Quando
doveva uscire dal suo appartamento, condiviso con il padre e con la
madre, B. guardava sempre dallo spioncino della porta, assicurandosi
che sul pianerottolo non ci fosse anima viva. Abitava al quarto piano
di un palazzo di otto piani costruito verso la fine degli anni
Cinquanta, in un quartiere abbastanza periferico di una grande città.
L'ascensore era molto lento, sempre occupato e le scale scivolose: la
custode era una grande lavoratrice e ogni mattino, tranne la
domenica, lavava con cura maniacale, canticchiando, ogni singolo
gradino. Alle dieci in punto la donna giungeva al quarto piano e
questo il venticinquenne lo sapeva bene.
B.
conosceva a memoria anche gli orari dell'apertura dell'unica porta
dell'appartamento di fronte al suo, in cui abitava una famiglia di
origine lucana, composta da un signore sulla sessantina, in pensione,
sposato con una donna molto più giovane, dalla quale aveva avuto due
terribili gemelle che urlavano anche di notte. Ma il problema erano i
due coniugi: ogni volta che B. li incontrava, cominciavano a parlare
di cucina, dei piatti che avrebbero preparato a pranzo, a cena, e
magari nei giorni a seguire. E si sentivano gli odori. Spesso il
marito, un uomo con gli occhi chiari, la pelle scura e quasi
completamente senza denti, lo intratteneva per decine di minuti
parlando di pranzi storici che aveva organizzato in quella casa o in
giro per l'Italia (l'uomo aveva vissuto un po' in tutte le città dal
Sud al Nord, vendendo frutta e verdura al mercato). Lo invitava
dentro casa, ma B. rifiutava sempre, e allora il tutto si concludeva
con la solita domanda, che poi dal punto di vista del giovane, pareva
più una provocazione:
“E
allora questi studi come vanno? Tutto bene?”
“Certo...
sì... tutto bene!”
B.
era iscritto a Medicina, un vanto per i suoi genitori, entrambi
ragionieri, e forse per l'intero palazzo: ma in verità le cose non
andavano affatto. Gli mancavano sei esami, i più difficili, la media
dei voti era quasi imbarazzante, e soprattutto, da qualche tempo,
aveva perso del tutto la voglia di studiare. Dopo il Liceo
Scientifico, che aveva concluso nel 1964, avrebbe voluto
intraprendere studi umanistici, perché sognava da sempre di
diventare un critico cinematografico o qualcosa di simile. Da almeno
sei anni trascorreva un paio di pomeriggi alla settimana nei cinema
del centro della città, tutto questo all'insaputa dei suoi genitori.
All'inizio ci andava con suo amico, un ex compagno di scuola, che
aveva la passione per il disegno; poi rimase solo, da quando l'amico
aveva messo incinta una ragazza che avrebbe sposato.
La
sera capitava che tornasse a piedi, dopo aver visto un film con
Marlon Brando o l'ultimo capolavoro di Bergman. Al padre e alla madre
spesso raccontava che era uscito con Marianna, una ragazza con la
quale era stato fidanzato, senza provare nessuna emozione, per quasi
tutti i cinque anni di scuola superiore. I due si sentivano ancora
per telefono, ma non era vero che si frequentavano. B. aveva sempre
raccontato che la storia con la ragazza andava avanti, seppur con
alti e bassi. In realtà la sua era una scusa, una copertura che
durava da molto tempo, per poter andare al cinematografo senza che i
suoi lo sapessero.
Era
un amore segreto, il cinematografo. Nella sua camera da letto,
nascondeva tutto, le riviste, i ritagli di articoli, le immagini dei
divi, qualche libro di regia e i suoi quaderni in cui scriveva sui
film che aveva visto. Amava soprattutto partire da un attore o
attrice, e in poche pagine raccontarne l'esistenza al di fuori della
pellicola: il prima e il dopo di un protagonista, la vita di un
personaggio marginale. Forse era più un fantasticatore che un
interprete, uno spettatore particolare, che da un film partiva per
crearne uno tutto suo. Probabilmente non sarebbe stato un bravo
critico cinematografico. Amava anche leggere le biografie dei divi,
dei produttori e dei registi. La sua stanza era composta da una
piccola libreria di spessi libri di anatomia e fisiologia, un piccolo
tavolo messo contro la parete pulita, senza poster e quadri o altro,
un armadio e un letto. Sotto il letto nascondeva, dentro uno
scatolone rosso porpora, i suoi sogni, quei libri, quei ritagli, i
quaderni.
Una
tiepida mattina di fine ottobre dell'anno 1969, la sua vita cambiò
per sempre. Qualche giorno prima la segreteria della sua Università
lo aveva convocato per un banale chiarimento burocratico. Solitamente
si alzava intorno alle otto, svegliato dai rumori del piccolo
ascensore che saliva e scendeva in continuazione - la sua stanza era
proprio lì, a pochi metri anche dalle scale – o forse dalla lurida
coscienza di cattivo studente mantenuto. Bevve la solita grande tazza
di caffè con latte. Andò in bagno, poi si vestì per uscire. Erano
le nove, non era abituato ad uscire a quell'ora, anzi, il mattino
stava sempre chiuso in casa, seduto alla scrivania a fissare un libro
di migliaia di pagine che proprio non gli interessava (e capiva).
Il
rischio di incontrare qualcuno sul pianerottolo, in ascensore o per
le scale, oltre alla custode, era molto alto: “Dottore come va?”,
“Ci siamo?”, “A quando il grande giorno?”, “Hai poi
finito?”, “Senti ho fatto delle analisi, se passi un attimo da
casa mia, puoi darmi una tua interpretazione, perché io non ci
capisco niente?”. Gli inquilini non erano molti, conosceva
soprattutto quelli dal quarto piano in giù, i più pericolosi; gli
altri dei piani superiori erano quasi degli sconosciuti. La padrona
di casa, una signora condannata a vivere su una sedia a rotelle,
stava al sesto o al settimo piano: praticamente il palazzo era suo,
ma ne aveva altri, e centinaia di appartamenti che affittava e
vendeva (così gli raccontò una volta la nonna di B.).
Guardò
come sempre dallo spioncino e trovò strada libera. La porta di
fronte era chiusa, l'ascensore non era occupato. Uscì, chiuse la
porta adagio, e girò la chiave con la mano destra, mentre con
l'altra teneva premuto il bottone per far salire l'ascensore. Dalla
parte delle scale proveniva una forte luce. Era una bella giornata,
c'era anche un po' di vento; i vetri delle enormi finestre del
mezzopiano vibravano. Sotto, forse al secondo piano, la custode stava
lavando uno dei ventiquattro gradini (per piano), mentre canticchiava
una canzone napoletana. L'ascensore stava arrivando: B. teneva pronta
la chiave per aprire subito la porta, quando sentì un colpo di tosse
di un uomo. Non proveniva dalla casa a fianco, la porta frontale al
suo appartamento era molto vicina, quasi attaccata, forse poco più
di due metri di distanza: questo rumore indicava una presenza ben più
remota, forse qualcuno attendeva l'ascensore, sotto, al piano terra.
B. entrò in ascensore e schiacciò il tasto PT. Si specchiò un
attimo e pensò ai suoi capelli color castano chiaro che lentamente
lo stavano abbandonando, proprio lui che da ragazzino, a scuola,
veniva soprannominato 'Ciuffo', per via di quella pettinatura che
voleva imitare alla lontana quella di James Dean.
L'ascensore
ci mise come sempre troppo tempo. Dalla chiusura della porta alla
fine della discesa ci vollero almeno quaranta secondi e per quattro
piani erano troppi, una eternità, eppure questo gli dava
l'opportunità di preparare la sua solita risposta: “Vado di
fretta, un'altra volta, buongiorno, grazie!” Ma al pianoterra non
trovò nessuno e nemmeno al portone dell'ingresso. Tanto meglio,
pensò. Poteva essere il vecchio del primo piano, un ex impiegato
statale, un altro che non si fermava mai al semplice
“buongiorno-buonasera” e andava avanti a parlare di sé e a
chiedere, domandare, rompere le scatole al povero B.
Un'ora
più tardi ebbe una cattiva notizia: un applicato della segreteria
dell'Università gli disse, a malincuore, che c'era stato un errore,
suo o della segreteria stessa, non si capiva bene. Il signore
dall'altra parte dello sportello aveva pure il raffreddore e una
certa fretta: il sunto della questione era che B. avrebbe dovuto
sostenere un esame in più, aggiunto ai sei che gli mancavano.
Tornò
dal centro della città verso casa a piedi, come spesso faceva:
finirò a trent'anni o forse non finirò mai più, pensò. Il vento
aveva aumentato la sua forza, ma non era un vento gelido. Giunto di
fronte al portone del suo palazzo, mentre inseriva la sua chiave, udì
una voce femminile gridare “Ehi!”, però il ragazzo non si voltò
e aprì la porta. Quando si girò per chiuderla, trovò resistenza.
Era una ragazza con i capelli neri lisci a caschetto, gli occhi scuri
e la pelle olivastra. Portava un cappotto blu scuro, una sciarpa
rossa e uno zaino pieno di libri. I pantaloni a zampa di elefante le
nascondevano le scarpe.
“Che
fai mi chiudi fuori?” gli fece lei sorridendo.
Abitava
al settimo o all'ottavo piano, ma non ricordava il suo nome, ne
conosceva la sua famiglia.
“Scusa
ero soprappensiero.”
“Succede!”
“Torni
da scuola?”
“Sì,
ma non c'era lezione, si faceva altro, sai in questo periodo..”
B.
annuì.
“Fai
il liceo?”
“Classico,
sono all'ultimo anno. E' davvero dura!”
Arrivarono
davanti all'ascensore, occupato.
B.
si massaggiò le tempie. Aveva gli occhi un po' arrossati.
“Ehi,
ma che hai? Ti vedo giù!”
“Mi
deve essere andato qualcosa negli occhi, con questo ventaccio!”
“E
anche questo nei capelli..” e gli tolse una foglia.
“Grazie!”
disse lui.
“Un
regalo di Eolo” disse lei, sorridendo.
La
foglia, minuscola, rotonda, era verde scuro. B. se la mise in tasca.
Poi si accorse che la ragazza aveva una farfalla azzurra tra i
capelli, o meglio un fermaglio a forma di farfalla, quasi all'altezza
dell'orecchio destro.
“Ma
questo ascensore è sempre occupato?” disse il fuoricorso.
La
ragazza perse d'improvviso il sorriso.
“Che
hai?” chiese lui.
“Niente..”
abbassò la voce, e avvicinò la bocca all'orecchio del ragazzo,
“Sai, ai piani superiori avvengono cose strane...”.
“Cosa
vuoi dire?” disse lui.
“Sia
di notte che di giorno, nei tre appartamenti dal sesto all'ottavo
piano, si sentono sempre degli strani rumori. E da quella porta
escono ed entrano persone un po' particolari...”
“Lei
chi sarebbe, la padrona di casa, la Signora T.?”
“Sì.
Io qualche volta li osservo dallo spioncino: è gente sempre diversa
e di ogni età. Qualcuno anche straniero, inglese e francese
sicuramente.”
L'ascensore
si era finalmente liberato; nello stesso istante i due schiacciarono
in tutta fretta con l'indice della mano, il tasto dell'ascensore.
All'improvviso si udì il rumore di una chiave girata nel portone
dell'ingresso.
Un
omino dai lineamenti orientali, con i baffetti, il cappello tipo
panama, la camicia hawaiana rossa con sopra una giacca scura, si
avvicinò. Intanto l'ascensore era arrivato.
“Buongiorno!
Prego!” disse la ragazza.
L'uomo,
di età indefinibile, fece un gesto come a dire 'salite prima voi'.
“No..no..prego,
salga lei! Noi facciamo ancora due chiacchiere.”
Era
praticamente un nano. Teneva una grossa borsa a tracolla. Non disse
nulla, entrò dentro e salì, senza salutare.
“Quello
è il 'giapponese', praticamente è uno di quelli fissi, che vivono
con la Signora. Deve essere un figlio adottivo!”
“Certo
che tu ne sai di cose! Comunque è la prima volta che lo vedo.”
Chiamarono
l'ascensore e questa volta salirono.
B.
schiacciò il tasto P4.
Il
fermaglio che la ragazza teneva tra i capelli sembrava una vera
farfalla.
Ci
furono dieci secondi di silenzio; poi lei gli chiese, guardandolo
negli occhi:
“Senti
ti va qualche volta di fare due passi al parco qui vicino? Sarebbe
bello!”
“Certo,
quando?” rispose il ragazzo.
“Facciamo
sabato pomeriggio. Basta che suoni, a qualsiasi ora dopo le tre e mi
trovi!”
“Va
bene, passo sabato dopo le tre. Grazie!”
“Allora
ci conto, ciao!”
B.
entrò a casa sua, si buttò nel letto e pensò a quella simpatica
ragazza, spontanea, piena di vita e anche molto carina, eppure non
sapeva nemmeno il suo nome. Inoltre avrebbe dovuto suonare al settimo
o all'ottavo piano?
Poi
pensò alle sue cose. I sette esami, il futuro che non c'era. Doveva
prendere una decisione entro la serata, quando i genitori sarebbero
tornati. Amava troppo il cinema, avrebbe voluto chiudersi in una sala
cinematografica e non pensare più alla sua vita. Ma anche se avesse
mollato Medicina che cosa avrebbe fatto?
Prese
due soldi e uscì con l'intenzione di andare verso il centro storico
per fare una lunga passeggiata. Magari avrebbe trovato una sala, il
film giusto.
L'ascensore
era occupato, mentre dalla porta dei vicini qualcuno stava per
uscire. Udì sbattere una porta anche al terzo piano. Si trattava di
una congiura contro di lui? Lì sotto c'erano i peggiori, quelli che
ogni volta, da qualche anno, gli chiedevano addirittura il giorno
della discussione della tesi di laurea e dove avrebbe fatto la festa.
