto nascondeva, dentro uno
scatolone rosso porpora, i suoi sogni, quei libri, quei ritagli, i quaderni.
Una
tiepida mattina di fine ottobre dell'anno 1969, la sua vita cambiò per sempre.
Qualche giorno prima la segreteria della sua Università lo aveva convocato per
un banale chiarimento burocratico. Solitamente B. si alzava intorno alle otto,
svegliato più dai rumori del piccolo ascensore che saliva e scendeva in
continuazione, la sua stanza era proprio lì, a pochi metri anche dalle scale,
che dalla lurida coscienza di cattivo studente mantenuto. Bevve la solita
grande tazza di caffè con latte. Andò in bagno, poi si vestì per uscire. Erano
le nove, non era abituato ad uscire a quell'ora, anzi, il mattino stava sempre
chiuso in casa, seduto alla scrivania a fissare un libro di migliaia di pagine
che proprio non gli interessava.
Il
rischio di incontrare qualcuno sul pianerottolo, in ascensore o per le scale,
oltre alla custode, era molto alto: “Dottore come va?”, “Ci siamo?”, “A quando
il grande giorno?”, “Hai poi finito?”, “Senti ho fatto delle analisi, se passi
un attimo da casa mia, puoi darmi una tua interpretazione, perché io non ci
capisco niente?”. Gli inquilini non erano molti, conosceva soprattutto quelli
dal quarto piano in giù, i più pericolosi; gli altri dei piani superiori erano
quasi degli sconosciuti. La padrona di casa, una signora condannata a vivere su
una sedia a rotelle, stava al sesto o al settimo piano: praticamente il palazzo
era suo, ma ne aveva altri, e centinaia di appartamenti che affittava e vendeva
(così gli raccontò una volta la nonna di B.).
Guardò
come sempre dallo spioncino e trovò strada libera. La porta di fronte era
chiusa, l'ascensore non era occupato. Uscì, chiuse la porta adagio, e girò la
chiave con la mano destra, mentre con l'altra teneva premuto il bottone per far
salire l'ascensore. Dalla parte delle scale proveniva una forte luce. Era una
bella giornata, c'era anche un po' di vento; i vetri delle enormi finestre del
mezzopiano vibravano. Sotto, forse al secondo piano, la custode lavava uno dei
ventiquattro gradini (per piano), mentre canticchiava una canzone napoletana.
L'ascensore stava arrivando. B. teneva pronta la chiave per aprire subito la
porta, quando sentì un colpo di tosse di un uomo. Non proveniva dalla casa a
fianco, la porta frontale al suo appartamento era molto vicina, quasi attaccata,
forse poco più di due metri: questo rumore indicava una presenza ben più
remota, forse qualcuno attendeva l'ascensore, sotto, al piano terra. B. entrò
in ascensore e schiacciò il tasto PT. Si specchiò un attimo e pensò ai suoi
capelli color castano chiaro che lentamente lo stavano abbandonando, proprio
lui che da ragazzino, a scuola, veniva soprannominato 'Ciuffo', per via di
quella pettinatura che voleva imitare alla lontana quella di James Dean.
L'ascensore
ci mise come sempre troppo tempo. Dalla chiusura della porta alla fine della
discesa ci vollero almeno quaranta secondi e per quattro piani erano troppi,
una eternità, eppure questo dava a B. la possibilità di preparare la sua solita
risposta: “Vado di fretta, un'altra volta, buongiorno, grazie!” Ma al
pianoterra non trovò nessuno e nemmeno al portone dell'ingresso. Tanto meglio,
pensò. Poteva essere il vecchio del primo piano, un ex impiegato statale, un
altro che non si fermava mai al semplice “buongiorno-buonasera” e andava avanti
a parlare di sé e a chiedere, domandare, rompere le scatole al povero B.
Un'ora
più tardi ebbe una cattiva notizia: un impiegato della segreteria
dell'Università gli disse, a malincuore, che c'era stato un errore, suo o della
segreteria, non si capiva bene. Il signore dall'altra parte dello sportello
aveva pure il raffreddore e una certa fretta: il sunto della questione era che
B. avrebbe dovuto sostenere un esame in più, aggiunto ai sei che gli mancavano.
Tornò
dal centro della città verso casa a piedi, come spesso faceva: finirò a
trent'anni o forse non finirò mai più, pensò. Il vento aveva aumentato la sua
forza, ma non era un vento gelido. Giunto di fronte al portone del suo palazzo,
mentre inseriva la sua chiave, udì una voce femminile gridare “Ehi!”, però il ragazzo
non si voltò e aprì la porta. Quando si girò per chiuderla, trovò resistenza.
Era una ragazza con i capelli neri lisci a caschetto, gli occhi scuri e la
pelle olivastra. Portava un cappotto blu scuro, una sciarpa rossa, lo zaino
pieno di libri. I pantaloni a zampa di elefante le nascondevano le scarpe.
