domenica 14 giugno 2015

GIO' E IL CARRELLO PER LA SPESA (VERSIONE 2015, DEFINITIVA)

La mattina del ventotto giugno del 1998 un robusto dodicenne - Giò era il suo nome - vide vicino ad un cassonetto dell'immondizia, in un angolo buio di una piccola strada della città ai piedi delle colline, un carrello della spesa.
Era uno di quelli che si trovavano nei grandi centri commerciali di periferia, con quattro piccole ruote girevoli, la resistente gabbia di metallo, il piccolo sedile per i bambini. Sulla barra dal quale solitamente lo si spinge in avanti e indietro, la scritta del supermercato era illeggibile; inoltre mancava del tutto la solita catena che legava un carrello ad un altro e dove si inseriva la moneta da cinquecento lire.
Era forse il modello di carrello da supermercato più grande in circolazione. Il ragazzo lo prese e lo portò via, spingendolo a fatica, perché le ruote erano un po' bloccate.
Abitava in una piccola villa a due piani nel punto più alto della collina; suo padre era il guardiano del parco dove una grande statua detta Il Faro della Vittoria dominava il paesaggio cittadino. L'unico modo per arrivare a casa era quello di prendere il pullman, ma Giò non aveva intenzione di separarsi dal suo nuovo amico - l'autista del pullman non l'avrebbe mai fatto salire con quel grosso carrello - così lo spinse con tenacia in salita per tutto il giorno, pensando fosse l'unica cosa da fare e che a nulla sarebbero servite le urla del padre :
Che fai co' sto coso? L'hai rubato? Riportalo subito dov'era!”
Anche la madre, maestra a scuola e a casa, lo avrebbe sgridato:
Riportalo indietro, nell'immondizia, oppure donalo a qualche negozio nel paese vicino!”
Giò, che aveva le gambe corte e non praticava nessuno sport, giunse a casa con tanta fatica – l'altitudine della collina era poco oltre i settecento metri – uno sforzo per lui impensabile. Prese pure le strade più complicate ma meno frequentate dalle automobili.
Nel tardo pomeriggio entrò nel minuscolo giardino di casa e nascose il carrello nel retro, dietro un cespuglio, di fronte alla finestra della sua stanzetta, che si trovava al piano terra.
A tavola, durante la cena, la luce del sole di un colore arancio fortissimo faticava ad entrare; la madre guardava il telegiornale, il padre, che aveva lavorato tutto il giorno nel parco, si sedette e disse al figlio:
Domani butti via quel coso” ma il ragazzo non rispose.
Il mattino seguente Giò prese il carrello con l'intenzione di nasconderlo in un altro luogo. Aveva deciso di pulire e sgrassare le ruote con dell'olio raffinato, in modo da renderle più scorrevoli. Nel retro di un ristorante vicino casa lavorò tutto il giorno. Il proprietario e i camerieri, che lo conoscevano bene, non gli chiesero nulla su cosa diavolo stesse facendo con quel carrello. Terminato il lavoro ci si mise dentro, dopo che per un'ora l'aveva fissato quasi incantato. Infine si addormentò come un bambino nella propria culla.
Al risveglio l'aria era più fresca, il vento muoveva i rami di una grande quercia e lui e il carrello rimasero immobili lì sotto. Doveva prendere una decisione, la cena si avvicinava; il nuovo amico aveva bisogno di un nascondiglio, oppure avrebbe potuto chiedere ai suoi genitori di tenerlo ancora per un po'. Ma gli mancava il coraggio. Inoltre non sapeva proprio come avrebbe potuto abbozzare un discorso con loro; il giovane non era certo un chiacchierone, spesso sbagliava i verbi, come avvenne una volta a scuola durante una interrogazione in grammatica italiana, quando tutta la classe rise di lui. Ma chissenefrega della scuola e della lingua italiana, pensò; ora è estate, per me e per il carrello della spesa!
Era quasi ora di cena, doveva tornare a casa e non ne aveva voglia. Durante tutto il caldo pomeriggio aveva pensato al luogo del possibile rifugio, magari provvisorio; spingendolo a mano per la strada principale trovò in una traversa, una stradina in discesa, tutta dritta, ben asfaltata, molto ripida, lunga un centinaio di metri, che terminava unicamente davanti al sontuoso cancello di una grande villa abbandonata. Di fronte a questo cancello arrugginito c'erano - male allineati - quattro bidoni dell'immondizia in disuso; più o meno al centro di questi - appoggiati - due materassi posti in orizzontale. Giò si gettò dentro il carrello e, senza esitare, si lanciò giù. Fu una corsa in discesa che durò qualche decina di secondi. Il carrello prese molta velocità solo negli ultimi venti metri; scorreva dritto, senza sbandare, e si schiantò frontalmente contro quei materassi sporchi.
Due piccioni grigi, appoggiati sui bidoni, volarono via. Giò teneva le mani strette ai due lati del carrello. Aveva il sedere leggermente sollevato. Respirava affannosamente. Il carrello non si era nemmeno ammaccato, e lui lo stesso, nessun colpo subìto, nessun graffio.
Aveva compiuto una piccola impresa. Non aveva preso né sassi né buche, anche se erano presenti in più punti della strada. Le ruote le aveva preparate bene, rendendole molto scorrevoli. Aveva mantenuto la posizione giusta e non aveva mosso di un solo millimetro il suo corpaccione che occupava giusto la metà dello spazio dentro il carrello. Ma ogni tentativo di spiegazione logica perdeva significato, poiché il ragazzino aveva agito d'istinto, ed era stato semplicemente molto fortunato. Appoggiò la testa contro la parte posteriore e fece un lungo respiro. Portava una maglietta color rosso, ora tutta bagnata dal sudore.
D'improvviso si alzò un forte vento. Doveva ritornare a casa, ma non ne aveva voglia. E poi il carrello sarebbe rimasto lì, da solo, di nuovo tra i rifiuti. Non aveva paura che qualcuno glielo portasse via, questo no, anche perché era una zona abbandonata (un vecchio cartello segnalava la strada come 'privata'). Nemmeno le giovani coppiette chiuse in auto la usavano per nascondersi: troppo ripida la strada, la risalita sarebbe stata più faticosa del loro amplesso.