Non avendo scampo, invece di rientrare in casa - ci avrebbe impiegato
troppo tempo - scappò verso l'alto, al piano superiore.
Si
buttò a terra sul pianerottolo, ansimando, e rimase coricato con la
faccia al soffitto fino a quando non sentì aprire anche una delle
due porte del quinto. Salì ancora. L'ascensore segnava sempre rosso.
Già non ne poteva più. Lo spavento e quegli scatti improvvisi gli
avevano fatto perdere il fiato. B. era un grande camminatore,
abituato però solo alla pianura. Salì ancora, affannato, per alcuni
minuti. Anche se andava piano ed era poco lucido, si accorse che
stava continuando a salire, quando in teoria il palazzo sarebbe
dovuto finire da un pezzo.
L'ascensore
ora era libero. Schiacciò il tasto ma la luce rossa non si accese.
Salì ancora. Le porte sembravano tutte uguali, in legno scuro,
mentre gli zerbini non c'erano più e nemmeno i vasi con le piante.
Guardò i nomi dei campanelli e le targhette erano vuote.
Così
decise di scendere: lo fece per alcuni minuti. Provò ad urlare.
Bussò a tutte le porte, “Aiuto!”, mentre le grandi finestre con
vetri opachi, nei metà-piani, proprio non si aprivano. Svenne prima
di poter ricavare una propria conclusione filosofica su se stesso, il
genere umano, la vita, l'universo.
“E
questo coglione dove cazzo lo hai trovato?”
B.
aprì gli occhi e vide la faccia del piccoletto, quello che la
ragazza chiamava il 'giapponese', ma a parlare non era stato lui.
“L'ho
trovato addormentato davanti alla porta dell'ultimo piano” sussurrò
l'uomo.
“Dove
sono?” chiese il ragazzo, che si trovava in un letto, con la testa
appoggiata su un cuscino.
“Sei
all'inferno caro mio bel ragazzo, all'inferno!”
Finalmente,
girandosi da una parte vide una donna sulla sedia a rotelle, vestita
in modo elegante, tutta di rosa, piena di collane di perle,
braccialetti d'oro e altro; portava anche un paio di occhiali da
vista con le lenti enormi, leggermente scure. Il 'giapponese' era
senza cappello ed era completamente pelato. Ora gli sembrava un
giovane uomo, riusciva quasi a dargli un'età approssimativa,
trentacinque anni, non di più. La donna ne aveva almeno dieci di
più. Era una bella signora, bionda, e nella stanza, piccola e poco
illuminata per via delle tende chiuse, si sentiva solo il suo forte
profumo all'arancio.
“Io
la conosco, lei è la Signora T., la padrona di casa e di questo
palazzo!”
“Signorina,
prego! E poi tu chi sei, l'investigatore Marlowe?”
“Magari...
sono solo lo studente di Medicina che abita al quarto piano!”
“Allora mi dia il
libretto universitario, subito!”
“Come?”
“Questa
era una battuta. Quarto piano di cosa, di quale palazzo? Io ne ho
almeno cinquanta. Che sta dicendo? Cosa vuole, chi cazzo è questo
qua, Johnny?”
“Non
lo so, deve essere quel ragazzo del quarto piano, di questo palazzo.”
“Pagano
sempre l'affitto? Con puntualità?”
“Sempre,
sono tra i migliori. Lui deve essere il figlio, uno che vedo
passeggiare sempre solo. Non so altro.”
“Beh
allora rimettilo in ascensore! Saprà premere un tasto o no?”
B.
era confuso, fissava la Signorina.
“Che
cazzo hai da guardarmi! Vuoi che ti portiamo giù in braccio?”
Il
piccoletto Johnny non sorrise. Sembrava una maschera, sempre
impassibile.
“Cosa...
cosa...?”, disse B.
“Cosa...
cosa... ti sembro Parmenide? Non capisci quello che dico! E' così
complesso? Mio Dio, ma questo è proprio rincoglionito! Portalo sopra
e fagli fare un caffè da Teresa o Maria, che io devo andare
all'ottavo per la mia proiezione!”
Il
ragazzo si alzò dal letto.
“Aspetti
Signorina! Quale proiezione?”
“Ti
spiego tutto subito perché sono una persona che ama la chiarezza e
l'essenzialità: questa non è una casa, ma un luogo dove ci si
diverte sempre, perché noi amiamo la bellezza. Sai che cos'è la
bellezza, ragazzo?”
“Sì...
per me la bellezza è il cinematografo! Solo quando mi chiudo in una
sala buia, solo quando si accende un proiettore che infiamma un telo
bianco con le immagini di un film, anche un brutto film, per me è
bellezza. Io mi sento libero, io mi sento vero solo in quei momenti.
Per me tutto il resto è finzione!”
La
donna si accese una sigaretta e fece una breve pausa. Poi disse:
“Allora
benvenuto all'inferno, amico mio! Fai vedere la casa a questo
giovane. Per la proiezione del film di Billy Wilder attenderò in
sala: trenta minuti massimo! Fai una cosa veloce: per i dettagli ci
sarà tempo. Stasera c'è anche la festa!”
Johnny
lo accompagnò come se si trattasse di una visita guidata in un
museo. E ci volle ben poco perché il giovane comprendesse che era
finito in un luogo davvero particolare e affascinante. L'appartamento
in cui si trovavano era al sesto piano ed era doppio o meglio
unificato: tutto il sesto piano del palazzo era della Signorina.
Oltre duecento e quaranta metri quadrati, pensò B., poiché quello
in cui abitava con la sua famiglia era circa la metà, centoventi. La
stanza dove si era svegliato era molto piccola, con un letto a due
piazze, una finestra chiusa e coperta del tutto da una tenda, un
armadio alto quasi tre metri di legnaccio scuro e largo non più di
un metro e mezzo, che lambiva il soffitto.
Johnny
non sembrava proprio una persona che amasse parlare. Più che altro
sussurrava, in lingua italiana senza fare errori: aveva un accento
neutro, sembrava un robottino. Non si fermava mai sui dettagli.
Apriva le porte di ogni stanza: c'erano le stanze degli ospiti, ben
cinque, essenziali come quella in cui si era risvegliato, ed erano
tutte concentrate in una parte dell'appartamento. Nel corridoio con
le pareti bianche, alcuni quadri in cui il soggetto era sempre un
paesaggio come una montagna, il mare, un lago, un vulcano, una
foresta, le dune di un deserto, si alternavano a piccoli specchi con
cornici dorate apparentemente antiche. I vetri degli specchi erano
puliti. Il pavimento era in legno chiaro. Il bagno, in fondo al
corridoio, era molto grande: c'era una grande vasca azzurra; la
finestra era chiusa, tutto brillava.
“Il
bagno degli ospiti.”
A
fianco del bagno, il ragazzo scorse la presenza di un vero ascensore
interno alla casa.
Dall'altra
parte c'era la zona della Signorina e delle persone che
l'assistevano, ed era privata, esclusiva, una zona inaccessibile, gli
spiegò il piccoletto.
“Lì
non si può andare, chiaro?”
Giunsero
in un salotto, con poltrone, divani, un televisore molto grande, un
tavolino in vetro e una grande finestra con le tende tirate e una
porta che conduceva ad un balconcino identico a quello di casa sua.
Finalmente un po' di luce, pensò il ragazzo.
Una
porta bianca presente in quel salotto portava alla zona privata; i
due tornarono indietro, attraversando di nuovo il buio corridoio e
giunsero di fronte all'ascensore interno. Johnny schiacciò il tasto
rosso. B. era incredulo: come era possibile che in un palazzo potesse
esserci un ascensore privato? Era anche un po' più spazioso
rispetto a quello che usavano lui e gli altri condomini. Non aveva lo
specchio interno. Si apriva in modo semplice, senza chiave, tirando
verso di sé la porta bianca, identica a tutte le altre della casa.
Se non fosse stato per il bottone, che era solo ad un metro dal
pavimento, nessuno si sarebbe accorto di quella strana presenza.
Entrarono. Era buio. Le pareti erano di legno. C'erano solo due
tasti, uno per salire e uno per scendere. Andava lento e faceva meno
rumore dell'altro ascensore.
Il
settimo piano era un altro mondo, praticamente un corpo unico, senza
pareti divisorie, tranne in un punto, dove c'erano le scale e
l'ascensore del palazzo. Anche qui le finestre erano coperte da tende
rosso porpora. Il pavimento era in legno, le pareti spoglie e
completamente bianche.
Da
una parte c'erano dei tavolini, almeno una decina, rotondi, scuri,
forse di marmo, con delle sedie, eleganti, quattro, tre, due per
tavolo. Più in là il bancone del bar, con centinaia di bottiglie.
Nella
stanza oltre il bancone c'era una cucina in stile moderno italiano
anni Sessanta: in quel momento una donna sulla cinquantina, canuta,
con la pelle bianchissima, stava preparando il caffè. Il tavolo a
forma rettangolare, aveva dieci sedie.
“Ecco
signore” disse lei con gentilezza.
Aveva
un forte accento meridionale (forse calabrese, come il padre di B.).
Versò in una tazzina verde il caffè bollente.
“Ho
già messo due cucchiaini di zucchero” disse la donna.
Johnny
lo aspettava seduto, mentre dalla tasca tirò fuori una minuscola
agenda e la scrutò per qualche momento. B. lo bevve in piedi. Poi
tornarono indietro. Nello spazio di fronte ai tavolini c'era un
grande vuoto, come se si trattasse di una pista da ballo. In fondo,
in un angolo, un pianoforte a coda, nero. Altri strumenti erano
appoggiati in terra, ma chiusi dentro le rispettive custodie. Oramai
non aveva più dubbi, si trovava in un piccolo locale dove si suonava
dal vivo e si poteva bere, ballare e anche appartarsi in una zona
poco illuminata, su degli enormi cuscini-divani a forma di labbra,
cinque in tutto. C'era anche un piccolo bagno.
Presero
l'ascensore per l'ottavo piano, il terzo appartamento. Ed era lì che
la Signorina li attendeva. Intanto il giovane stava per svenire
nuovamente, nonostante tutto quello che aveva visto fino a quel
momento fosse già da capogiro, così assurdo e tremendamente
eccitante: visitare una sala cinematografica, seppur per poche decine
di spettatori, non gli poteva sembrare vero. Nell'ingresso appena
fuori dall'ascensore, attaccate alle pareti, c'erano delle locandine,
grandi come quelle dei cinema, di film importanti come Gilda,
La
febbre dell'oro,
entrambi in lingua italiana e Ladri
di biciclette,
stranamente in lingua inglese. E ancora, di dimensioni ridotte,
locandine in lingua francese,
La grande illusion
di Renoir e, un po' sorprendentemente, A
bout a souffle,
del giovane regista Godard, un film mitico secondo B.
Sempre
nel piccolo ingresso c'erano centinaia di libri sulla storia del
cinema. Prima di entrare nella sala cinematografica, B. fissò per un
attimo quei libri; ne aveva già riconosciuto qualcuno che possedeva
lui stesso, quelli nascosti sotto il suo letto, dentro quel suo
scatolone.
“I
veri libri sono sotto, nell'area inaccessibile della Signorina, in
una stanza dove lei qualche volta si ritira per riflettere e
studiare. Ma è una donna generosa, e qualche volta se le chiedo un
libro che vorrei leggere nella mia stanza o in salotto, dopo poco
tempo ecco che lei me lo porta.”
B.
sentiva l'odore del proiettore.
“Dentro,
venite..!” urlava la donna.
Superate
la tende purpuree a spacco, entrarono nella sala, larga almeno
cinquanta metri quadri, con tre file da cinque posti per ciascuna
fila. Lo schermo bianco era due metri in lunghezza e quattro o cinque
in larghezza, e non poteva essere altrimenti, poiché si trattava di
una stanza da appartamento adattata a cinema; l'altezza del soffitto
non superava i tre metri.
La
sala era interamente tappezzata di marrone scuro. In fondo c'era una
piccola cabina per il proiettore e il proiezionista, rialzata di
mezzo metro.
“Qui
posso fumare solo io!” disse la Signorina in prima fila, messa al
fianco della quinta sedia, parlando loro di spalle.
Le
luci erano accese, ma molto deboli.
“In
questo piano è proibito fumare, le pellicole sedici millimetri sono
come benzina!” ribadì la donna.
“Certo,
lo so...l'ho letto su molti manuali” rispose il ragazzo.
“Allora
che ne pensi? Lo sai che ho migliaia di copie? Basta che alzo il
telefono e in mezza giornata posso farmi arrivare il film che
voglio!”
B.
si era finalmente accorto che la donna aveva un leggero accento
francese, anche se il suo italiano era limpido, senza errori.
“E'
incredibile! Sono senza parole! Che film di Wilder stavate per
proiettare?”
“Non
lo so, ero indecisa tra Irma
la dolce
e L'appartamento.
Ieri ho rivisto Giorni
perduti,
buon film! Ho pianto tanto.”
“Mi
scusi Signorina, posso farle una domanda che non c'entra niente? Ma
lei è francese?”
“E
a te che cazzo te ne frega stronzo!”
B.
rimase di sasso, pensava che la donna avesse superato
quell'aggressività dei primi minuti.
“Mi
scusi, non sono affari miei!”
Intervenne
il piccoletto, sempre sussurrando:
“La
Signorina non ama parlare di sé, del suo passato, delle cose che
riguardano il tempo. In questa casa esiste solo l'attimo, quello che
avviene o è avvenuto al di fuori non ha alcuna importanza, anzi
direi che non esiste proprio nulla oltre queste mura. Qui abbiamo
tutto ciò che occorre per essere felici e...”
“Lascia
perdere, se ne renderà conto molto presto. Comunque sono nata e
cresciuta a Parigi: padre francese e madre italiana. Fine della
storia. Sbrighiamoci. La festa si avvicina. A te la scelta del film.”