“Che
fai mi chiudi fuori?” gli fece lei sorridendo.
Abitava
al settimo o all'ottavo piano, ma non ricordava il suo nome, ne conosceva la
sua famiglia.
“Scusa
ero soprappensiero.”
“Succede!”
“Torni
da scuola?”
“Si..ma
non c'era lezione, si faceva altro, sai in questo periodo..”
B.
annuì.
“Fai
il liceo?”
“Classico,
sono all'ultimo anno.”
Arrivarono
davanti all'ascensore, occupato.
B. si
massaggiò le tempie. Aveva gli occhi un po' arrossati.
“Ehi
ma che hai? Ti vedo giù!”
“Mi
deve essere andato qualcosa negli occhi, con questo ventaccio!”
“E
anche questo nei capelli” e gli tolse una foglia.
“Grazie!”
disse lui.
“Era
un regalo di Eolo” disse lei, sorridendo.
La
foglia, minuscola, rotonda, era una foglia verde scuro. B. se la mise in tasca.
Poi si accorse che la ragazza aveva una farfalla azzurra tra i capelli, o
meglio un fermaglio a forma di farfalla, quasi all'altezza dell'orecchio
destro.
“Ma
questo ascensore è sempre occupato?” disse il fuoricorso.
La
ragazza perse d'improvviso il sorriso.
“Che
hai?” chiese lei.
“Niente.
E che...” abbassò la voce, e avvicinò la bocca all'orecchio del ragazzo, “...e
che, ai piani superiori avvengono cose strane...”.
“Cosa
vuoi dire?” disse lui.
“Sia
di notte che di giorno, nei tre appartamenti dal sesto all'ottavo piano, si
sentono sempre degli strani rumori. E da quella porta escono ed entrano persone
un po' particolari...”
“Lei
chi sarebbe, la padrona di casa, la Signora T.?”
“Si.
Io qualche volta li vedo dallo spioncino, è gente sempre diversa e di ogni età.
Qualcuno anche straniero, inglese e francese di sicuro”
L'ascensore
si era finalmente liberato; nello stesso istante i due schiacciarono in tutta
fretta con l'indice della mano, il tasto dell'ascensore. All'improvviso si udì
il rumore di una chiave girata nel portone dell'ingresso.
Un
omino dai lineamenti orientali, con i baffetti, il cappello tipo panama, la
camicia hawaiana rossa con sopra una giacca scura, si avvicinò. Intanto
l'ascensore era arrivato.
“Buongiorno!
Prego!” disse la ragazza.
L'uomo,
di età indefinibile, fece un gesto come a dire 'salite prima voi'.
“No..no..prego,
salga lei! Noi facciamo ancora due chiacchiere.”
Era
praticamente un nano. Teneva una grossa borsa a tracolla. Non disse nulla, entrò
dentro e salì, senza salutare.
“Quello
è il 'giapponese', praticamente è uno di quelli fissi, che vivono con la
Signora. Deve essere un figlio adottivo!”
“Certo
che ne sai di cose! Comunque è la prima volta che lo vedo.”
Chiamarono
l'ascensore e questa volta salirono.
B.
schiacciò il tasto P4.
La
farfalla che la ragazza teneva tra i capelli sembrava vera. Ci furono dieci
secondi di silenzio. Poi lei gli chiese, guardandolo negli occhi:
“Senti
ti va qualche volta di fare due passi al parco qui vicino? Sarebbe bello!”
“Certo,
quando?” rispose il ragazzo.
“Facciamo
sabato pomeriggio. Basta che suoni, a qualsiasi ora dopo le tre e mi trovi!”
“Va
bene, passo sabato dopo le tre. Grazie!”
“Allora
ci conto, ciao!”
B.
entrò a casa sua, si buttò nel letto e pensò a quella simpatica ragazza,
spontanea, piena di vita e anche molto carina, che nemmeno sapeva come si
chiamava. Inoltre avrebbe dovuto suonare al settimo o all'ottavo piano?
Poi
pensò alle sue cose. I sette esami, il futuro che non c'era. Doveva prendere
una decisione entro la serata, quando i genitori sarebbero tornati. Amava
troppo il cinema, avrebbe voluto chiudersi in una sala cinematografica e non
pensare più alla sua vita. Ma anche se avesse mollato Medicina, cosa avrebbe
fatto?
Prese
due soldi e uscì con l'intenzione di andare verso il centro storico per fare
una lunga passeggiata e magari avrebbe trovato una sala, il film giusto.
L'ascensore
era occupato, mentre dalla porta dei vicini qualcuno stava per uscire. B. sentì
sbattere una porta anche al terzo piano. Si trattava di una congiura contro di
lui? Lì sotto c'erano i peggiori, quelli che ogni volta, da qualche anno, gli
chiedevano addirittura il giorno della discussione della tesi di laurea e dove
avrebbe fatto la festa. Non avendo scampo, invece di rientrare in casa, (ci
avrebbe impiegato troppo tempo con le chiavi), scappò verso l'alto, al piano
superiore.