Durante la cena il ragazzo non disse nulla. La televisione, ad alto volume, trasmetteva vecchi spezzoni di partite di calcio. Quella sera nessuno dei tre aprì bocca, anche se era una cosa abbastanza normale; il padre, visibilmente stanco, beveva un po' di vino rosso, mentre la madre sbucciava con cura la terza o la quarta mela. Poi andarono tutti a dormire, presto. Giò non vedeva l'ora di tornare dal suo carrello e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Ripensò alla discesa spericolata e a quanto lo avesse eccitato. Non aveva mai provato, nella sua breve esistenza, un'emozione così forte. Per la prima volta aveva trovato qualcosa che lo appassionasse veramente al punto tale da togliergli il sonno. A differenza dei suoi coetanei di dodici-tredici anni, non gli interessavano il calcio o altri sport. Rispetto a loro ascoltava altra musica, come il rock 'n' roll, poiché uno zio, che viveva a New York e diceva di avere due hotel, gli aveva regalato delle cassette quando era venuto a trovarli in collina. Inoltre gli aveva lasciato una raccolta di canzoni presenti nella colonna sonora del film American Graffiti. Giò seguiva anche il wrestling, ma nella sua stanza non aveva poster né di cantanti né di lottatori e comunque la madre non gli avrebbe permesso di insozzare la preziosa tappezzeria azzurra con quella cartaccia. I film li vedeva in televisione, quelli che capitavano: preferiva i film comici e quelli d'avventura, ma sentiva di non avere una fissa per un attore o un film in particolare.
Di sua spontanea volontà aveva letto solo qualcosa di Verne e un libro di Stevenson, gli autori preferiti dal padre, ma Giò li leggeva a fatica e raramente ne finiva uno. E alla classica domanda, “Allora, sentiamo un po': che lavoro vuoi fare da grande?”, fatta dalla maestra in quinta elementare, lui fu l'unico a non sapere cosa rispondere; e ancora una volta tutta la classe rise, compresa la giovane maestra, che poi aggiunse: “magari farai il custode di quel bellissimo parco dove c'è la statua con il faro no?”, che poi sarebbe stato più corretto dire 'guardiaparco'.
Stessa cosa per i primi innamoramenti. Non c'era una ragazzina che gli piacesse più di un'altra, e per nessuna aveva ancora sofferto. I suoi compagni di prima media cominciavano a mettersi insieme, magari per qualche settimana, con le varie Gaia e Lorella o Roberta, e in quel periodo erano capaci di parlare solo di loro. Lui però era diverso; per esempio, durante una lezione in classe, mentre guardava fuori dalla finestra o chiudeva gli occhi un momento, immaginava di baciarne almeno dieci o venti alla volta, e così, a fine mattinata era un po' come se si fosse fatto mezza scuola, comprese Gaia, Lorella e Roberta.
Una volta una ragazzina di terza media di nome Evaluna l'aveva baciato per davvero, e sulla bocca - senza però usare la lingua - durante il classico gioco della bottiglia. Era stata l'unica a dirgli di sì, e dopo il fatto, quasi a giustificarsi dinanzi alle sue amiche incredule e un po' schifate, lei disse che certamente Giò aveva un fisico orribilino - usò proprio questa parola la bimba - ed era anche un po' cicciottello, con una testa simile ad una palla da bowling, il collo quasi attaccato alle spalle, ma a suo vantaggio, e forse questo annullava tutte le cose negative, aveva gli occhi verdi più incantevoli che lei avesse mai visto in circa quattordici anni di vita. Va aggiunto ancora - ma su questo argomento Evaluna non si pronunciò - che Giò era uno dei maschi più bassi della scuola.
Il mattino seguente tornò in quella via ripida dal suo amico carrello, portandosi con sé
- infilati dentro lo zainetto - due panini al formaggio e prosciutto, una bottiglia da un litro di acqua frizzante, il walkman e una cassetta con canzoni registrate dalla radio - le hit del momento, come un pezzo dei Fastball dal titolo The way, ma anche qualche brano di Jerry Lee Lewis, un libro di grammatica inglese (per tenere buona la madre) e una catena tipica per bloccare le biciclette, con un grande lucchetto; alla fine della giornata avrebbe voluto legare il suo carrello per la spesa al vecchio cancello della villa abbandonata.
Per prima cosa lo spostò all'ombra di un pino, l'unico albero presente; per il resto, intorno a sé, aveva solo sterpaglia secca. Dopo di che si mise dentro il carrello ad oziare. Le cicale erano rumorose, ma a Giò piacevano perché gli sembravano un'orchestra. Quella sua stradina era un luogo perfetto, un rifugio dal mondo, il suo mondo dove nessuno lo avrebbe mai trovato, genitori compresi. Durante il giorno, comunque, i suoi lo lasciavano libero, almeno in estate, purché dimostrasse alla madre, la domenica sera, di aver fatto parte dei compiti.
Verso le tre, dopo aver mangiato uno dei due panini, scese dal carrello, lo spinse una decina di metri più su, nella parte conclusiva della stradina; poi lo posizionò verso i bidoni dell'immondizia e i materassi. D'impeto si gettò dentro. Il carrello cominciò la sua discesa, ma solo per pochi secondi, poiché la sua parte posteriore finì tutto in avanti: le ruote di dietro si bloccarono, il carrello si rovesciò e cadde in terra. Giò non si fece nulla. Fortunatamente il percorso era stato troppo breve. Lo rimise su. Rientrò dalla parte posteriore e, mettendosi a pancia in giù - con la testa in avanti quasi a sfiorare la gabbia anteriore e con le mani contro di essa - dopo aver nuovamente indirizzato il carrello al punto giusto, lo tenne fermo con i suoi piedi; infine si lasciò andare. Finì contro i materassi a scarsa velocità. Si trattava di pochi metri di discesa, forse nemmeno cinque, e poi una decina di metri in pianura fino a quei bidoni davanti al cancello.

E così trascorse tutta l'estate in quella stradina abbandonata, con un solo albero come riparo dal sole, a tentare discese pazze con il suo carrello. Aveva ripulito la strada dai sassi - anche quelli più piccoli - con una scopa. Fortunatamente le buche - tutte minuscole - erano presenti solo ai bordi della strada. Dalla cantina Giò aveva preso altri due vecchi materassi, ora disposti orizzontalmente, uno messo al centro e tre dietro, appoggiati ai bidoni dell'immondizia, come a formare un muro prezioso.
Quando decideva di partire dalla cima della ripida salita, doveva guardarsi alle spalle per vedere che sulla strada principale non passasse nessuna automobile; chissà cosa avrebbero pensato quelli alla guida o altri passanti: forse ad un suicida, ad un folle da fermare. Sarebbero intervenute le forze dell'ordine, i servizi sociali, la sua famiglia: tutti quanti lo avrebbe svegliato dal suo sogno.
Per tutto luglio e agosto, Giò riportò piccole ferite, soprattutto graffi alle braccia e alle gambe, ma era anche bravo ad inventarsi scuse: ai suoi genitori raccontava di passare le giornate nel parco e che qualche volta, prendendo sentieri improbabili, gli capitava di cadere e farsi male. Il padre, però, diceva di non vederlo mai; effettivamente il luogo era vasto, con centinaia di sentieri che forse neanche l'uomo poteva conoscere.