“John
Huston!” disse lui con entusiasmo.
“John
Huston cosa?” rispose lei.
“E'
un grande regista, ma ho visto solo una volta Giungla
d'asfalto
e Sterling Hayden è uno dei miei attori preferiti. Vorrei rivederlo”
“Segna,
per il pomeriggio di domani, sarai accontentato. Te l'ho detto, puoi
vedere tutti i film della storia del cinema. Io ti faccio portare qui
in due giorni pure le pizze dall'Indonesia o di un cortometraggio di
un regista dell'Isola di Pasqua. Ti porto pure lui in persona a
presentarlo! Ed ora basta! Decido io il film, stiamo perdendo tempo:
L'appartamento..
vai Johnny..!”
Uno
dei film più riusciti di Wilder, pensò B., che intanto si sedette
in terza fila.
“Vai
Johnny..vai..uuuuh” continuava ad urlare la signorina con furiosa
gioia.
Il
film cominciò. Il piccoletto sembrava esperto; forse era lì per
quello, faceva il proiezionista? Prendeva le pellicole sedici
millimetri da un loro magazzino e le portava alla Signorina? Un
proiezionista-assistente personale, un tuttofare della donna?
L'audio
era buono: le due casse fissate in alto, le immagini a fuoco, in
certi momenti un po' sgranate, quel rumore delle bobine che giravano
nei due rulli, le comode poltrone blu imbottite: l'odore del
cinematografo era sempre lo stesso. Mancavano le persone, ma
raramente B. capitava in serate piene di spettatori, anzi, a volte
preferiva la sala silenziosa dello spettacolo pomeridiano, senza
dover fare la coda per il biglietto. Per lui il cinematografo era un
luogo di riflessione, in cui entrava con la speranza di trovare il
suono profondo della propria anima; ma era anche una forma di
intrattenimento puro, il più lontano possibile dalla vita reale.
“Bellissimo!”
urlò.
Finito
il film la donna era commossa. Si accesero le luci, e voltandosi
guardò B.
“Allora
ragazzo, che dici?”
“Non
saprei, sono ancora molto preso dall'interpretazione di Jack Lemmon!”
“Preso?
Parli di emozioni? Ma noi dobbiamo fare un dibattito serio,
altrimenti che senso ha guardare un film così?”
“Ma
quale dibattito? Io detesto i dibattiti!”
“Ah..ah..
Ma ti sto prendendo in giro! Dibattito? Ah..ah.. neanche fossimo in
quindici, qui dentro, in questa mia casa non ci sarà mai nessun
dibattito! Su, ora vai a farti bello per la festa..”
Poi
aggiunse rivolgendosi al piccoletto:
“Io
devo fare alcune telefonate. Scendo prima io, a dopo!”
Poco
più tardi Johnny lo accompagnò nella piccola camera dove era
rinvenuto poche ore prima. Gli spiegò che doveva lavarsi e poi
avrebbe dovuto pensare ai vestiti, poiché quelli che aveva indosso
non andavano bene: jeans, maglione a righe, scarpe da ginnastica,
giacchetta nera.
Oramai
era giunta la sera e B. non aveva alcuna intenzione di uscire da
quella casa, almeno per il momento. Fuori lo attendevano solo cose
brutte, grandi responsabilità che in quel momento non avrebbe saputo
affrontare.
Si
coricò. Le coperte del letto erano di lana morbida. Non gli venne
neanche la voglia di aprire le tende e vedere fuori dalla finestra.
Pensò ai suoi genitori, sicuramente preoccupati per il suo ritardo,
però aveva deciso che sarebbe rimasto lì.
I
suoi pensieri vennero subito interrotti da una signora molto grassa,
con gli occhiali spessi e i capelli bianchi molto corti.
“Devo
misurare.. per i vestiti!” disse lei, aggiungendo:
“Desidera
qualche cosa in particolare?”
“No!”
rispose lui.
“Si
può spogliare?”
“Come?”
“Può
farmi vedere che mutande porta. E le calze e la canottiera?”
B.
non fece opposizione, in fondo non era nemmeno tra le cose più
strane avvenute fino a quel momento. La donna, evidentemente una
sarta, gli misurò quasi ogni parte del corpo.
Subito
dopo il giovane andò a fare una doccia calda: lei gli aveva lasciato
un accappatoio color verde smeraldo. Non sapeva bene quanto tempo
fosse rimasto in quel confortevole bagno, ma quando tornò nella sua
stanza, trovò l'armadio pieno di vestiti particolarmente eleganti e
un foglio in cui veniva spiegato come indossarli. I suoi abiti
originari, invece, erano scomparsi, tranne il portafoglio che era
rimasto appoggiato sul cuscino del letto: a parte duemila lire,
mancavano la carta d'identità, la tessera della biblioteca, un
piccolo ritratto del suo gatto, che B. aveva fatto a matita circa un
anno prima.
“Li
avrò lasciati a casa? Possibile? O li avrà presi la sarta?”
pensò.
Non
sapeva che ore fossero quando il citofono del sesto piano cominciò a
suonare senza sosta, e poi il campanello della porta, la gente che
entrava in casa, giubilante, le risate, gli idiomi che si
mischiavano, il francese, l'inglese, lo spagnolo, ma anche l'italiano
con i vari accenti, soprattutto il napoletano, mentre B. stava chiuso
in quella che era la sua stanza provvisoria, in piedi, con l'orecchio
teso alla porta, impaurito da tanta confusione, irrigidito da quei
vestiti eleganti che mai aveva portato in vita sua.
Guardò
l'armadio con un certo disprezzo perché gli sembravano più dei
costumi di scena per un ruolo di aristocratico decaduto, e ciò che
aveva indosso era una marsina giallognola che arrivava alle
ginocchia, un lungo gilè rosso e braghe corte, roba che forse aveva
visto in un film sulla Reggia di Versailles? Portava anche delle
scarpe marroni con il tacco rosso. In testa aveva una parrucca di
lana. Era una festa in maschera? La Signorina teneva alle sue
presunte origini di aristocratica francese e tutti gli ospiti ne
erano rappresentanti? Si sarebbe dovuto vestire con gli altri abiti
presenti in quell'armadio anche per andare a vedere il film scelto
per il pomeriggio? E dopo, se fosse rimasto ancora un po', come
avrebbe potuto vivere nel quotidiano con tanta scomodità?
La
nuova biancheria intima, mutande e canottiera, erano gli unici
indumenti legati al suo tempo.
Prese
coraggio e uscì dalla stanza. Il corridoio era un tunnel nebbioso
senza alcuna presenza umana, ma all'ingresso una folla stava
aspettando l'ascensore fumando sigarette e sigari, mentre una donna
ritirava le loro giacche.
La
prima cosa che notò in questo gruppetto era che nessuno vestiva come
lui e questo fu un sollievo. Inoltre erano quasi tutti abbastanza
giovani, sulla trentina o poco più; B. conosceva un po' il francese
e meglio l'inglese che aveva imparato guardando i film in lingua
originale, con i sottotitoli, in un cinemino ai piedi delle colline,
vicino al centro storico della città.
“Ah
ah ah, ma guarda questo qua!” disse uno biondo, probabilmente
romano, vestito con camicia hawaiana (o californiana?) rossa. B. si
avvicinò a loro, tutti vestiti in maniera estiva, comprese due
donne, una con gli occhiali da sole.
“Prego
Re Luigi!” disse il biondo, ora composto.
“Grazie”
rispose lui con distacco ed entrò nell'ascensore, da solo.
Salì
al piano superiore. In pochi attimi capì di essere finito alla festa
sbagliata: la Signorina lo aveva preso in giro.
Si
udivano da sopra famose melodie di canzoni americane, probabilmente
dei Beach Boys; la gente urlava, sembrava già eccitata dall'alcool e
forse da altro.
B.
decise comunque di reggere il gioco al proprio personaggio, e di
rimanere serio il più a lungo possibile.
Al
suo arrivo al piano risero tutti. Qualcuno applaudì. B. passò in
mezzo ad una cinquantina di persone; si stava molto stretti, c'era
chi urlava “Whisky! Whisky!”. La Signorina stava vicino al
pianoforte, muovendo a tempo la testa. Era vestita con un abito da
sera nero. Il piccoletto non si vedeva. Sembrava una festa vicina
alla moda 'surfers', ma erano presenti anche personaggi vestiti con
giacca e cravatta: uno di questi, molto vecchio, ballava
strusciandosi sul corpo di una bella giovane.
“Grande...grande,
yeah...!” urlò a B., che intanto si dirigeva al bancone in cui
venivano serviti whisky, cocktail, vino, birra e altro da una bella
ragazza che parlava solo in inglese.
Ordinò
in lingua inglese un jack daniel's senza ghiaccio, ma la ragazza,
forse distratta dall'abbigliamento di B., mise dentro tre o quattro
cubetti di ghiaccio, e rise.
E'
incredibile, pensò, poche ore prima questo luogo era solo una grande
stanza completamente vuota ed ora.. ma tu guarda..! Si appoggiò al
bancone. Dall'altra parte la Signorina si voltò per un attimo e gli
fece l'occhiolino, o almeno così gli parve, poiché a dividerli
c'erano troppe persone (inoltre lei aveva quegli occhiali abbastanza
scuri).
All'improvviso
un uomo di colore estrasse il suo sax, e accompagnato dal pianista,
suonò per ore una musica bellissima che B. non aveva mai udito in
vita sua. C'era sempre più gente e confusione: Fellini non avrebbe
potuto immaginare di meglio.
Il
quarto jack gli fece perdere la sua timidezza, baciò in bocca molte
donne, forse anche qualche uomo, e alla fine si ritrovò a letto con
la barista e una sua amica di nemmeno vent'anni, che la ospitava a
Milano. La barista diceva di essere del Montana, U.S.A.! Quella notte
B. aveva conosciuto almeno un centinaio di persone, ma non si
ricordava nemmeno un nome o un dialogo o un volto.
Si
svegliò nudo tra le braccia delle due sconosciute quando qualcuno
bussò alla sua porta: era il piccoletto Johnny che gli ricordava la
proiezione del film di Huston.
“Tra
dieci minuti si inizia. Sarai solo in sala. Fai presto che poi ho
altri impegni!”
“Certo.
Grazie!” rispose. Non aveva fame perché per tutta la notte aveva
mangiato parecchi stuzzichini, soprattutto quelli con il salmone
affumicato.
Nell'armadio
ritrovò i suoi vestiti, le scarpe da ginnastica e il suo documento
d'identità, oltre alla tessera della biblioteca e al ritratto del
suo gatto. Degli abiti da aristocratico nessuna traccia.
Si
rivestì. Uscì dalla camera. Nel corridoio tutte le altre stanze
sembravano occupate, e in una qualcuno russava. Provò ad andare in
bagno, ma era chiuso a chiave. Salì fino all'ultimo piano e per
prima cosa andò in quello dell'ottavo piano, al quale però mancava
lo specchio.
Terminate
le sue cose, si sedette al centro della vuota sala, e il film
cominciò immediatamente. Era ancora assonnato, non aveva mai visto
una pellicola in un cinema dopo una sbronza e con il mal di testa.
(Era stata anche la prima volta con due donne contemporaneamente).
Fu
comunque un dolore emozionante vedere quell'omaccione di Sterling
Hayden stramazzare a terra nel luogo in cui era cresciuto, morire
nell'erba, tra i suoi cavalli. Per questo personaggio B. non aveva
mai inventato una vita felice, e nemmeno per il 'dottore',
interpretato da Sam Jaffe, il quale, ad un passo dalla libertà,
viene arrestato, perché rimane a guardare una ragazza che balla
vicino al juke-box. Non sempre il giovane riusciva a fantasticare su
un'altra possibile esistenza dei personaggi che vedeva sullo schermo:
alcuni gli sembravano perfetti così come erano, chiusi nella loro
grandezza, inaccessibili alla sua fantasia, senza un prima e senza un
dopo, e scrivere sarebbe stato inutile.
Quando
si accesero le luci, il giovane si accorse che il piccoletto era
stato sostituito da un uomo sulla trentina, con i capelli neri corti,
i baffi, la pelle scura, la camicia bianca fuori dai pantaloni.
“Buongiorno
signore, io sono il proiezionista, mi chiamo Mike.”
“Buongiorno
Mike, io sono B.!”
“Lo
so, vuoi vedere altro signore? Quando vuoi vedere altro, devi
scrivere su questo foglio il titolo e in poco tempo troverò il
film.”
“Grazie
Mike!” e B. scrisse senza pensarci una decina di titoli, tra cui un
film di Dreyer, Ordet,
che purtroppo non aveva mai visto, mentre gli altri film li conosceva
bene, ma avrebbe voluto rivederli all'istante.
Il
proiezionista poteva essere sudamericano. B. spinto ancora una volta
dalla curiosità gli chiese:
“Scusa
Mike, di dove sei?”
“Di
questa casa” rispose, poi aggiunse:
“Bene,
li abbiamo tutti i film, due sono qui. Vuoi vedere?”
“Sì.”
Rimase
in quella sala per svariate settimane o forse per mesi, vedendo solo
film. Ogni tanto parlava con Mike, ma di cose pragmatiche, non
facevano mai discorsi che finissero sul personale e nemmeno
discussioni sulle pellicole. L'uomo era anche molto geloso del suo
proiettore sedici millimetri, non amava che lo spettatore si
avvicinasse ad esso o che chiedesse dettagli tecnici sul suo
funzionamento. Al ragazzo, comunque, interessavano i film, e ne
guardò molti: film con Marlon Brando e con James Dean, i film di
Bergman degli anni Cinquanta, tra cui Un'estate
d'amore,
le comiche mute di Charlot, un film con Totò e alcuni con Alberto
Sordi, almeno dieci film con Bogart, e poi Il
carretto fantasma,
tre film di Murnau, tre film con Greta Garbo e altri film classici di
Hollywood, Come
foglie al vento,
i musical, alcuni film di John Ford, Kurosawa e un film di Ozu, e
tanti altri, francesi, soprattutto Renè Clair, Godard e Jacques
Tati. E ancora film russi, film inglesi, film messicani, film
spagnoli, insomma, passava da un film all'altro, da un genere ad un
autore sempre diverso.