Si
buttò a terra sul pianerottolo, ansimando, e rimase coricato con la faccia al
soffitto fino a quando non sentì aprire anche una delle due porte del quinto.
Salì ancora. L'ascensore segnava sempre rosso. Già non ne poteva più. Lo
spavento e quegli scatti improvvisi gli avevano fatto perdere il fiato. B. era
un grande camminatore, abituato solo alla pianura. Salì ancora, affannato, per alcuni
minuti. Anche se andava piano ed era poco lucido, si accorse che stava
continuando a salire, quando in teoria il palazzo sarebbe dovuto finire da un
pezzo.
L'ascensore
ora era libero. Schiacciò il tasto ma la luce rossa non si accese. Salì ancora.
Le porte sembravano tutte uguali, in legno scuro, mentre gli zerbini non
c'erano più e nemmeno i vasi con le piante. Guardò i nomi dei campanelli e le
targhette erano vuote.
Così
decise di scendere: lo fece per alcuni minuti. Provò ad urlare. Bussò a tutte le
porte, “Aiuto!”, mentre le grandi finestre con i vetri opachi nei metà-piani
proprio non si aprivano. Svenì prima di poter ricavare una propria conclusione
filosofica su se stesso, il genere umano, la vita, l'universo..
“E questo coglione dove cazzo lo hai trovato?”
B. aprì gli occhi e vide la faccia del piccoletto, quello
che la ragazza chiamava il 'giapponese', ma a parlare non era stato lui.
“L'ho trovato addormentato qui davanti alla porta” sussurrò
l'uomo.
“Dove sono?” chiese il ragazzo, che si trovava in un letto,
con la testa appoggiata su un cuscino.
“Sei all'inferno caro mio bel ragazzo, all'inferno!”
Finalmente, girandosi da una parte vide una donna sulla
sedia a rotelle, vestita in modo elegante, tutta di rosa, piena di collane di
perle, braccialetti d'oro e altro; portava anche un paio di occhiali da vista
con le lenti enormi leggermente scure. Il 'giapponese' era senza cappello ed
era completamente pelato. Ora gli sembrava un giovane uomo, riusciva quasi a
dargli un'età approssimativa, trentacinque anni, non di più. La donna ne aveva
almeno dieci di più. Era una bella signora, bionda e nella stanza, piccola e
poco illuminata per via delle tende chiuse, si sentiva solo il suo forte
profumo all'arancio.
“Io la conosco, lei è la Signora T., la padrona di casa e di
questo palazzo!”
“Signorina, prego! E poi tu chi sei, l'investigatore
Marlowe?”
“Magari... sono solo lo studente di Medicina che abita al
quarto piano!”
“Allora mi dia il
libretto universitario, subito!”
“Come?”
“Questa era una battuta. Quarto piano di cosa, di quale
palazzo? Io ne ho almeno cinquanta. Che sta dicendo? Cosa vuole, chi cazzo è
questo qua, Johnny?”
“Non lo so, deve essere quel ragazzo del quarto piano, di
questo palazzo.”
“Pagano sempre l'affitto? Con puntualità?”
“Sempre, sono tra i migliori. Lui deve essere il figlio, uno
che vedo passeggiare sempre solo. Non so altro.”
“Beh allora rimettilo in ascensore! Saprà premere un tasto o
no?”
B. era confuso, fissava la Signorina.
“Che cazzo hai da guardarmi! Vuoi che ti portiamo giù in
braccio?”
Il piccoletto Johnny non sorrise. Sembrava una maschera,
sempre impassibile.
“Cosa... cosa...?”, disse B.
“Cosa... cosa... ti sembro Parmenide? Non capisci quello che
dico! E' così complesso? Mio Dio, ma questo è proprio rincoglionito! Portalo
sopra e fagli fare un caffè da Teresa o Maria, che io devo andare all'ottavo
per la mia proiezione!”
Il ragazzo si alzò dal letto.
“Aspetti Signorina! Quale proiezione?”
“Ti spiego tutto subito perché sono una persona che ama la
chiarezza e l'essenzialità: questa non è una casa, ma un luogo dove ci si
diverte sempre, perché noi amiamo la bellezza. Sai che cos'è la bellezza,
ragazzo?”
“Si... per me la bellezza è il cinematografo! Solo quando mi
chiudo in una sala buia, solo quando si accende un proiettore che su un telo
bianco lo infiamma con le immagini di un film, anche un brutto film, per me è
bellezza. Io mi sento libero, io mi sento vero solo in quei momenti. Per me
tutto il resto è finzione!”
La donna si accese una sigaretta e fece una breve pausa. Poi
disse:
“Benvenuto all'inferno, amico mio! Fai vedere la casa a
questo giovane. Per la proiezione del film di Billy Wilder attenderò in sala:
trenta minuti massimo! Fai una cosa veloce, per i dettagli ci sarà tempo.
Stasera c'è anche la festa!”