Nonostante alcune volte il ragazzino cadesse con il suo carrello, non mise mai un casco o cose simili, per principio: lui voleva scendere senza finzioni, vestito in modo semplice, un po' sportivo, come se dovesse fare una normale passeggiata, con scarpe da ginnastica, pantaloncini e maglietta. Trascorreva le ore più calde della giornata dentro il carrello, sotto l'ombra mutevole del pino, a fare i compiti, tanto per tenere buona la madre. Nelle giornate di fine agosto provò alcune discese dopo forti piogge e andò tutto bene. La musica l'ascoltava qualche volta, tanto per caricarsi, però durante la discesa doveva esserci silenzio. A volte gli capitava di fissare la sua strada per delle ore; la studiava con cura. Aspettava il momento giusto, magari che il vento cessasse, soprattutto se era forte e di traverso. Quando il cielo era sereno andava meglio; ma una nuvola che passava davanti al sole o si fermava poteva essere un autentico rischio per la sua visibilità. Un cambiamento improvviso avrebbe potuto distrarlo, privandolo della giusta posizione, e quindi farlo cadere in terra. Ma in poco tempo era diventato più accorto e concentrato; non era più quello degli esordi.
E non aveva paura. Quando entrava dentro il carrello e si buttava per quelle discese, si sentiva sicuro e felice come non lo era stato mai in vita sua; il senso delle sue giornate finiva lì, nel momento in cui il sole tramontava.
Peccato che non facciamo mai le vacanze estive, quest'anno te le saresti meritate davvero!” disse la madre una sera, contenta perché il figlio aveva finito tutti i compiti a pochi giorni dall'inizio della scuola.
Una volta sola erano andati in vacanza, quando Giò era ancora troppo piccolo per ricordare. Trascorsero quasi un'intera estate in una piccola frazione di mare vicino Tropea, ospiti di una vecchia zia del padre. Ma la donna non poteva certo sapere che il ragazzo stava già viaggiando - a modo suo - tutti i giorni, ed era felice così, forse almeno quanto i suoi compagni in vacanza ad Alassio, a Londra o in Australia.

L'arrivo di settembre e della scuola furono per Giò un vero fulmine a ciel sereno. Lui non era più lo stesso e niente - dopo quell'estate - avrebbe avuto senso per davvero se non quelle pazze discese in cui si riempiva i polmoni di un'abbondante provvista d'aria. Ma non sarebbe stata la fredda temperatura, il clima ostile, l'inverno e la neve, le giornate brevi, con poca luce, a fermare le sue gioie con il carrello, bensì le ore perdute nelle aule scolastiche, il ritorno a casa a pranzo, il pomeriggio, la cena, e poi l'inutile sonno durante la notte. Gli sarebbero rimasti il sabato o la domenica, uno di quei due giorni a scelta, poiché almeno uno avrebbe dovuto dedicarlo interamente ai compiti; così scelse il sabato per le faccende scolastiche, che considerava una perdita di tempo - anche se svolgeva sempre con maggiore impegno al fine di non creare sospetti in famiglia - mentre la domenica, che da sempre considerava noiosa, l'avrebbe dedicata ai suoi viaggi, alle sue spericolate discese.
Il luogo era rimasto lo stesso, quella strada isolata dal mondo, a pochi minuti da casa sua; e ogni volta che si buttava giù era come se fosse la prima volta, un evento al quale non rinunciava nemmeno quando aveva la febbre.
Poi con la neve era tutta una cosa a parte. Nell'inverno del 1999 nevicò abbastanza da coprire la sua strada di parecchi centimetri. La prima volta scese a fatica poiché - seppure molle - la neve finiva per superare abbondantemente le ruote e terminare dentro la gabbia del carrello, bloccandolo fin da subito.
Tuttavia, una volta segnato il tracciato - perfettamente diritto - il carrello scendeva adagio e giungeva alla fine della sua consueta corsa. In alcune circostanze, Giò evitò di venire giù quando l'asfalto era troppo ghiacciato, soprattutto se lo era in alcuni tratti; non era così folle - o meglio - se fosse caduto malamente non avrebbe potuto più scendere durante le sue domeniche e nei mesi estivi: con un braccio o una gamba fratturata, o alla peggio un colpo in testa e chissà cos'altro, si sarebbe concluso il suo bel sogno. Ma un giorno l'avrebbe fatto, lo promise a sé stesso e al carrello; gli mancava solamente esperienza, doveva pazientare ancora un po', per questo e per qualcos'altro di più ambizioso.
E a proposito di questa sua insolita attività, lui non ne aveva ancora parlato con nessuno. A scuola era senza amici, ma non aveva nemmeno dei nemici, gente che lo infastidisse. Giò si faceva i fatti suoi, viveva nel suo piccolo mondo silenzioso. Durante l'intervallo rimaneva con i suoi compagni nei corridoi; talvolta li ascoltava distrattamente e rideva alle loro battute. Una volta i suoi compagni di classe lo avevano invitato ad una festa il sabato pomeriggio, in una delle loro case lussuose, spesso situate ai piedi della collina o nel centro storico della città, però lui aveva rifiutato; durante il sabato doveva studiare, in modo da non avere più scomodi impegni di studio per la sua domenica 'santa'.
Solo verso maggio rivelò il suo segreto a colui che reputava un buon conoscente, un certo Richi detto 'il capellone', uno fissato con la musica dei Metallica, un ragazzino che - proprio come Giò - fiatava poco. Quando parlava non si capiva molto, poiché andava troppo veloce; e a tredici anni era lì che citava filosofi tipo Nietzsche.
Giò lo invitò ad una sua esibizione in una domenica già caldissima e abbastanza ventosa. Lo accompagnò in fondo alla stradina - in un lato - chiedendogli di chiudere gli occhi per qualche minuto fino a che non gli avrebbe fatto un urlo. Richi annuì, si accese una sigaretta e chiuse gli occhi. Giò slegò il suo carrello, che teneva sempre attaccato al cancello con la catena per le biciclette; risalì la stradina, ci si mise dentro - facendo anche attenzione che le auto dietro di lui non lo sfiorassero - quindi urlò: “Apri!”. Scese a gran velocità, e anche se il vento era un poco di traverso, rimase in equilibrio, finendo contro i materassi. Tutto era andato a meraviglia.
Richi rimase di pietra, con la sigaretta in bocca che aveva smesso di aspirare. Non disse nulla per qualche minuto, borbottò qualcosa, gesticolando, forse erano delle citazioni filosofiche. Poi lo abbracciò forte.