Scoprì
che gliene mancavano ancora molti da vedere, un numero quasi
infinito, e così la sua fame di cinema aumentava. Dopo la sesta
proiezione consecutiva si addormentava sulle comode poltroncine. Il
bagno era a pochi passi: Mike aveva provveduto a tutto, spazzolino,
asciugamani, vestiti di ricambio e soprattutto gli portava il cibo su
un vassoio ogni tre visioni. Avrebbe potuto vivere così per sempre,
dentro quella sala buia, senza conoscere più la differenza tra la
notte e il giorno. E così stava già accadendo. L'unica interferenza
era ciò che appariva dallo spioncino della porta chiusa a chiave di
quell'ottavo piano, e mai più aperta.
“Fermo
signore, dove vai?” gli ripeteva per l'ennesima volta Mike, ma lui
guardava la ragazza che aveva conosciuto durante il suo ultimo giorno
nel mondo reale.
“Niente!”
rispondeva.
Se
aveva oramai dimenticato la sua famiglia, i suoi studi in medicina,
gli ex compagni di scuola, le strade della città, la ragazza senza
nome gli era rimasta dentro come un cortometraggio proiettato
continuamente nella sua testa e con continue varianti, ma sempre con
lo stesso finale: “Allora ci vediamo sabato pomeriggio, ciao!”
Inoltre
lei abitava proprio lì, solo una porta chiusa, un pianerottolo, e
un'altra porta li divideva.
Ma
riuscire a vederla fu un caso e anche una grande fatica. Durante le
pause in cui non venivano proiettati film, Mike viveva al sesto
piano, mentre B., sapendo che era giorno (poteva aprire le tende, ma
il balcone era inaccessibile, la porticina era chiusa con un grande
lucchetto e inoltre non c'erano orologi), aspettava che lei uscisse
dall'ascensore o dalla porta di casa. Una volta aveva visto il padre
e due volte la madre - e anche la custode che lavava le scale e il
pianerottolo-, infine lei, senza più quella sciarpa rossa, ma con i
pantaloni lunghi e una felpa sportiva, a volte blu: portava sempre i
capelli a caschetto e quel fermaglio a forma di farfalla. Una volta
era pure inciampata uscendo dall'ascensore, facendo sorridere lo
spione. Quanto era graziosa.
B.
teneva nella tasca destra dei jeans quella foglia che lei gli aveva
tolto dai capelli. La foglia stranamente non era secca, e il suo
verde scuro era lo stesso di qualche mese prima.
Verso
la fine della primavera, il ragazzo non era ancora uscito da quella
saletta cinematografica. Si era anche dimenticato della Signorina e
del piccoletto. L'unico suo contatto con gli esseri umani rimaneva
Mike, che continuava a fargli da proiezionista e da cameriere. Poi,
un bel giorno, durante la proiezione di un film di Marcel Carnè,
Les
enfants du paradis (versione
senza tagli e in lingua originale), una volta accese le luci della
saletta, si ritrovò dietro di sè la Signorina T., con le lacrime
agli occhi e Johnny, impassibile, seduto nell'ultima fila, con le
mani affondate nelle tasche della giacca nera.
“Quando
Mike mi ha detto che avevi scelto questo film, sono venuta quì!”
“Buongiorno..
buonasera..!” disse lui alzandosi in piedi.
“Buonanotte!
Seduto! Non interrompere la Signorina!” disse il piccoletto.
“Dicevo..
è uno dei miei film preferiti! Non dovrei vederlo, perché mi fa
star male!”
Si
avvicinò a lui, mentre Johnny rimase seduto in fondo. Si asciugò le
lacrime con un foulard bianco, e dopo un colpo di tosse, la sua voce
tornò normale.
“Noi
dobbiamo parlare, amico mio!”
Aveva
un profumo molto forte e un altro foulard, azzurro, attorno al collo.
Il rossetto le lambiva quasi le narici del naso. Era sempre difficile
capire se la donna lo guardasse negli occhi, per via di quegli
occhialoni con le lenti un po' scure.
“Intanto
è inutile chiederti come va? Credo tu stia bene, anzi non ho dubbi,
ne sono sicura..”
“Sì,
sono felice, è il momento più bello della mia vita, è sempre ciò
che ho sognato!”
“Bene!
E allora cosa hai da guardare dalla porta?”
“Quale
porta?”
D'impeto
la donna lo prese dalla camicia, strattonandolo, poi gli tirò alcuni
schiaffi in faccia. Il ragazzo non reagì.
“Quale
porta? Quale porta? Hai fatto tanto per rimanere qui! Figlio di
troia! Noi facciamo dei sacrifici per mantenere i tuoi sogni ed ora
tu vuoi andartene via?”
“No,
voglio rimanere qui, per sempre! Non voglio andare da nessuna parte!
Sì,è vero.. è vero! Ogni tanto ho guardato quella ragazza che
abita accanto. L'ho conosciuta un po' di tempo fa, ma non volevo
aprire la porta, mai l'avrei fatto, a me interessa vivere qui!”
La
donna appoggiò le spalle contro lo schienale della sedia a rotelle.
“Ti
credo, ti credo! Basta così! E' stato sicuramente un momento di
debolezza! D'altronde sei ancora giovane! E comunque la porta è
sigillata! Ora però è arrivato il momento di darti una grande
notizia: presto tutto il palazzo sarà a nostra disposizione!”
La
prima cosa che B. pensò non fu quella di chiedere dei suoi genitori,
la loro reazione dopo la sua scomparsa, come stavano e dove sarebbero
andati a vivere. La loro esistenza non gli importava più e nemmeno
la sua: gli interessava solo la ragazza. Non l'avrebbe più rivista e
in quel momento sentì i brividi in ogni parte del suo corpo.
“Beh..
non sei contento? A cosa stai pensando? I tuoi genitori stanno bene,
tranquillo! La polizia ti ha cercato, ma Johnny è un genio, ha
sistemato tutto: non sei morto, perché vivi alle Hawaii! Hai capito?
Sei fuggito lì per amore, un colpo di fulmine e via.. E in Europa
non vuoi tornare. L'hanno bevuta tutti, i tuoi, la polizia. Le
indagini sono chiuse da tempo. Ogni tanto gli scrivi delle belle
lettere rassicuranti, prometti che magari un giorno, chissà,
tornerai, ma per ora no! Perché stai bene lì, in quella
meravigliosa isola. D'altronde è vero che stai bene, no?”
“Si,
molto! Grazie!”
“In
questo periodo ti sei perso un sacco di feste, peccato, mi dispiace!
Comunque tra pochi mesi cominceranno i lavori ed entro due anni
avremo otto piani tutti per noi”
“E
il cinema?”
“Il
cinema rimarrà all'ottavo, lo ingrandiremo. Ho molti amici che mi
hanno chiesto perché non proiettavo più film e ho deciso che così
sarà! Nessuno a parte te, me, Johnny e Mike, o altri addetti della
casa potranno salire quassù. Ma per questo dobbiamo fare un patto!”
“Sono
pronto a tutto!”
La
donna gli tirò uno schiaffo, meno forte, quasi un buffetto. Poi gli
fece l'occhiolino e se ne andò.
“Preparati,
domani c'è una grande festa rock'n'roll. Tutti i pezzi del
'57..Uhhh!” gli urlò da lontano.
A
quel punto si alzò Johnny che gli spiegò, come sempre a bassa voce,
alcune regole. Per circa due anni avrebbe dovuto vivere in una
stanzetta del sesto piano. Gli avrebbero aggiunto un tavolino per le
sue letture sul cinema e un proiettore otto millimetri facile da
usare per la proiezione di qualche film. Inoltre ci sarebbe stato il
televisore nel salotto. Una volta terminati i lavori, sarebbe tornato
al piano - nuovo - del cinema, e avrebbe dormito in una stanza fatta
apposta per lui.
Ma
sui lavori della casa non aggiunse molto altro.
Le
feste sarebbero continuate ancora per qualche mese, poi averebbero
ristrutturato anche il settimo: B. poteva parteciparvi, ma solo ad
alcune condizioni, e la prima era di natura scenica.
La
Signorina amava stupire: introducendo un elemento estraniante che non
c'entrasse nulla con il tipo di festa. Il ragazzo si sarebbe dovuto
vestire una volta da Napoleone, una volta da Giulio Cesare, da
Casanova, da Cavour e altri ancora, cercando di recitare la parte il
meglio possibile, almeno per una notte. Anche a letto con le ragazze
- perché dopo le feste tutti in un modo o nell'altro ci finivano -
avrebbe dovuto fare sesso alla Napoleone, come Casanova, come
Cavour..
Inoltre
il mascheramento serviva per non essere riconosciuto; mai avrebbe
dovuto parlare di sé. Gli era vietato uscire dal palazzo, mentre sul
balcone ci poteva stare solo se avesse messo una maschera. Non poteva
usare il telefono, e in caso di malore avevano a disposizione alcuni
medici personali. Se si fosse ammalato in modo grave, pazienza, in
ospedale non avrebbero potuto portarlo e sarebbe morto lì, in casa,
e amen.
“Infine
se un giorno tenterai di scappare da qui, dovrò ucciderti!”
aggiunse Johnny.
“Uccidermi?”
“Si,
ma non preoccuparti. Sono sicuro che vivrai più che bene da noi,
quindi ti diamo ufficialmente il benvenuto!”
Gli
tese la mano, poi lo abbracciò, senza sorridere, infine si
allontanò.
B.
rimase spiazzato più dal gesto di affetto, che dalle tante novità.
Lo richiamò più volte: “Johnny.. Johnny!” quando l'uomo era
oramai davanti all'ascensore. Allora B. gli andò dietro.
“Johnny!
Senti, una cosa però devo proprio chiedertela!”
“Dimmi!”
“Ma
tu sei per caso giapponese?”
“E
a te che cazzo te ne frega, stronzo!” entrò in ascensore,
sbattendo forte la porta, e scese giù ai piani inferiori.
FINE
PRIMO TEMPO
Non
sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era chiuso dentro
quella stanza al sesto piano, dalla quale usciva solamente per
attraversare il corridoio che portava dritto al bagno; oppure andava
in salotto e sul balconcino, qualche volta. Ogni giorno una giovane
donna si prendeva cura di lui: gli portava da mangiare, i medicinali
per le forti emicranie, i libri sul cinema, le pellicole otto
millimetri (la sua più grande soddisfazione, le proiettava senza
alcun aiuto). Gli lavava i vestiti e lo faceva sfogare come poteva.
Dopo un certo periodo la donna veniva sostituita: nessuna di loro
parlava né l'italiano né il francese o l'inglese. Forse erano tutte
dell'est dell'Europa. Bruttine e sempre molto gentili: la mente,
l'idea di chi le mandava era quella di non farlo innamorare, ma
nemmeno quella di farlo impazzire di astinenza. Ogni tanto, oltre che
a letto in dolce compagnia, faceva altri tipi di esercizi fisici,
come una breve corsa in corridoio, flessioni, addominali.
Non
fu facile vivere in quelle condizioni. Il palazzo tremava dalla
mattina alla sera, gli operai lo stavano rivoltando. B. era costretto
a mettersi una maschera nera quando usciva a prendere aria sul
balconcino. Ogni tanto ritrovava con piacere nel salotto del piano il
caro Johnny, mentre della Signorina non aveva più avuto notizie e
ovviamente non avrebbe osato chiedere: la sua parte d'appartamento
rimaneva inaccessibile e silenziosa.
“Come
va?” gli chiedeva ogni tanto il piccoletto, mentre guardavano un
film western alla televisione (i telegiornali non li seguivano mai,
mentre Johnny era fissato con i quiz e i documentari di divulgazione
scientifica).
“Resisti,
forza! Il palazzo è quasi pronto e diventerà un luogo unico, che
non esiste da nessuna parte del mondo, vedrai!” lo rassicurava il
piccoletto, senza neanche guardarlo.
Grazie,
prego, grazie molte. Gli anni passavano, secondo i suoi calcoli
cinque anni esatti. Il ragazzo non era più un ragazzo ma un giovane
uomo con i primissimi capelli bianchi ai lati, mentre gli altri sopra
se ne erano andati del tutto, e in fondo l'idea di travestirsi alle
feste non era poi così male (Cavour a parte).
Due
cose però rimanevano bizzarre: la prima riguardava Johnny. Ogni
tanto tornava di sera, sporco di sangue, ed era talmente stanco che
si sedeva davanti alla televisione senza cambiarsi, macchiando i
divani bianchi. B. non dubitava che anch'egli lavorasse per il bene
del palazzo, ma certamente non come muratore, geometra o architetto.
Dormiva
a due stanze da quella del trentenne, il piccoletto. A volte usciva e
rientrava con una borsa lunga e stretta:
“Vado
a giocare a golf” gli aveva detto in più di una occasione, un po'
seccato, senza che B. gli avesse chiesto alcunché.
La
seconda cosa strana era che contemporaneamente ai lavori di
ristrutturazione del loro palazzo, fuori, avevano costruito alcuni
palazzi di otto piani praticamente identici, almeno esteriormente, a
quello in cui viveva il nostro.
Dalle
finestre e dal balconcino del salotto poteva contare sette palazzi,
ma era probabile che ce ne fossero altri. Due vecchi palazzi dei
primi del Novecento e alcune villette erano state abbattute. Forse
anche il parco, poco distante, era stato cancellato. Vennero aperti
dei negozi, la zona stava quasi diventando il centro del quartiere.
B. non riusciva più a vedere, se non a frammenti, le colline e le
montagne.