Il 'capellone' - come detto - era uno che stava per i fatti suoi, con quel faccino da faina, nascosto da lunghi capelli neri. Però il giorno seguente, verso la fine della mattinata, tutti i ragazzini della scuola evidentemente capirono le sue parole, poiché vennero a conoscenza dell'impresa di Giò con il suo carrello.
La notizia si era diffusa durante l'intervallo, e così all'uscita soprattutto i ragazzini dell'ultimo anno gli chiesero spiegazioni; Giò era molto imbarazzato, ma li invitò senza esitazione ad assistere ad una sua discesa per la domenica a venire.
Nessuna ragazzina - invece - gli disse qualche cosa; però lui si era accorto che una delle più carine, quella con le guance arrossate e i lunghi capelli biondi - Rosa o Chiara, non ricordava mai il nome - che durante l'intervallo o all'uscita spesso girava a braccetto con due sue amichette occhialute - quasi fossero una cosa sola – quella mattina gli si era avvicinata per un attimo, accennando un sorriso. Per Giò quello fu un giorno strano.
La domenica pomeriggio la ragazzina bionda non venne, però la solita stradina si riempì di piccoli curiosi. Molti arrivarono a piedi, in bicicletta o accompagnati nei pressi in auto dai genitori, con il pretesto di andare al parco per vedere l'alta statua con il faro, il panorama, le montagne sullo sfondo con le cime ancora innevate. Alcuni si erano accalcati in fondo alla strada, a ridosso del cancello della villa abbandonata; altri si erano messi ai bordi di essa, come spettatori che assistono ad una gara di sci alpino. C'era anche Anna, la ragazza detta 'la rivoluzionaria', una tizia con i capelli rasati e i grandi occhi azzurri, la quale amava ripetere che un giorno avrebbe fatto carne alla brace di quella brutta gente borghese (ovvero avrebbe bruciato tutte le case in collina compresa la sua, un villone circondato da uno sterminato giardino). Fu Richi ad organizzare l'evento; la star e il suo carrello sarebbero dovuti apparire solo all'ultimo, dal principio della ripida stradina. Invece si erano nascosti dentro la villa abbandonata che andava a pezzi ed era quasi più un rischio rimanere lì dentro per troppo tempo che fare una discesa ad occhi chiusi.
Ma a preoccupare Giò non era questo e nemmeno la folla o le condizioni atmosferiche; quel giorno c'era un gran sole e il vento era assente. Anche fisicamente si sentiva a posto, non aveva alcun dolore, nemmeno quel solito leggero male alla testa. Lui scendeva per sé stesso, se poi gli altri si divertivano a vederlo tanto meglio per loro, pensò. E se poi fosse caduto, pazienza. In realtà la sera prima, con la testa nascosta sotto il cuscino, aveva pianto. Sapeva che dopo quella discesa le voci dei figli sarebbero giunte alle orecchie dei genitori; e così anche i suoi lo avrebbero saputo, ma questa volta mai lo avrebbero perdonato, strappandogli l'unica cosa che veramente lo rendeva felice, il suo carrello. Durante il sonno vide tutto: la crisi isterica della madre, le botte del padre, il carrello fatto a pezzi, le ruote devastate, la gabbia presa a calci, sfondata, i resti abbandonati vicino a un bidone dell'immondizia, e addio. Non ci sarebbe più stata un'altra estate così e le sue belle domeniche trascorse durante le altre stagioni.
Eppure aveva ancora tante cose da fare; sapeva che con il tempo avrebbe imparato a dominare il suo carrello e scendere anche con il ghiaccio, con una tempesta di vento oppure in controluce, magari ad occhi chiusi. E questo era niente. C'erano altre vie simili alla sua sparse per la collina. Però il suo più grande desiderio era quello di dedicarsi a qualunque strada in discesa, facendo tutte le curve, partendo dalla cima della collina fino a giungere in città, senza mai cadere. Un giorno sarebbe riuscito a fare ciò senza modificare il suo carrello con artifici tecnici, tipo freni, volanti o altre piccole invenzioni? E poi da grande - a vent'anni – non si sarebbe sentito troppo stretto lì dentro?
Nella villa pensò a tutto questo. Poi lui e il carrello uscirono dal cancello arrugginito che si apriva a stento. Il pubblico era in silenzio. Salirono fino al principio della stradina. Presero posizione. Giò si distese con la pancia in giù. Fece un lungo respiro e lasciò andare i piedi che gli fuoriuscivano dal carrello, staccandoli dall'asfalto. Erano in corsa. Si mise quasi seduto, con il sedere leggermente alzato; le braccia erano larghe in avanti, le mani stringevano i bordi. Tutto il corpo era proteso in avanti; gli occhi fissavano i materassi. Fu un incantevole viaggio durato rari secondi, sempre troppo pochi e la discesa si concluse alla grande come sempre.
Ci fu un boato. I ragazzi urlarono, applaudirono come se Giò fosse una rock star o un grande atleta. Lo circondarono, mentre lui era rimasto dentro al carrello per riflettere
sul luogo dove avrebbe potuto nasconderlo nel momento in cui quella strana festa sarebbe finita. L'ultima discesa un cazzo, pensò ancora: mio caro amico carrello, non so come, ma un giorno faremo tutte le discese del mondo.
Fu questo il suo secondo pensiero, forse eccitato per l'affetto della folla entusiasta che gridava sempre più forte per quella loro stravagante impresa.


LISA LA BAMBOLA DI EFFE (VERSIONE 2015, DEFINITIVA)

Una sera d'inverno, nella sua piccola fredda mansarda, in un quartiere periferico della città, Fabio, un trentaquattrenne impiegato in una segreteria universitaria, aveva improvvisamente capito che un lontano desiderio, forse, si sarebbe macabramente realizzato. Un sito internet di una nota multinazionale giapponese regalava sogni erotici, costruendo bambole gonfiabili di lattice: uomini, donne, androgini, con una tale precisione da sembrare veri esseri umani. Ma la cosa che fece quasi svenire Fabio era l'opzione detta The doll of your life. L'azienda era in grado di ricostruire una bambola identica alla persona richiesta: peso, viso, occhi, seno, dita, culo, capelli, bocca e altri dettagli, anche minimi, tutto uguale.
Traducendo il senso del loro slogan: se volevi indietro tua moglie nel fiore della giovinezza, se eri il tipo fissato con donne simili a Pamela Anderson o Marylin Monroe, se desideravi la tua ex compagna di banco della scuola superiore, la casa di produzione di bambole reali, la ***, nel giro di un anno, per venticinque mila dollari, avrebbe portato a casa tua la felicità, la persona che avevi da sempre sognato (potevano anche mandarti noti leader politici, personaggi storici...)