Una
sera d'estate nel pieno degli anni Settanta, mentre B. stava
ascoltando un disco di Buddy Holly (aveva chiesto invano Chopin, ma
la sua musica avrebbe potuto immalinconirlo troppo; in compenso aveva
scoperto dei pianisti jazz micidiali), udì la voce della Signorina,
fuori nel corridoio.
“Dov'è..dov'è..dov'è..il
mio eroe? Il mio eroe!”
Aprì
la porta con impeto, lui si alzò dal letto spaventato e anche un po'
commosso. La donna era sempre molto bella, bionda, con gli occhiali
enormi che le coprivano metà del volto, elegante, eccessivamente
profumata e miracolosamente in piedi.
“Hai
visto? Cinque anni a Lourdes!!”
Aveva
una stampella sola, sulla quale appoggiava la mano sinistra.
“Lourdes?
Sono contento per lei e poi che sorpresa dopo tutto questo tempo,
Signorina!!”
Andò
per baciarla, ma lei lo fermò mettendo il braccio destro in avanti:
“Signora,
prego! Mi sono sposata con Johnny, non toccarmi o farai ingelosire
mio marito, ci vuole rispetto!”
Dietro
apparve Johnny, impassibile.
“Io
non lo sapevo, mi scusi!”
“Ah..ah..,
che credulone! Mi sono sposata con Johnny! Ah..ah.. E poi
Lourdes..ah..ah.., ma quale Lourdes! Sono stata in America caro,
operazione riuscita e lunga fisioterapia! Grande forza di volontà
come la tua, caro! Ma come hai fatto a resistere per tutto questo
tempo in una stanza, un corridoio, un salotto, senza il nostro
cinematografo?”
Alla
donna non venne in mente di usare parole come “uscire..
passeggiare.. viaggiare..”, frasi come “incontrare le persone
care del passato..”, ed effettivamente a B. non venne mai, neanche
per un attimo, la voglia di andarsene a spasso. Anche sul balconcino
ci andava il giusto necessario per prendere una boccata d'aria e far
diminuire quel costante leggero male alla testa.
“Ed
ora la seconda sorpresa: il palazzo è pronto!”
Ma
lui lo aveva intuito. Era da tempo che non sentiva più rumori.
“Andiamo
a fare un giro, e complimenti per i capelli! Gli uomini pelati sono
più virili!”
“Beh,
almeno per Mussolini risparmieremo sulla parrucca”, rispose lui,
con una battuta alla Woody Allen, riferendosi ai suoi futuri
travestimenti alle feste. La donna rise a squarciagola, poi presero
l'ascensore interno, il solito ascensore semibuio, con due tasti, uno
per scendere e l'altro per salire; ora in tre dentro, senza la sedia
a rotelle ci stavano, anche se un po' stretti.
“Partiamo
dal primo piano” disse la donna.
Avevano
trasformato gli appartamenti in un piccolo parco artificiale, unendo
il primo e il secondo piano: un prato con l'erba che arrivava alle
ginocchia, un piccolo stagno, alcuni cespugli e alberelli in fiore,
tutto di plastica (tranne l'acqua dello stagno). Il soffitto, alto
circa sei metri, era stato dipinto di azzurro e di bianco. In
sottofondo veniva diffuso il suono dei grilli e un vento leggero
provocato dai ventilatori ben nascosti: tutto si muoveva con armonia,
compresi i capelli della donna,
ammesso
che almeno quelli fossero veri.
“Fuori
Parigi, quando ero bambina, avevamo una casa con un grande giardino,
ben curato, ma io preferivo uscire e andare nei luoghi un po' più
selvatici, proprio come questo.”
E
aggiunse, tornando verso l'ascensore:
“Anche
tu potrai venire qui quando vuoi per distenderti e rilassarti!”
Le
finestre coperte dalle tende erano chiuse, forse sigillate. La luce
artificiale simulava un'aurora o un tramonto (non si capiva bene).
Faceva molto caldo, nonostante il vento.
“Peccato
che ci sia il muro delle scale interne e dell'ascensore!” disse B.
“E'
vero, ma non potevamo fare altrimenti, caro architetto!” disse lei
un po' stizzita.
“Le
scale interne e l'ascensore sono rimaste uguali. La portinaia è
cambiata, ora c'è una del nostro clan. Pensa che parla solo
spagnolo! Gli ospiti devono entrare normalmente, non possono volare e
anche noi..ovviamente tutti..”
“Tranne
me!” disse B. sorridendo.
“Beh,
tra poco avrai il tuo meritato regalo!”
Per
evitare che qualcuno lo vedesse attraverso le finestre aperte, B. fu
costretto a mettersi la solita maschera nera: il terzo piano era
composto da una decina di camere con il letto a doppia piazza.
Sembrava la parodia di un piccolo bordello austriaco di lusso, con
quadri e piccole statue di vari animali esotici nei corridoi. Le
pareti erano rosse.
“Qui
potrai portare le tue conquiste, mio caro Napoleone, sempre se
troverai una stanza libera.”
Il
quarto e il quinto piano erano unificati: una sala da ballo, un
palcoscenico abbastanza profondo per i musicisti e tutto l'impianto,
l'asta del microfono al centro che luccicava; i divanetti da una
parte e i tavolini rotondi dall'altra. Ma la vera novità era lo
spazio raddoppiato da tre a sei metri del soffitto, il quale avrebbe
consentito maggiore respiro alla folla ubriaca e delirante durante le
feste. Il pavimento era in legno. Le finestre erano aperte. Le tende
avevano un colore verde smeraldo. Il bar era simile a quello
precedente, e dietro c'era la cucina in stile italiano, con il grande
tavolo.
“Non
amo le cene troppo affollate, preferisco quelle intime, con le nostre
donne e gli altri della nostra squadra.”
In
quegli anni B. aveva sempre pranzato e cenato da solo, prima al
cinemino, seduto sulle poltroncine, poi su quel tavolo nella sua
stanza.
Non
era chiaro se da ora lui facesse o no parte del clan, e quindi
potesse mangiare con loro almeno qualche volta.
Tornarono
in ascensore saltando il sesto, l'unico piano che non aveva subito
modifiche, e nel quale la donna sarebbe tornata a vivere in quelle
sue misteriose stanze.
“Capolinea!”
L'ascensore
s'arrestò. Giunsero alla tanto attesa destinazione: il
cinematografo. Era buio. Uscirono, tenendosi tutti e tre a braccetto,
camminarono per alcune decine di secondi fino a quando la donna urlò:
“Luce!!”
E
gli occhi del nostro B., in un momento, divennero rossi e pieni di
lacrime.
“Gra-gra-zie!”
balbettò sorridendo.
Anche
qui avevano unito i due piani, il settimo aggiunto all'ottavo,
trasformandolo in un cinema vero, con le poltroncine blu a salire,
almeno una cinquantina, divise a metà da un corridoio che terminava
con le tende a spacco; lo schermo, il doppio di quello precedente,
era contornato da tende rosso porpora. Alle pareti laterali, impressi
nella tappezzeria marrone scuro, c'erano due giganteschi poster di
Audrey Hepburn e Sterlyng Hayden da una parte, Fellini e Bergman
dall'altra.
“Proiettore
trentacinque millimetri e tutti i film che desideri!”
B.,
in quegli anni, aveva scritto a mano su centinaia di quaderni i
titoli dei film, ordinati in base al nome del regista, una sorta di
archivio personale e di promemoria.
“Domani
si comincia con Chinatown.
Ci sarò anche io, ma normalmente avrai tutta la sala per te, perché
ho male agli occhi, e già faccio fatica a leggere i miei volumi di
filosofia antica. Le gambe guariscono, nel frattempo perdo la vista
mio caro!”
Dalla
cabina uscì Mike. Indossava una lunga camicia bianca.
“Ehi
Mike! Mike!”
B.
corse su per abbracciarlo e lui ricambiò con gioia.
“Cavolo,
sei sempre uguale!”
“Scusi
Signor, io non sono Mike, ma suo fratello minore. Mi chiamo Sam. Mike
è partito, lavora in un cinema fuori dall'Italia, io sono Sam!”
Gli
rispose un po' dispiaciuto. Il suo alito puzzava di vodka.
“Ah...ah...
Mi devi dieci mila lire Johnny, lo sapevo che ci sarebbe cascato!”
La
Signorina T. e Johnny se ne andarono. Sam gli spiegò con il suo
italiano confuso ogni dettaglio.
La
camera di B., collocata subito fuori la sala, era molto spaziosa ed
essenziale: un letto ad una piazza con sopra, sparpagliati, libri sul
cinema, a centinaia, più tutti i suoi quaderni, compresi quelli sui
quali aveva fantasticato, da sistemare in uno scaffale vuoto.
L'armadio era grande e conteneva qualche comodo ricambio per il
quotidiano, tutto il necessario per vivere in una casa dalla quale
ovviamente non poteva più uscire.
L'elemento
più affascinante di questo luogo era la vetrata, che sostituiva
interamente una parete. Sei metri di vetro in altezza e quindici in
lunghezza, senza balcone fuori.
“Es
doppio vetro! E poi tu vedi fuori loro, pero loro no vedono te!”
Un
vetro a specchio. Il paesaggio da lassù era bellissimo, anche se a
circa trenta metri erano presenti palazzi di otto piani, tre per
l'esattezza (uno praticamente di fronte). E sembravano già abitati.
In mezzo a questi riusciva a scorgere le colline che al mattino
trattenevano il primo sole, e guardando più su, in quel momento,
c'era un incantevole cielo stellato. La vetrata si poteva aprire solo
nella parte superiore, una striscia orizzontale, giusto per un po' di
ricambio d'aria. Aveva a disposizione anche un bagno tutto verniciato
di azzurro. In fondo allo stretto corridoio c'era la porta
dell'ascensore.
B.
rientrò nel cinema, pensieroso, seguito come un'ombra da Sam. Era
ormai chiaro che avevano cancellato le scale interne e l'ascensore
del palazzo, “perché è un piano unico, separato dal resto della
casa, senza via d'uscita, se non attraverso quell'ascensore!”,
disse tra sé.
“Come
dici signor?”
“Cazzo!
Se qui scoppia un incendio, come facciamo? Aspettiamo l'ascensore?”
Non
c'era altra via d'uscita.
“Signor,
il cinema è bello, non trovi?”
“E'
stupendo!”
“E
io, grazie a Dio, vivo al sesto piano!”
La
battuta era buona, ma pensando che anche lui avrebbe trascorso
parecchie ore li dentro, le possibilità di diventare carne allo
spiedo per un incendio erano molte pure per il povero e spiritoso
Sam.
B.
pensò fin da subito di stabilire degli orari fissi di proiezione.
“Puoi
vedere film quando vuoi nel giorno e nella notte” disse Sam.
Invece
no: scelse solo il pomeriggio e la sera: il suo proiezionista doveva
essere lucido, ben sveglio (e possibilmente sobrio).
Fare
delle domande, aveva imparato negli anni vissuti li dentro, era del
tutto inutile, poiché niente aveva senso: chi fossero tutti i suoi
inquilini, la Signorina T. e le sue bizzarre conoscenze, compresi
architetti fuorilegge, Johnny, pragmatico e di poche parole, che
amava il golf violento, Mike e Sam i proiezionisti, gli altri
personaggi della casa, gli invitati alle feste che duravano dal
venerdì alla domenica pomeriggio di ogni settimana (qualche volta
anche durante la settimana, oltre al periodo delle festività), con
un repertorio musicale esclusivamente statunitense, che si fermava ai
primissimi anni Sessanta.
E
se fossero tutti delle comparse ben pagate dalla Signorina? Aveva
questo dubbio B., ma in fin dei conti non avrebbero modificato la
sostanza: il divertimento era vero, autentico, la gente ballava,
fumava, si ubriacava, vomitava, litigava, finiva a letto per davvero
e la Signorina T. era la prima a fare tutte queste cose insieme. Solo
Johnny rimaneva freddo, perché lui era una guardia del corpo e
contemporaneamente l'organizzatore, un direttore di produzione,
doveva controllare che tutto filasse liscio. Non poteva mischiarsi
nel delirio, ci voleva distacco, e questo certo non gli mancava.
E
così gli anni trascorrevano fuori dalla casa, ma non dentro, dove il
tempo si era fermato, o meglio era assente la burocrazia che lo
ricordava: nella dimora di B. non c'erano orologi, calendari e
sveglie. Lo stesso ai piani inferiori. Forse solo Johnny aveva un
orologio da polso, l'agenda e sapeva distinguere un venerdì da un
martedì.
B.
non guardava mai più di quattro pellicole al giorno. Il mattino
faceva ginnastica, correva su e giù per la sala. Tra un film e
l'altro leggeva e rileggeva libri sul cinema, mai altro. Ed era
felice così. Non gli mancava niente: per lui scoprire un nuovo film,
un genio registico, un attore o un'attrice di talento oppure un
direttore della fotografia era un'emozione sconfinata.
Sulla
morte di un noto personaggio del cinema poteva venirne a conoscenza
solo dopo molto tempo, quando gli arrivava un libro biografico, anche
perché B. non aveva radio o TV, e aveva deciso di non leggere più
recensioni di quotidiani o riviste, in inglese, in italiano o in
francese. Aveva un interesse quasi esclusivo per le biografie e le
autobiografie: i saggi di estetica cinematografica non gli dicevano
più niente, faticava a capirli, lo annoiavano. Ogni mese gli
portavano una lista dei film usciti nelle vere sale.
Mangiava
da solo, si era abituato in questo modo, al tavolino della sua
stanza. Ci pensava Sam a portare le delizie che venivano dalla
cucina. Era raro che scendesse sotto, ed era ancora più raro che la
Signorina T. salisse per guardare un film. Un pomeriggio d'inverno
videro insieme Eraserhead
ed Elephant
man
di David Lynch, ma lei rimase disgustata. Preferiva il cinema
classico americano dagli anni Trenta ai Cinquanta, e qualche volta,
con dolore, qualche film francese, anche muto. Rimase spiazzata
dall'interpretazione di Marlon Brando nel film L'ultimo
tango a Parigi,
mentre non capì la grandezza di Missouri
di Arthur Penn e
L'inquilino del terzo piano
di Roman Polanski.
Il
piccoletto veniva su solo per Kubrick, mentre Sam amava tutti i film
che B. sceglieva, anche se andava pazzo per le pellicole d'avventura
e tifava per i comici americani e per quelli italiani, soprattutto i
più grossolani. Ma non era un proiezionista abile come il fratello
maggiore; anche se Sam doveva confrontarsi con mezzi più
professionali, era comunque impreciso, sbadato, perennemente ubriaco
e aveva scarsa memoria. Inoltre era anche miope.
“Fuori
fuoco Sam!” gli urlava qualche volta con gentilezza il nostro B.
Durante
il pomeriggio del cinque giugno del 1983, il piccoletto annunciò a
B. che ci sarebbe stata una festa speciale, con musica swing e il suo
'Re' presente, Benny Goodman, il suo clarinetto e una piccola
orchestra improvvisata al seguito.
B.,
incredulo, e questa volta molto scettico nei confronti della notizia,
quella sera avrebbe dovuto impersonare, per l'ennesima volta, il
ruolo di Napoleone. Era quello che lo faceva scopare di più. Inoltre
entrambi non erano delle pertiche e con gli anni B. aveva studiato
abbastanza il suo carattere, grazie soprattutto al film muto di Abel
Gance.
Una
giovane costumista di Napoli gli aveva preparato molti anni prima un
abito con cappello di feltro a due punte abbassato sulla fronte e
sulla nuca, giacca nera a coda di rondine tagliata sui fianchi,
stivali di pelle a metà polpaccio e calzoni bianchi aderenti. B.
teneva spesso la mano sinistra infilata nel panciotto. La donna
veniva ogni volta per vestirlo e truccarlo.
La
notte tra il cinque e il sei giugno fu una notte indimenticabile:
'Napoleone' non aveva mai visto tante persone insieme dentro quel
palazzo. Già ad inizio serata uomini e donne bevevano bottiglie di
vino coricati sul prato, al chiaro di luna di una lampada bianca,
quasi pronti per le fatiche dell'amore. Come sempre nessuno degli
ospiti poteva spingersi oltre il quarto-quinto piano: il terzo era
ancora semi-deserto e la grande confusione veniva dalla sala da ballo
dove B., appoggiato al bancone, beveva cognac, recitava la sua parte,
parlando in lingua italiana, ma con accento corso (così almeno
credeva, grazie a qualche lezione privata). Ascoltava quella musica
sublime, avendo la certezza che quel clarinetto non poteva essere
suonato dal vero Benny Goodman, ma da una sua talentuosa
controfigura.
“Tanto
è tutto finto qui dentro!” pensò sorridendo.
Però
la gente era talmente accalcata verso il piccolo palcoscenico, che
non riuscì mai a confutare questa sua teoria.
D'improvviso,
nel pieno del delirio, apparve Sam, completamente ubriaco.
“Signor
B. vieni, ho una cosa!” disse lui agitato.
“Ma
che ci fai qui, se ti trova il piccoletto sono guai!”
Infatti
i membri del clan del palazzo non potevano partecipare alle feste,
poiché lavoravano al bar, oppure davano una mano in cucina. Inoltre
nessun invitato poteva usare l'ascensore interno; c'erano una decina
di buttafuori (più o meno gli stessi da anni), che giravano per la
casa. Tre di loro sostavano davanti alla porta dell'ascensore del
primo-secondo piano, del terzo e del quarto-quinto piano.
“Tranquillo,
io sono a controllare esto piano e sopra ci aspetta una bella
sorpresa!”
I
due erano diventati amici, stravolgendo in parte la regola secondo
cui non bisognava mai parlare di sé, delle proprie origini, dei
propri sogni. B. più che altro lo ascoltava, perché su di sé non
raccontò nulla, tranne che stesse bene in quella casa e che avrebbe
voluto vivere per sempre in quel cinema. Discutevano sulle pellicole,
a volte litigavano pure. Lui era argentino, di Buenos Aires, e un
giorno avrebbe voluto tornare dalla sua famiglia, poiché la sentiva
solo per telefono.
“Magari
apriamo un piccolo cinema io, mio fratello Mike e te, nelle zone più
povere!” gli diceva spesso Sam.
Presero
l'ascensore, poi lasciarono aperta la porta per bloccarlo. Giunsero
nella sala dove ad attenderli, sedute sulle poltroncine, c'erano due
bellissime ragazze nere, molto alte, bionde, in minigonna, ubriache,
che parlavano discretamente l'italiano.
“Sono
due modelle che lavorano a Milano, pero sono di New York! Capisci?”
“Ciao
ragazze, qui non si fuma!”
“Ehi,
tranquillo Napoleone!” disse una, facendo ridere l'altra.
B.
si sentiva a casa sua, lì non aveva mai portato nessuna, era
proibito, anche se qualche volta gli sarebbe piaciuto; e la sua
recita in maschera non serviva più, così si tolse il cappello.
“Smettila
amigo! Fumiamoci una bella canna di erba, poi le signorine vogliono
divertirsi sai? Facciamo vedere un pezzo di un film bello
divertente!”
Il
film era Blues
Brothers. Sam
aveva alcune bottiglie di birra nascoste nella sua cabina e le offrì.
Dopo dieci minuti salì subito a fermare il proiettore, poiché B.
stava già scopando, mentre l'altra aspettava Sam a gambe all'aria.
Andarono
avanti per tutta la notte, in quella sala, fecero sesso, scambiandosi
le ragazze, su tutte le poltroncine, per terra, sotto lo schermo
bianco.
Poi,
verso il mattino, andarono nella stanza di B. per assistere
all'aurora attraverso la grande vetrata, ma le due ragazze si
addormentarono subito nel letto, abbracciate l'una con l'altra. Sam
vaneggiava, emetteva solo più suoni, B. un po' più lucido - aveva
bevuto solo qualche cognac, una birra e non aveva fumato - vide nel
palazzo di fronte, dalla finestra di un appartamento dell'ottavo
piano, un qualcosa di strano che usciva, forse uno sciame d'api. Non
si capiva bene.
“Guarda
Sam”
Lo
tirò su.
“Cosa?”
E
cadde in terra. B. non aveva un binocolo. La serranda di quella
finestra senza balcone era alzata solo a metà, e da lì continuavano
a venire fuori, librandosi verso l'alto, oltre il tetto, ogni pochi
secondi, come un respiro dalla bocca di una persona che russava, un
qualcosa simile a migliaia di insetti, api o piccolissimi uccelli.
Sam
si era già addormentato. Anche B. aveva sonno e così lo seguì.
Il
pomeriggio seguente i quattro si svegliarono più o meno nello stesso
momento. Le due donne andarono in bagno, poi Sam, scuro in volto,
abbracciò forte B., prima di liberare la porta dell'ascensore tenuta
aperta per ore grazie ad uno spesso libro biografico su Alfred
Hitchcock.
I
tre scesero giù, mentre lui tornò in camera e chiuse le tende. Si
buttò nel letto. Era ancora vestito da Napoleone, a parte il
cappello di feltro con le due punte. Grattandosi il petto, trovò una
piccola foglia verde. Poi si riaddormentò subito.
“Svegliati!
Svegliati!” senza urlare, il piccoletto, lo strattonava forte.
“Che
c'è?” disse B., ancora assonnato.
“Lei
ti vuole giù, al primo piano, immediatamente!”
“Lei
chi?”
“Ida
Lupino!”
Scesero
al primo piano, quello dove c'era il piccolo parco di plastica. La
Signorina T. lo attendeva sdraiata a testa in su, sotto un salice
piangente.
In
quel posto la luce simulava un tramonto, ma era incerto se fuori
fosse pomeriggio, mattino, notte o davvero l'ora del tramonto.
“Mio
caro amico, finalmente insieme, qui! Non vieni mai!”
Era
vestita con un abito di seta color blu scuro, lungo fino alle
caviglie, che le lasciava interamente scoperte le braccia, un po'
grassottelle. Lui si coricò a testa in giù, e lo stesso fece al suo
fianco Johnny.
“Mi
dispiace, ma io non la voglio disturbare, questo è il suo posto
preferito, immagino!”
“Si,
ma è aperto a tutti, come ben sai. E quanti amori nascono proprio
quaggiù e non al terzo piano o nella sala da ballo. Qui la gente
viene per baciarsi! Che romantico!”
Si
alzò un attimo, con fatica, e staccò un ramoscello del salice.
Tornò a coricarsi e continuò a parlare:
“Tu
invece preferisci masturbarti al cinema lo so, però l'altra notte
eravate in quattro a farlo, lo so!”
D'improvviso
Johnny gli saltò sulla schiena, tenendogli ferme entrambe le
braccia:
“Te
le spezzo se ti muovi”
La
donna tolse le foglie dal ramoscello, che così divenne una frusta
sottile. Gli abbassò a fatica quei pantaloni bianchi, sollevò la
giacca nera, mise il suo corpo sulle gambe di B. all'altezza delle
ginocchia e, una volta scoperto il suo culo, gli diede una forte
frustata.
“Ahiii,
ferma!”
“Non
sei stato mai preso a cinghiate o a frustate in vita tua? Beh..c'è
sempre una prima volta, anche a quarant'anni..!”
Gliene
diede un'altra ancora più forte.
“Avevamo
fatto un patto! Nessuno poteva salire in quel piano, nessuno, a parte
noi interni!”
“Fermi
vi prego! Eravamo ubriachi! Alla festa c'era troppa gente e allora io
e Sam siamo saliti, anche un po' per respirare!”
La
donna lo frustò per una ventina di volte di seguito, poi si fermò.
“Va
bene così, lascialo Johnny! E tu tirati su i pantaloni!”
B.
aveva male e pianse nell'erba senza odore.
“Sappiamo
che non è stata una tua idea, anche se il tuo proiezionista ha detto
che tu lo hai obbligato e che lui non voleva salire. Io invece credo
un'altra cosa, che sia stato proprio Sam a convincerti, lo so, lo
sappiamo! Comunque ora è tutto risolto!”
“In
che senso? Dov'è Sam?” chiese B.
“Vi
siete persi un grande concerto: Benny è stato caro a venire a
suonare per noi!”
“E
Sam?”
“Sam
è tornato in Argentina, come sognava da tempo. Beh, ha lasciato qui
qualche dente, ma credo che la famiglia lo riconoscerà senza fatica”
“E
le ragazze?” chiese B. rialzandosi.
“Quali
ragazze?” disse la donna.
Allora
intervenne il piccoletto:
“Quali
ragazze? Non ricordo, di che stiamo parlando?”
“Sei
perdonato, non è successo niente, puoi tornare al tuo cinema! Domani
avrai un nuovo proiezionista, si chiama Mike, te lo ricordi? E' qui
per scusarsi per la cattiva condotta del fratellino. Oltretutto è
diventato un mago: pensa che in Svizzera è il numero uno! E' un uomo
che studia, proprio come te, che si aggiorna, sperimenta e cerca
sempre nuove strade per migliorare l'immagine e il suono. Ci farà
spendere milioni di lire, ma ne vale la pena!”
In
un momento B. era tornato di buon umore, pensava solo al cinema, ed
era contento così. Poi aggiunse:
“Grazie.
Però da ora in avanti vorrei evitare di partecipare alle feste,
perché non mi sento più...”
“Giovane?”
lo interruppe la donna.
“No,
mi piacciono le feste che organizzate, per me sono arte pura! E
travestirmi e recitare mi diverte molto, e imparo sempre, però mi
fanno perdere troppo tempo ed io vorrei vedere più film ancora.”
“E
le donne? Come faranno senza di te?” chiese la donna, mentre si
accendeva una sigaretta.
“A
me basta che mi facciate incontrare una donna ogni tanto, così..”
“Così..così..come..intendi
una puttana, una a pagamento? E con quali soldi? Noi non facciamo
queste cose! Johnny, io sono scandalizzata, che dice questo qui?
Davanti ad una Signora poi, mi ha forse preso per una matrona di
bordello?”
“Chiedi
scusa! Subito!” disse il piccoletto.
“Scusi
davvero, io..” disse B.
“Ah..ah..testa
di cavolo! Scherzo! Ah..ah.. Mi fai ridere, dici sempre qualcosa che
mi diverte! Hai un talento comico che nemmeno sai di avere! Comunque
ogni tuo desiderio sarà realizzato: chiuditi pure in quel bellissimo
cinema, tu che hai la forza di farlo, e non sai quanto ti invidio!”
B.
se ne andò. In tutto questa assurda conversazione si era accorto di
un dettaglio di non poco conto: entrambi avevano la fede al dito.
Forse si erano sposati veramente?
Con
il ritorno di Mike, B. riusciva a vedere fino a cinque pellicole al
giorno. L'argentino era un perfezionista, amava il cinema in maniera
opposta al fratello: curava ogni dettaglio, non sbagliava mai una
proiezione, controllava anche il telone, lo puliva se c'era un poco
di polvere, quasi ogni giorno. Una volta aveva interrotto una
proiezione. Si era accorto che una pizza era leggermente rovinata e
l'immagine rimaneva sgranata da una parte.
“Vai
pure avanti! Il film si vede benissimo!” gli urlò B., ma lui non
ne volle sapere. Anche l'audio era importante. Con gli anni passarono
da due a quattro casse. Al nostro sarebbe bastato anche il vecchio
cinemino sedici millimetri o addirittura le proiezioni in otto
millimetri che faceva autonomamente nella sua camera durante il
periodo in cui visse al sesto piano; anzi gli piaceva proprio
quell'imperfezione di certi film proiettati e che ritrovava, un
tempo, nei più piccoli cinematografi della città.