Solo l'abbigliamento era un problema che il cliente avrebbe dovuto risolvere da sé, ma questo era il meno.
Fabio si accese una sigaretta, di quelle sottili, ma non era un gran fumatore, anzi, solitamente le teneva per gli amici o per qualche fidanzata, o magari se ne fumava una o due, ogni tanto, dopo un buon caffè. Nella casa risuonava musica jazz. Fabio pensò alla questione finanziaria: poteva ritirare i soldi dalla banca, quelli che aveva ricevuto da una eredità, e che, secondo i consigli della sua famiglia, mai e poi mai avrebbe dovuto spendere se non per un giusta causa, come per esempio quella di comprarsi una buona automobile.
Invece, dopo poche settimane, aveva già preparato tutto il materiale fotografico sulla ragazza che voleva far rivivere a tutti i costi: si chiamava Lisa ed era stato il suo più grande amore, anche se ne aveva parlato con poche persone e mai in modo serio. I due si erano conosciuti al liceo quando Fabio frequentava l'ultimo anno, mentre lei, due anni più giovane, il terzo. Durante una partita di pallavolo lui le schiacciò una violenta pallonata sul viso e lei finì in infermeria. Il giorno seguente, per farsi perdonare, le regalò tre rose rosse davanti a tutta la classe. Dopo qualche settimana si misero insieme, ma si vedevano solo di domenica, nella spaziosa casa di lei, oppure andavano nei cinema d'essai. Abitavano pure nello stesso quartiere e avevano molti amici in comune. In quel periodo era straripante di felicità, la notte faticava ad addormentarsi, non aveva mai conosciuto una ragazza così piena di interessi. Ed era pure bellissima. Aveva i capelli rossicci, un po' ricci; quegli occhi azzurri, quando lo fissavano, mettevano a disagio proprio lui che pareva sempre distaccato da tutto e così sicuro di sé. Per la prima volta si era innamorato, ma un bel giorno quegli occhi non li vide più. Trascorso l'autunno, passato l'inverno, lei si innamorò di un altro ragazzo della scuola. Fabio soffrì, in silenzio. Qualche volta era capitato che si rifugiasse nel bagno della scuola per piangere. Smise anche di giocare nella squadra mista di pallavolo a causa di un problema alla caviglia, o almeno così raccontò agli amici. Ma in realtà non voleva più incontrarla.
La passione per il cinema, che con lei aveva condiviso, scomparve presto. Dopo la maturità si iscrisse a Giurisprudenza, in un'altra città. Conquistata a fatica la laurea, a trent'anni, ritornò nella sua città, trovando subito lavoro, e così andò a vivere nella mansarda di famiglia, in beata solitudine.
Il ventidue maggio del 2005 c'era molto vento. Fabio guardava attraverso il vetro della sua finestra le tende verdi di alcuni balconi del palazzo di fronte muoversi violentemente. All'improvviso suonò il campanello: era il corriere che gli avrebbe portato la sua bambola perfetta.
Un signore con la barba gli consegnò vari scatoloni con dentro i pezzi del corpo da montare. Fabio non aveva il coraggio di guardare l'uomo negli occhi, firmò e chiuse la porta.
In quei mesi di attesa aveva comprato molti dei vestiti che lei portava nel periodo in cui la frequentava: scarpe Doctor Martens blu, jeans larghi, maglie di cotone colorate, la bombetta alla Charlot che ogni tanto metteva. Acquistò persino il suo deodorante preferito. Se non erano proprio gli stessi vestiti, dovevano comunque essere molto simili a quelli che lui ricordava.
Montò tutti i pezzi della bambola in un paio di ore, seguendo le istruzioni in lingua inglese, e la vestì, cercando di non guardare il suo viso e soprattutto quegli occhi azzurri, incantevoli. Durante il loro breve adolescenziale rapporto, non si erano mai spogliati, non avevano mai fatto l'amore; fu una storia fatta di interminabili baci e carezze.
Finito il lavoro, Fabio si mise a piangere - non gli capitava da anni, non era un tipo dalle lacrime facili - perché sembrava proprio lei, la ragazza di sedici anni di nome Lisa.
Alcuni anni dopo il liceo, la vera Lisa l'aveva vista solo due volte, da lontano, e gli era parsa sempre molto affascinante. Era anche capitato che un amico comune li avesse fatti mettere in contatto tramite posta elettronica, qualche anno prima, quando Fabio viveva ancora Roma ed era in difficoltà con gli ultimi due esami. Così lui le rispose un po' frettolosamente. Lei aveva studiato Lettere classiche; sembrava la stessa persona di un tempo, presa dai soliti interessi, per il cinema d'autore, il teatro, la politica, la cucina indiana, la fissa per i viaggi e l'amata Berlino. In una e-mail, lei gli chiese anche scusa per averlo lasciato così, da un giorno all'altro, giustificandosi però che al tempo era ancora una ragazza immatura. Non aggiunse altro.
Ma a Fabio non importava più quella Lisa, ma l'altra, quella viva nei suoi ricordi e che in quel momento aveva di nuovo di fronte, seduta sul divano, con le gambe accavallate.
La bambola pesava una cinquantina di chili o più; sollevarla e metterla lì, in posa, per lui era stata una fatica ulteriore. I capelli ricci le nascondevano le guance bianche. Gli occhi azzurri fissavano il tappeto. Fabio la guardò dal basso, buttato in terra, sul tappeto: erano proprio quegli occhi a fissarlo, quelli della ragazza che non aveva mai smesso di amare, anche quando aveva avuto altre donne.
Smise di piangere e le accarezzò le braccia, coperte da una maglia piena di colori. Poi le toccò le mani e i polpastrelli, che sembravano veri e soprattutto gli stessi che ricordava. I giapponesi avevano fatto un grande lavoro, ma anche lui non era stato da meno nel reperire tutto il materiale possibile per creare l'opera. Lisa al tempo si mangiava le unghie, aveva proprio delle dita orrende e le mani un po' mascoline.
Fabio uscì di casa per andare in un caffè storico del centro per bere del buon vino, insieme a due suoi colleghi e amici di dieci anni più vecchi, entrambi uomini molto robusti che sembravano gemelli. Erano amanti del calcio, delle scommesse sportive e fissati con la musica di Miles Davis. Anche Fabio aveva questi interessi (però non scommetteva mai), e le partite di calcio le vedeva in TV, nei pub, insieme ad altra gente, tanto per stare in compagnia, ma non era un vero tifoso. Mentre la musica l'ascoltava solo in casa, continuamente. Comprava i cd, non solo quelli di Miles Davis, ma tutto ciò che riguardava la storia del jazz. Li ascoltava nel pomeriggio, dopo il lavoro e la sera prima di addormentarsi, sempre a basso volume.
Con questi due amici si incontrava il venerdì o il sabato, e per un paio d'ore se ne stavano seduti a chiacchierare e a guardare attraverso le vetrate scure le persone che passavano davanti a questo locale: coppie di anziani, giovani, donne con il passeggino, qualche turista che scattava foto, mendicanti e zingari che chiedevano soldi.
Fabio tacque sul fatto della bambola, né aveva mai accennato ai due quel suo amore adolescenziale. Come sempre raccolse dentro di sé le immagini più strambe e forse le più belle, per lasciare spazio alle apparenze, per gli altri: lui era un uomo qualunque, con interessi forse un po' limitati. Fisicamente era ben messo, alto un metro e novanta, con i capelli lunghi, scuri, la pelle liscia. Un uomo dal carattere un po' riservato, ma che non lesinava mai la battuta, il sorriso. Inoltre aveva avuto sempre tante donne, alcune molto intelligenti e belle.
Amava anche le giacche e le cravatte firmate, e a causa di queste costose fisse, viveva in una semplice mansarda, rinunciando a qualche viaggio o ad una casa migliore, pur di vestire come voleva: i soldi gli bastavano per questo e per le cene, il vino pregiato, la collezione di CD.
Il resto del denaro gli serviva per pagare le spese di quel piccolo rifugio, un paradiso a poco prezzo, tutto suo. Ma ora, forse, non era più il solo a viverci.
Sapeva di aver fatto una cosa molto strana con questa storia della bambola, e che, a casa sua, qualcosa di indecifrabile, una ragazzina di lattice che sembrava un essere vivente (le mancava solo il respiro), lo avrebbe aspettato.

A mezzanotte, quando rientrò nel suo appartamento, lasciò la luce spenta, si mise sul divano, al suo fianco e cominciò a baciarla. Anche le labbra parevano vere come quelle di una ragazzina, proprio di quella ragazzina. Ancora una volta pensò ai giapponesi, popolo di geni! Il vino gli aveva dato coraggio. Solo nei primi momenti pensò di vivere dentro un ricordo o un sogno, ma questo passò quasi subito, perché ora lui era lì per davvero, al buio, con una bambola che lentamente stava spogliando. Scoprì i suoi seni duri, pesanti, e che tali dovevano essere al tempo. Li baciò. Poi anche Fabio si spogliò completamente, la penetrò e fece l'amore con la bambola, anche lei tutta nuda. Dormì abbracciato alla ragazza di lattice fino a tarda mattinata.
Al risveglio le accarezzò i capelli, ma non riusciva a guardarla negli occhi se non per pochi secondi. Era felice, forse il momento più intenso della sua vita, e anche se sapeva che era solamente una bambola, passò tutto il giorno a fare l'amore con lei.
Era come se avesse ripreso un rapporto interrotto: anche lui si sentiva un ragazzino, quel ragazzino di diciotto anni, e il tempo si era fermato per sempre. I ricordi erano scomparsi, c'era solo l'attimo da condividere.
L'espressione del volto di Lisa era stata ricostruita in base ad una fotografia che Fabio aveva scattato e scelto con cura - tra le poche a sua disposizione poiché due o tre le aveva perdute o stracciate - con lei che guardava le grandi onde del mare di Levanto. Avevano passato insieme una sola domenica fuori dalla città, ed erano andati in Liguria con il treno. L'immagine era stata scattata di nascosto perché lei non amava né essere ripresa né fotografata. Aveva una espressione rilassata, un po' misteriosa e forse distaccata, ma nel complesso sembrava felice.
Secondo lui era quello il volto che la bambola avrebbe dovuto avere in eterno. Lisa, in realtà, era una ragazza che rideva molto e che amava fare gli scherzi, e sicuramente era rimasta così anche a trent'anni. E a Fabio non passò neanche per la testa di fare uno scherzo e invitarla a cena per presentarla a sé stessa, sedicenne. E nemmeno aveva intenzione di raccontarlo in giro: cose da pazzi! L'avrebbero pure licenziato da quel lavoro burocratico e noioso di segreteria (che comunque gli permetteva, nel suo piccolo, di vivere come voleva).
Questo era il suo segreto: doveva essere un amore al di fuori di tutto.
Nei giorni seguenti la sfiorò soltanto, dandole qualche bacio e alcune carezze. La sistemò in una minuscola stanza, tenendola con i vestiti (in mezze maniche visto che si avvicinava l'estate), in un luogo che serviva da ripostiglio per mobili rovinati, alcune sedie, vecchi libri e altro. Preparò un letto da una parte e i libri, uno sopra l'altro, contro l'altra parete, soprattutto libri di filosofia, saggi su registi e attori come Woody Allen, raccolte di poesie e romanzi, compresi i libri di Pavese, quelli degli scrittori della Beat Generation e di Pasolini. Lisa leggeva moltissimo e lui ne aveva comperati a decine e decine proprio in quegli anni e un po' li aveva letti, per poi dimenticarli quasi del tutto.
La stanza aveva un lucernario, e la notte, a luci spente, guardava con lei il cielo stellato.
Il sabato pomeriggio aveva cominciato a leggerle ad alta voce poesie, brani di romanzi, ma anche alcune cosette comiche che lui stesso aveva scritto da adolescente, e che mai aveva avuto il coraggio di recitare a qualcuno.
Oramai quella era diventata la stanza di Lisa, e quando Fabio usciva, la chiudeva sempre dentro, ma anche quando lui cucinava, parlava al telefono o stava al computer o in bagno, la bambola doveva rimanere fuori dal suo quotidiano. Era una forma di rispetto reciproco, pensò: in fondo anche lei aveva bisogno di stare un po' per conto proprio.
E così passò l'estate, nella rovente mansarda. Lui andava nella stanzetta per qualche ora al giorno, oppure di notte e facevano l'amore, se capitava. Fabio stava anche diventando un lettore accanito e di fatto comprò altri libri, per lei e per sé stesso. Una sera le scrisse anche una poesia d'amore un po' ispirata a quelle di Pablo Neruda, e alla fine gli venne da commuoversi, tanto da bagnarle il viso con una lacrima.
In casa raramente invitava qualcuno (era una sua prerogativa, anche prima di questo evento), e la sua vita fuori, nel mondo, continuava ad essere la stessa: gli amici al caffè storico, il calcio e anche due brevi storie con una donna sposata, conosciuta su internet e una ragazza di venticinque anni, una stagista compagna di lavoro.