Tra
Mike e B. c'era reciproco rispetto, ma totale distacco. Inoltre B.
sapeva che non avrebbe potuto fidarsi né di lui né di nessun altro
dentro quella casa, quindi la storia delle farfalle che vedeva dalla
vetrata della sua stanza quasi tutti i giorni a partire da quel sei
giugno 1983, doveva tenersela stretta stretta per sé. Sarebbe stato
un rischio parlarne con la Signora, con Johnny o Mike, e con le donne
e gli uomini che lavoravano lì: chiedere, domandare “anche tu vedi
quello che vedo io?”. Lo avrebbero preso per matto: troppi anni
rinchiuso in quel palazzo, troppi film, sessant'anni di età, i primi
sintomi della vecchiaia. Anche i suoi compagni di casa non erano
proprio dei ragazzini, eppure erano rimasti sempre uguali: la donna,
almeno ottantenne, continuava a vivere a pieno le feste. Non aveva
neanche più la stampella o un bastone, anche se era quasi cieca.
Preferiva ascoltare la musica. Fumava, beveva e trascorreva più
tempo al piano-bordello o sui prati del primo anziché nel suo
appartamento.
Johhny
andava tutti i giorni a giocare a 'golf' e qualche volta macchiava di
sangue le poltroncine del cinema. Oramai voleva vedere solo più
Spartacus
e nient'altro, almeno due volte al mese.
E
così B. rimaneva solo dinanzi a un tale inspiegabile spettacolo, al
quale poteva assistere non solo dalla vetrata, ma anche da altre
finestre e balconi dei vari piani, purché fossero frontali o quasi,
a quel palazzo di otto piani (doveva comunque mascherarsi, la regola
era rimasta, anche se le rughe, la schiena un po' curva, i capelli
bianchi ai lati, erano già un buon travestimento, e nessuno del suo
passato nella vita fuori, sempre che qualcuno fosse ancora vivo, lo
avrebbe più riconosciuto).
Erano
farfalle quelle che fuoriuscivano da quella finestra dell'ottavo
piano e non api, piccoli uccelli, mosche. Farfalle di ogni colore.
Forse avevano delle sfumature che però B. non poteva cogliere,
perché esse si perdevano quasi sempre verso il cielo, senza mai
avvicinarsi al suo palazzo e ai suoi occhi.
Potevano
librarsi a migliaia, anche durante il mattino o nel pomeriggio, come
la sera o la notte, e in qualsiasi stagione, anche con la neve e il
freddo. D'estate, in agosto, improvvisamente sparivano, ma alla fine
del mese ritornavano sempre.
Quell'appartamento
era abitato. Le luci si accendevano e si spegnevano, nella stanza a
destra, che portava ad un piccolo balcone vuoto, e nella stanza a
sinistra. Sul balcone non era mai uscito nessuno da oltre vent'anni.
Le serrande venivano alzate ed abbassate regolarmente. Le tende color
arancio erano sempre tirate. Le farfalle uscivano solo dalla finestra
a sinistra del balcone: venivano sputate fuori. La serranda non era
mai abbassata del tutto, neanche durante la notte. Probabilmente
veniva lasciata leggermente aperta, anche in pieno inverno, quando
c'era il gelo.
Ma
B. si domandava come fosse possibile che Johnny e (probabile)
consorte, oppure Mike stesso, che aveva una vista come un'aquila, non
si fossero accorti di questo strano evento. E le persone che
abitavano in quel palazzo? E gli altri abitanti della zona? E i
negozianti? Certo se B. avesse chiesto ad uno dei festaioli, questo
gli avrebbe risposto subito di sì, che era tutto vero, dandogli poi
una pacca sulla spalla. Fine. Comunque lui non partecipava più a
questi party. Ogni tanto Johnny gli organizzava un incontro sessuale
con una giovane donna, al piano-bordello, ma lei era sempre bendata.
“O
tu ti trucchi e ti travesti o noi bendiamo loro, chiaro?” gli disse
il piccoletto, una sola volta.
E
da allora fece sempre così. Non poteva più cambiare, non poteva
chiedere a nessuno. Voleva vivere ancora a lungo e se avessero
sospettato qualunque cosa, lo avrebbero ucciso. Lui doveva farsi gli
affari suoi e non occuparsi né del mondo reale né degli strani giri
finanziari del clan: guardare film, questo era il suo compito. E il
cinema lo amava sempre, come quando era ragazzino. La macchina non si
fermava mai, uscivano di continuo nuovi film da gustare, oltre ai
vecchi film che mai si stancava di vedere. Il suo destino era quello
di morire dentro quel cinematografo, come Moliére sul palcoscenico,
anche se B. non era un artista, ma solamente uno spettatore
passionale e fanatico che aveva una grande paura di vivere la realtà
fuori da quel palazzo.
Una
mattina d'autunno del 2011 la sua vita ebbe decisamente una svolta.
Non aveva mai pensato al futuro, se non al prossimo film da vedere.
Il giorno prima si era fatto gli occhi con due pellicole di Kitano
Takeshi, poi L'arca
russa
di Sokurov, La
grande guerra
di Monicelli, con Sordi, Gassman, la Mangano, Romolo Valli e in più
aveva visto cinque cortometraggi islandesi.
Mike
gli aveva promesso che avrebbe lavorato ancora due anni, anche se un
sostituto era già pronto, uno della sua famiglia argentina, un
nipote abbastanza giovane che amava più la pellicola che il digitale
e l'alta definizione.
Era
l'alba quando B. venne svegliato da una farfalla azzurra che quasi
gli baciò la bocca. Era entrata dalla fessura in alto della vetrata,
lasciata aperta nonostante fuori facesse freddo. Stropicciò gli
occhi, mentre la farfalla si allontanò verso altre stanze. Dalla
vetrata vide migliaia e migliaia di altre farfalle, tutte di colori e
dimensioni diverse. Mai si erano avvicinate al palazzo, perché
sempre si disperdevano lontano, verso il cielo, mentre in quel
momento era in atto una vera invasione. I palazzi erano circondati da
farfalle. Qualcuno passava e nemmeno se ne accorgeva.
Ne
entrarono altre. B. apprezzava le farfalle, le considerava delle
creature meravigliose, ma le conosceva poco. Non aveva mai letto
manuali o articoli sulla loro natura. Sull'argomento avrebbe potuto
chiedere ai piani bassi, ma Johnny e Signora si sarebbero
insospettiti, poiché lui leggeva solo libri sul cinema.
Ora
l'intero piano era occupato da farfalle: una rossa con macchie
bianche e angolose ali aperte, una con le ali color cioccolata,
un'altra gigante rispetto alle altre, con ali blu marino chiaro
tranne alcune ampie fasce sulle ali anteriori, la prima delle quali,
nera, l'altra arancione. Quest'ultima inseguiva le altre farfalle,
strofinando le ali l'una contro le altre. Battagliavano, una
completamente verde sembrava una foglia, altre ancora, ognuna diversa
dall'altra danzavano nell'aria, mentre B. rimaneva paralizzato nel
suo letto.
Solo
dopo qualche minuto si alzò e si vestì. La sala cinematografica era
piena di farfalle. Cercò di chiamare l'ascensore, ma era occupato:
giunse al suo piano una donna, un'assistente della Signora:
“Venga
giù, al piano di sotto!” gli disse un po' allarmata.
“Al
piano di sotto?”
Era
la prima volta che veniva convocato in quel luogo dalla Signora.
Finalmente avrebbe visto quel misterioso appartamento? Le farfalle
erano ovunque, anche in ascensore. Giunsero al piano. La donna aprì
la porta bianca della misteriosa ala di quell'appartamento e lo
lasciò entrare da solo, chiudendo immediatamente la porta. Era
dentro. Anche qui non mancavano le farfalle, anche se il buio pesto
nascondeva la loro bellezza.
“Avanti
caro!Avanti!Avanti!”
Era
la voce squillante della Signora T.
Percorse
brevemente un corridoio, alle cui pareti erano appesi decine e decine
di ritratti fatti a matita.
“Entra
pure nella stanza!”
Lui
entrò, ancora nel buio. Le tende erano tirate. Si intravedeva la
donna seduta su una poltrona molto alta. L'aria era satura di
profumo, di tanti profumi mischiati all'odore di sigaretta. Alla
destra della Signora c'era un letto matrimoniale con lenzuola bianche
e un grande armadio di legno scuro. In terra c'erano solo tappeti ben
distesi. Anche le pareti della stanza erano riempite di immagini di
volti umani.
Le
farfalle lambivano i corpi di entrambi. Lui ogni tanto doveva
ripararsi gli occhi.
“Siedi
pure” disse lei.
C'era
una sedia a dondolo, messa frontalmente alla poltrona.
“Ti
ho chiamato perché oggi è un grande giorno!”
“Mi
sembra proprio di sì!” rispose lui.
“Ho
una grande notizia e volevo dartela io direttamente!”
“L'ascolto
con immenso piacere!”
“Questa
sera io e Johnny abbiamo organizzato la più grande festa della
nostra storia: questa sera suonerà per noi e pochi altri amici
intimi, senti..senti.. non ci crederai mai: Chuck Berry! Hai capito?
Chuck Berry!”
B.
rimase di pietra. Non disse nulla: la casa, il quartiere, forse
l'intera città erano invase, in pieno autunno, da farfalle d'ogni
forma e colore, che provenivano da quella finestra all'ottavo piano
del palazzo di fronte al loro.
E
Chuck Berry? Con tutto rispetto, ma cosa c'entrava lui con quello che
stava accadendo, pensò B.
“Io
non capisco..” disse lui, subito interrotto dalla vecchia donna:
“Lo
so, anche io pensavo che fosse morto o gravemente malato, invece
stasera suonerà, da solo con la sua chitarra, per me e per pochi
intimi. Ovviamente non puoi mancare e questa volta potrai venire
senza travestimenti. Nessuno degli ospiti ti riconoscerà e..”
“Io
non capisco! Pensavo mi avesse fatto chiamare per qualcos'altro, no?”
disse lui un po' arrabbiato.
“Sì,
hai ragione. Ti ho chiamato qui anche per un'altra cosa. Credo sia
giunto il momento di raccontarti brevemente la storia della mia vita.
Ora posso fidarmi, siamo vecchi, forse più tu di me, quindi..”
B.
si rilassò. Le farfalle svolazzavano ovunque. La donna ne aveva
alcune appoggiate sulle gambe.
“Mio
caro, qui siamo nel mio rifugio, l'appartamento dei ricordi. Tutte le
immagini che vedi rappresentano i miei cari dalla metà del
Settecento ed io sono l'ultima ed unica discendente di una famiglia
molto benestante”.
Fece
una pausa, poi ricominciò:
“Sarò
molto sintetica, come al solito, perché amo l'essenzialità! Come ti
ho già detto una volta io sono nata a Parigi, da una famiglia di
imprenditori. Mio nonno paterno, per esempio, era il più
intraprendente e il più ricco: produceva profumi e aveva aperto una
decina di negozi nella 'Ville Lumiére'. Lui era parigino da diverse
generazioni. Il suo unico figlio, mio padre, aveva sposato mia madre,
una maestra ligure, poche settimane dopo averla conosciuta per caso
per le strade di Genova. Nel 1925 sono nata io e ho vissuto fino al
1937 tra Parigi e una bellissima casa poco lontano, in campagna. A
dodici anni ho perso i genitori in uno stupido incidente stradale,
così mio nonno mi mandò in Italia, in un collegio di suore, sperso
tra le colline torinesi. Nel giro di pochi anni, purtroppo, morirono
tutti i membri della famiglia, chi di vecchiaia chi di malattie
incurabili. Io rimasi l'unica erede, e una volta compiuti i ventuno
anni di età, ho cominciato a fare soldi investendo nell'edilizia,
diventando, come mi pare tu abbia capito, sempre più forte e ricca.
Praticamente facevo costruire, affittavo e vendevo singoli
appartamenti o interi palazzi”.
“E
Johnny?” chiese B.
“Lui
ha undici anni meno di me. L'ho adottato pagando un sacco di soldi e
facendo la cosa per vie traverse, durante un mio viaggio in Giappone,
nell'isola di Hokkaido, in un villaggio vicino a Sapporo. Ero con un
amichetto di allora di cui non ricordo nemmeno il nome, un siciliano
molto simpatico. Siamo nel 1949. Johnny era un orfanello che cercò
di derubarci nella villa in cui eravamo ospiti. Lo trovai molto
intelligente, mi impietosii per la sua condizione di estrema
solitudine e povertà, così lo portai con me in Italia. L'ho fatto
studiare privatamente, lingua italiana, francese e inglese, e poi
economia e filosofia. Per me era come un fratello minore o un figlio.
Verso la fine degli anni Cinquanta ci siamo trasferiti qui. Lui era
ed è un genio, con il fiuto per gli affari e ha anche un dono
particolare per le cose pratiche, molto più di me, direi. E' un tipo
serio, uno che si fa rispettare!”
“E
la sua malattia? Perché lei stava su una sedia a rotelle?”
“Ah..
quella è una storia banale: un amante, durante l'estate del
cinquantasei o del cinquantacinque, in un albergo di Nizza, dopo
essersi ubriacato, mi ha pestato a sangue, rompendomi le ginocchia e
le caviglie con una mazza da baseball, dopo che gli avevo detto che
ero poligama! Johnny gli ha sparato in fronte dopo poche ore e poi ha
fatto a pezzi il suo corpo. Peccato, era un uomo del Sud, molto molto
affascinante e colto! Peccato davvero!”
“Ed
ora lei e Johnny siete sposati?”
“Sì!
Subito dopo il periodo in cui abbiamo restaurato il palazzo io e lui
ci siamo sposati per interessi: nel caso dovessi morire prima io, a
lui andrebbe tutto”
“Quindi
non dormite insieme?”