Tuttavia, a partire dai primi giorni di ottobre, le cose cominciarono a cambiare. Lui smise gradualmente di leggere libri, di raccontarle storie. Sempre più spesso dormivano insieme, ma il sesso era diventato predominante nella vita della strana coppia. Lui cominciò a farle quello che mai avrebbe osato chiedere ad una donna. Dopo la teneva stretta tra le sue braccia, ascoltando musica jazz diffusa per la mansarda, ma pensava ad altro. La domenica pomeriggio, quando non andava a vedere una partita di calcio, Fabio faceva gli esperimenti più assurdi: si scolava due bottiglie di vino solo per provare come e se sarebbe riuscito a venire anche da sbronzo.
E questo era il meno. Provò a praticare sesso in tutte posizioni, anche quelle impossibili da raccontare.
E così avvenne il primo incredibile fatto: Lisa aveva cambiato espressione del viso. Aveva perso quei lineamenti identici a quella foto di lei davanti al mare, un po' misteriosa ma felice. Il volto era lentamente mutato in una espressione colma di tristezza. Fabio si era accorto di questo, ma continuò a fare del sesso con lei, quasi tutti i giorni. Un altro particolare inquietante era che la bambola aveva perso calore, era diventata fredda come il ghiaccio. Ora Lisa sembrava distante, o meglio assente, come una bambola qualsiasi.
Durante gli ultimi giorni di febbraio, l'uomo fece un breve viaggio a Salisburgo insieme ai soliti due amici-colleghi. Al suo ritorno Lisa, la bambola, era scomparsa nel nulla.
Non è possibile, pensò, sicuramente era stata rubata, ma la serratura era a posto e solo i suoi famigliari avevano una copia delle sue chiavi. Nessuno però sarebbe entrato senza il suo permesso: la casa era sua. Lavorava, pagava le spese e poi chi poteva prendergli la bambola? Chi poteva sapere della sua esistenza? Praticamente non aveva vicini di pianerottolo; c'erano quelli al piano di sotto, le due tranquille famiglie del nono piano, genitori quarantenni o poco più, figli in età da asilo.
Quella settimana andò a cena dai suoi, un po' per indagare, ma nessuno gli disse nulla. Allora pensò al corriere, all'uomo con la barba che gli aveva portato la bambola ancora in pezzi, ma dopo una breve ricerca scoprì che era morto in un incidente in motocicletta due mesi dopo il periodo della consegna.
Gli venne un dubbio: e se fosse stato tutto un sogno durato alcuni mesi? Ma questo era impossibile, poiché c'erano ancora gli scatoloni vuoti, i contratti della multinazionale giapponese ***, e anche due parrucche, una bionda e una nera, in omaggio, rimaste dentro uno scatolone e che Fabio mai aveva usato, perché la sua Lisa la voleva così come se la ricordava (senza ulteriore artificio).
Durante alcune notti faticò a dormire, gli venivano i brividi e quando sentiva un rumore metteva la testa sotto il cuscino.
Era assicurato, poteva farsene mandare un'altra entro qualche mese, ma non pensò mai a questa possibilità.
Prima delle vacanze estive, forse per dimenticare il tutto, andò a cena insieme ad una nuova collega, una giovane donna salentina che a Fabio neanche piaceva.
Accompagnandola sotto casa, però, lui si autoinvitò a salire, ma lei rifiutò, con gentilezza. Uscirono insieme anche tra settembre e dicembre, e alla fine, dopo sei o sette cene, lei acconsentì a farlo salire. Dopo un anno si sposarono e andarono a vivere nel centro storico a due passi dal suo amato caffè, dove continuava ad andare con i due soliti amici, anche se con meno frequenza, perché nel frattempo era diventato padre di Irene.
Alla storia di Lisa, la bambola, non ci pensava più.
Una sera d'autunno, però, il suo telefono cellulare cominciò a ricevere chiamate senza numero; Fabio rispondeva, ma dall'altra parte niente, solo silenzio. Lo stesso avveniva con il telefono di casa. Il fatto continuò per un mese, quasi tutti i giorni e a qualsiasi ora, anche durante la notte.
Una mattina del cinque dicembre la città era completamente innevata. L'uomo, mentre camminava verso il suo ufficio, ricevette una chiamata, ancora una volta anonima: tuttavia, in quel momento, era talmente preso dallo spettacolo della neve che cadeva sulle auto e sui pullman bloccati per le strade della città, che rispose senza pensarci. Questa volta udì qualcosa di insolito, il suono delle onde del mare infrangersi sulla sabbia e immediatamente pensò alla bambola scomparsa, a Lisa e al ricordo di quell'unico viaggio fatto a Levanto con lei, quando erano ancora adolescenti.
Non andò a lavoro, non avvertì nessuno, perché era già salito su un treno diretto per quel paese. Non fece nemmeno il biglietto e prese una multa. Dopo quattro ore si ritrovò in quel luogo soleggiato, ma con un vento gelido e gli schizzi delle onde del mare, distanti un centinaio di metri, che gli sfioravano il viso.
Passò per il centro deserto. Giunse immediatamente sul lungomare. Cercò di ricordarsi il punto preciso della spiaggia dove si erano fermati al tempo e dove aveva scattato quella foto.
Superò la prima spiaggia, divisa da un torrente e giunse nella seconda spiaggia, prima del piccolo golfo, e lì, proprio lì, vide, una ragazza con i capelli ricci mossi dal vento, il cappottino nero, in piedi, con le mani in tasca, che fissava il mare. Ora Fabio non aveva più dubbi: era lei, Lisa, la bambola o la ragazza dei suoi ricordi. Rimase a guardarla un poco. Poi andò verso di lei, che intanto, senza voltarsi, forse, gli fece un sorriso.



L'UOMO CHE NON SMETTEVA DI RIDERE (VERSIONE 2015, DEFINITIVA)

Quando gli accadde il fatto dell'attacco di riso continuo, che sconvolse la sua esistenza da un giorno all'altro, Lorenzo aspettava l'autobus in un'affollata fermata poco fuori città. Era la sua seconda settimana di lavoro; si trattava di una supplenza in materie letterarie in un istituto di suore. Per il giovane uomo si trattava di una piccola rivincita poiché proprio in quella stessa scuola era cresciuto, frequentando le elementari e le medie - senza però grande successo - collezionando voti al limite della sufficienza in quasi tutte le materie, e in particolare in quella che poi sarebbe diventata la sua specializzazione, l'italiano.
Tu scrivi in un modo... in un modo! Questo tema è quasi illeggibile!” gli ripeteva la vecchia professoressa, riconsegnandogli il foglio protocollo, nel silenzio generale. Con il tempo - però - le cose cambiarono: il ragazzo si applicò maggiormente, appassionandosi alla poesia italiana, alle lingue straniere e alla storia classica, mentre la vecchia insegnante veniva portata via da un terribile cancro ai polmoni. Spesso ci pensava ad inizio giornata, mentre attendeva l'autobus che lo portava nei pressi del centro storico della sua città. Ma la mattina in cui il riso gli rubò l'anima, le sue riflessioni vennero oscurate dalla terribile voce di un vecchio che cantava accompagnandosi con un violino scordato: era un mendicante e chiedeva soldi.