“Ma
che cazzo dici, lui è asessuato ed io sono una grande troia, altro
che dormire insieme!”
La
donna si grattò il naso e aggiunse:
“Sei
contento? Fine della storia, ora sai tutto! Puoi pure tornare al tuo
cinematografo! Ci vediamo stasera alle otto per la cena, mentre per
il concerto..”
Ma
B. la interruppe subito:
“Ma
di cosa sta parlando! Fine della storia? Lei mi ha riassunto in poche
frasi la sua vita, sempre se mi ha raccontato il vero, ma non ha
accennato alla storia delle farfalle!”
“Quale
storia delle farfalle?”
“Quali
farfalle? Ma non si vede attorno? La casa è invasa, e anche fuori,
la città intera. Ha guardato fuori?”
“E
a te cosa te ne frega di ciò che sta fuori? Cos'è questa novità! E
poi io ci vedo pochissimo.”
B.
si alzò in piedi di scatto:
“Ma
la casa è piena di farfalle! Ed io so da dove provengono! Sono anni
che vedevo uscire qualcosa da quella finestra..”
“Siedi,
vecchia ciabatta!” urlo lei.
“No,
non mi siedo brutta stronza! Anche se sei cieca, non puoi non
sentirle! Questa stanza è piena di farfalle!”
“Johhny!Johnny!Johnny!”
urlò lei.
“Io
me ne vado!”
“Johnny!Johnny!”
B.
fuggì dalla stanza. Cercò di sfondare la porta d'uscita verso le
scale interne: era l'unico modo per uscire. Provò anche con l'altra
porta, ma non ci fu niente da fare, erano chiuse bene.
Da
lontano si sentiva la voce della vecchia Signora strillare: “Fermalo,
vuole fuggire! Non sa quello che fa!”
B.
prese l'ascensore, che fortunatamente era già al piano. Vide il
piccoletto con la coda dell'occhio, mezzo barcollante, disturbato
dalle farfalle, con una mazza da golf in mano lunga quanto il suo
corpo.
B.
scese giù fino al primo piano. Lì poteva tentare solo due cose:
sfondare le due porte o buttarsi dal balcone. Il piccoletto però
stava già entrando da una di queste, così il vecchio B. ruppe il
vetro di una finestra e si affacciò, pronto a lanciarsi.
“Fermati
non andare!” gli urlò Johnny.
“Ti
spiegherò tutto, ti racconterò la storia della ragazza che sputa
le farfalle dalla bocca. Però dovrai fare uno sforzo e credermi,
perché quello che ti sto per dire è una storia vera e non
un'invenzione. D'altronde lo vedi tu stesso in che situazione ci
troviamo, le vedi anche tu le farfalle, no?”
B.
rimase in piedi sulla ringhiera, in equilibrio, dando le spalle al
piccoletto, che cominciò il racconto:
“All'inizio
della primavera del 1983, un amico di un nostro amico, chiamiamolo
Mister X, un tipo solitario, sulla quarantina, un po' cupo, era
venuto ad una festa delle nostre e ci propose di collaborare ad un
affare: dovevamo affittare a lui e ad una ragazza un appartamento
purché fosse all'ultimo piano e in una zona nuova della città. Ci
disse che avrebbe pagato anche venti volte il prezzo normale. Inoltre
ci chiese protezione. La ragazza era molto giovane, aveva la pelle
olivastra, gli occhi neri, lo sguardo intenso, il viso nascosto da
una maschera. Non parlava mai, era muta. Mister X diceva che l'aveva
conosciuta durante un viaggio per affari, in Indonesia, poco fuori
Giakarta, in un villaggio poverissimo. Faceva la guaritrice dentro
una capanna. Molte persone andavano, pagando poco o nulla,
appoggiavano la propria bocca sulla mammella della sua tetta destra,
e chiudendo gli occhi, potevano vedere per alcuni momenti, le
immagini di un luogo bellissimo e misterioso, finché lei dalla bocca
non sputava fuori delle bellissime farfalle e tutto finiva. Lui
credeva fosse tutto un trucco, comunque provò una volta e vide
qualche cosa, gli passò anche un dolore al piede, ma era convinto
che si trattasse di semplice autosuggestione.
Le
farfalle le uscivano dalla bocca, a decine, le sputava tossendo, e
dopo soffriva, aveva delle brevissime convulsioni. Secondo Mister X
era una recita, un trucco fatto ad arte. Comunque decise di fermarsi
ancora un mese, per organizzare il suo rapimento e portarla in
Italia, in una casa di sua proprietà, nella Val Pellice. Aveva
fiutato un grosso affare. La ragazza era muta, ma aveva con sé un
vecchio quaderno scritto a mano, in lingua inglese, che riassumeva il
mondo dal quale proveniva. Mister X riuscì a farlo interpretare e
autenticare da uno storico londinese: la giovane, senza un nome,
aveva diecimila anni ed era una specie di eterna ragazza che
proveniva da un mondo perduto con montagne alte fino a seimila metri,
valli e spiagge bellissime e spaziose. Un'isola situata vicino
all'attuale Papua Nuova Guinea, in cui vivevano uomini e donne in
perfetta armonia, e con numerose farfalle d'ogni forma e colore,
considerate divinità. Un brutto giorno però una delle montagne più
alte e affascinanti si trasformò in un terribile vulcano, che in
poche ore eruttò, e poi scoppiò facendo scomparire l'isola. La
ragazza era sulla spiaggia da sola, pronta a fuggire con una piccola
barca attraverso l'Oceano, e le farfalle per salvarsi entrarono a
centinaia di migliaia dentro la sua bocca. Non si sa come, forse
grazie alle farfalle intrappolate nel suo corpo che le diedero la
forza necessaria, sopravvisse alla catastrofe, divenendo così una
piccola divinità, unica, senza più tempo. Un'eterna fanciulla.
Portava dentro di sé il ricordo dell'isola, dei suoi cari, di un
mondo che non esisteva più. Viaggiò dall'Australia all'Indonesia,
nascosta all'umanità, fino a quando non trovò qualcuno che la
proteggesse. Era una ragazza molto bella, e così un giorno un uomo
le saltò addosso baciandola per tutto il corpo fino a succhiarle la
mammella, quando vide a frammenti quelle immagini lontane, e dalla
bocca della ragazza fuoriuscire delle farfalle. Si spaventò, poi
decise di aiutarla. Lei rimase per millenni in quel villaggio fuori
Giakarta; non aveva bisogno di cibo, di acqua, non invecchiava mai,
chiusa dentro quella capanna, protetta dalla sua gente. Il suo viso
sembrava stupendo, anche se nascosto da una maschera. Veniva solo
sfiorata dalle persone che volevano guarire o stare meglio anche solo
per pochi momenti. La gente aveva ammirazione, ma anche paura e
nessuno tentò mai di violarla. Era considerata una divinità
terrestre. Qualcuno tentò di scrivere un resoconto su questa storia.
Forse un esploratore inglese, oltre duecento anni fa, cercò di
appuntare la storia della ragazza che sputava farfalle. A me tutto
ciò venne raccontato da Mister X, durante quella festa del 1983: lui
era uno speculatore, non gli credevo, comunque io e la Signora gli
affittammo l'appartamento ad un prezzo folle. In cambio dovevamo
garantirgli la protezione, poiché la zona era nostra. Lui trovava i
clienti, gente molto ricca, qualcuno passava anche dalle nostre feste
alle quali tu avevi smesso di partecipare. Il tutto doveva rimanere
una cosa di nicchia. Un giorno spinti dalla curiosità ci andammo
anche io e la Signora. Credevo si trattasse di suggestione, perché
conoscevo un po' la storia, comunque vidi qualche cosa di strano, una
spiaggia, tante farfalle e forse qualche essere umano che pescava.
Dalla bocca della ragazza, che aveva una maschera nera, uscirono due
o tre farfalle. Ne ricordo una di colore arancione. Le sputava,
tossendo, quasi le vomitava. Infatti erano bagnate di saliva.
All'inizio sembravano morte, ma poi, magicamente, dopo pochi attimi,
si sollevavano da terra e volavano via dalla finestra.
Mister
X la portava in Val Pellice nel mese di agosto, lontano da tutto e da
tutti, e lì non succedeva nulla. Lui amava fare passeggiate
solitarie, lei se ne stava in casa. Pensa che non dormiva mai! Il
libro di appunti raccontava poche cose, ma una di queste era di non
toglierle mai la maschera e di non violarla, perché il rischio
sarebbe stato la fine di tutto. Lei si sarebbe dissolta in milioni di
farfalle, mentre l'amatore sarebbe morto all'istante.
E
così, per ventisette anni, tutto filò liscio: un paio di clienti
tra il giorno e la notte. Noi gli regalammo la casa, ma pretendemmo
una percentuale sulle 'donazioni'. La gente usciva sollevata, nessuno
guariva da una grave malattia, però si sentiva un po' meglio,
diventava di buon umore. Forse perché vedeva quel mondo felice
dentro di lei. Inoltre assistevi ad un altro spettacolo, forse
doloroso per lei, ma esteticamente unico e affascinante: le farfalle
sputate dalla sua bocca. Pensa che una volta mi fece passare un
leggero dolore alla spalla. Pazzesco! La Signora credeva fosse tutto
una montatura, a partire dal quaderno di appunti. Ci andava ogni
tanto, una volta al mese, per lo spettacolo in sé, e non per i suoi
problemi alla vista o alle gambe. Io avevo provato ad informarmi
meglio su quest'uomo, ma non riuscii a saperne molto; anche chi lo
presentò a noi, non era proprio un suo amico, ma un amico di un suo
amico.
Infine
l'altra sera venne a trovarci invaso dall'ansia: ci disse che voleva
toglierle la maschera, vedere il suo viso e fare l'amore con lei,
perché nella sua lunga vita non si era mai innamorato, e aveva fatto
sesso solo con le puttane o con donne per le quali non provava
niente. Lui sentiva di amare questa misteriosa e silente creatura.
Sono certo che questa notte il vecchio abbia esaudito il suo
desiderio, ecco perché c'é tutto questo casino! Ora credo anche io
che questa storia sia vera!”
B.
rimase in perfetto equilibrio sulla ringhiera per tutto il tempo,
ascoltando con attenzione. Infine disse:
“Grazie,
per questa bella storia!”
Aveva
gli occhi chiusi per non essere accecato dalle farfalle. Nel
frattempo giunsero al piano anche la Signora T. e Mike, ma lui si
buttò giù facendo un volo di qualche metro. Non si fece nulla, era
come se le farfalle lo avessero accompagnato in questo suo salto,
frenandone del tutto la caduta. E così rimase in piedi. Johnny si
affacciò dal balconcino, gli lanciò la mazza da golf, che
lentamente finì a terra. Poi gli urlò, proprio lui che mai aveva
alzato la voce:
“Non
andare..non andare!”
Per
la strada non si vedeva un essere umano. Era in atto una tempesta di
farfalle. I negozi era chiusi. Non passavano automobili. Si fermò di
fronte al portone di quel palazzo, che poi era identico a quello in
cui aveva sempre vissuto. Suonò a caso qualche campanello, ma
nessuno rispose. Non vedeva più niente. Fortunatamente la porta
d'ingresso non era chiusa, ma appoggiata. Entrò dentro. Il portone,
la casa della custode, il tappeto, l'ascensore, le scale che
portavano agli appartamenti, tutto era identico all'ultima volta,
quando, a venticinque anni, B. aveva deciso di non uscire più dalla
dimora della Signora T.
L'ascensore
era occupato, come sempre. Prese le scale, con l'intento di salire
fino alla fine e scoprire la verità. Intanto le farfalle erano
completamente sparite. Al primo piano gli zerbini erano quelli di un
tempo e anche le targhette dei campanelli, i cognomi. Al quarto piano
c'era la porta di casa sua, della sua famiglia. Intanto l'ascensore
scendeva con due o tre persone dentro. Era forse tornato indietro di
quarant'anni? Salì ancora. Ritrovò le famose porte degli
appartamenti della Signorina T., fino all'ultimo piano. Le sue mani
erano improvvisamente tornate giovani come quelle di un ventenne. Si
toccò il viso, la pelle era liscia, i capelli c'erano, anche se era
un po' stempiato.
All'ottavo
piano, da una parte, la porta del cinemino, dall'altra quella della
ragazza che aveva incontrato quel giorno d'autunno del 1969. Suonò,
senza pensarci, con il cuore in gola. Dopo una brevissima attesa,
aprì la porta proprio lei, la ragazza diciottenne, con in testa
quella farfalla come fermaglio per i capelli. Aveva l'aria assonnata,
ma gli fece comunque un grande sorriso:
“Ciao,
ma che ci fai già qui? Non avevamo detto sabato pomeriggio?”
B.
si mise la mano sulla fronte. Ora aveva capito: era stato tutto un
sogno.
“Ma
che hai?” disse lei un po' preoccupata, poi aggiunse:
“Vuoi
entrare un attimo? Scusa, sono mezza addormentata!”
“No..no..!
Vestiti, usciamo a fare due passi ora! Ti va? E' una bella giornata!”
“Sì,
va bene.”
Non
era poi così convinta, ma si vestì lo stesso, in fretta.
B.
aspettò seduto sui luccicanti gradini. Scesero le scale a piedi,
perché l'ascensore non era disponibile. Al secondo piano B. lo vide
salire e gli parve di scorgere, dal vetro rettangolare della porta,
Johnny e la Signorina o Signora T., probabilmente seduta sulla sedia
a rotelle. (Era alta come l'uomo). La donna gli fece l'occhiolino,
mentre il piccoletto rimase impassibile. O almeno così parve a B.
Uscirono
dal palazzo. Era una bella giornata ventosa, un vento caldo
nonostante la stagione autunnale. Andarono verso il parco, poco
distante, e non tornarono a casa fino a sera.
FINE
(GENNAIO
2011 – APRILE 2015)