La...la...la...la...la...” strillava.
Nessuno tra i presenti lo degnò di uno sguardo. Solamente Lorenzo si mise la mano in tasca per estrarre tutto ciò che aveva: un euro e venti. Malgrado provasse fastidio per quel bizzarro uomo, si sentiva in dovere di aiutarlo; e in un momento il vecchio si era già avventato su di lui come un avvoltoio sopra un cadavere per ritirare gli spiccioli. Nonostante lo scarso contributo lo ringraziò molto, facendo un piccolo inchino; poi si allontanò, continuando a suonare e a cantare.
Il rumore del pullman in arrivo cancellò quella straziante musica. Una volta salito, Lorenzo ebbe un improvviso forte dolore al petto come mai lo aveva avuto in vita sua; durò alcuni istanti. Sapendo poco della composizione del corpo umano e non avendo mai avuto nulla che non fosse un raffreddore o un mal di testa, si preoccupò. Poi chiuse gli occhi e ripensò al fatto della sua ignoranza: per esempio non conosceva nemmeno la differenza tra stomaco e pancia o dove fosse la milza.
Riaprì gli occhi. Il pullman era pieno, come sempre a quell'ora. Gli venne da tossire, due, tre, quattro volte. Guardò fuori dai grandi finestrini: c'erano case di cinque o sei piani, le vetrate degli ingressi di quei palazzi che riflettevano la luce del sole autunnale, il solito traffico. Poi - senza alcun motivo - gli uscì dalla bocca una breve risata. Non capì bene il perché. Volgendo ora lo sguardo dentro il pullman carico come un carro da bestiame, rise di nuovo. Tuttavia questo poteva essere divertente per davvero e allora un senso c'era. Riprese a guardare fuori, ma rise nuovamente.
Ogni cosa improvvisamente era diventata buffa: una donna con in braccio un bambino che scendeva e un'altra donna che saliva, un signore anziano che cercava nelle tasche il biglietto del pullman, l'autista che frenava di colpo.
Lorenzo si mise la mano davanti la bocca e guardò fuori, ma anche il paesaggio urbano lo faceva soffocare dalle risate che già si sentivano per tutto il bus. La gente cominciò a prenderlo per matto.
Scemo!” gli urlò uno.
Lui stava all'incirca a metà del pullman. Cominciò anche a sudare. Alcuni adolescenti ammassati in fondo lo fissarono divertiti e lui - viceversa - trovò in loro qualcosa di irresistibile: e giù un'altra risata.
Oramai era nel pieno di una strana crisi. Ma il giovane uomo aveva anche la speranza che con un po' d'acqua - una volta sceso dal pullman, trovata una fontana - sarebbe ritornato normale.
Molti passeggeri scesero alla sua fermata, in una grande piazza. Qualcuno gli diede una spinta da dietro, ma senza farlo cadere. Lorenzo era molto sudato: la sua giacca nera, la camicia bianca, pure i jeans neri avrebbero impuzzolito a breve tutta la sua scuola. Si mise a correre verso la fontana più vicina, ma alla vista di una testa di toro che sputava acqua, rise e non bevve.
Entrando a scuola, gli venne alla mente un fatto avvenuto quando lui frequentava la prima o la seconda elementare. La sua maestra - una suora - riuscì a calmare l'attacco di singhiozzo di un bambino facendogli recitare la tabellina del tre o del cinque. Ora proprio quella suora - una donna ancora abbastanza giovane - se la ritrovò di fronte nell'atrio. Forse Suor Renata aveva una cura adatta per il suo attacco? Gli avrebbe fatto recitare le lettere dell'alfabeto - magari al contrario - così gli sarebbe passato quel suo assurdo malessere?
Correndo la salutò con un “Buongiorno” ma lei non rispose nemmeno. Lui prese il corridoio semibuio che da bambino gli pareva infinito e misterioso, si chiuse nel bagno degli insegnanti, e lì scaricò una enorme risata che rimbombò per tutto l'edificio. Bevve l'acqua un po' amara del rubinetto del piccolo lavandino; fece la pipì nel minuscolo water, e così - finalmente - si accorse che quello non era nemmeno il bagno degli insegnanti, ma dei bambini delle elementari; seguì un'altra risata.
Rimase comunque lì dentro - al buio - a riflettere per un po'. Fuori dalla scuola c'era molta luce. Quel giorno era un venerdì: Lorenzo avrebbe avuto solo due ore di lezione, mentre il mercoledì e il giovedì ne aveva quattro.
Due ore, meglio che quattro!”
Era molto confuso ed anche il tempo passava; erano già le sette e cinquanta minuti. Uscì dal bagno alle otto in punto e si presentò in classe di fronte ad una ventina di ragazzini taciturni. Avrebbe potuto interrogarli tutti facendo delle domande impossibili e ridere delle loro risposte; pensò a questo mentre gli scappava una piccola risata, che riuscì a mascherare allungandola con un colpo di tosse. D'altronde aveva sempre fatto così: in treno, in ascensore o alle cene, quando, per evitare il noioso rituale del “salute-grazie-prego” ad ogni suo starnuto, Lorenzo riusciva ad arrangiarlo con due o tre colpetti ravvicinati di finta tosse. E in questo era un piccolo maestro. Soltanto che nell'assurda situazione in cui si trovava, il giochetto non avrebbe retto per due ore, e prima o poi gli allievi lo avrebbero scoperto.
Si fece forza; finalmente esordì, saltando l'appello:
Buongiorno ragazze e ragazzi! Come vedete sono di buon umore e ho qualcosa da proporvi: oggi non faremo grammatica, AH AH, e non ci sarà alcuna interrogazione, ma AH AH AH AH faremo un tema sul significato del ridere!”
I ragazzi rimasero freddi. La più bellina e fisicamente sviluppata alzò la mano e chiese se poteva andare in bagno. Lorenzo rispose di sì ridendo, e lei uscì.
Allora vi spiego tutto. Intanto, per favore, qualcuno vada a prendere i fogli protocollo in segreteria”.
Nessuno si alzò. Questa geniale improvvisata - secondo il giovane supplente - gli avrebbe anche permesso di ridere liberamente ed essere così in filo diretto con l'argomento del compito scritto. Poi continuò:
Il riso ha una storia antichissima. Bisognerebbe partire da...” ma venne educatamente interrotto da un'altra ragazzina, che disse:
Tra cinque minuti c'è la preghiera per ricordare l'ex preside e insegnante Giovannina Masera, morta di cancro diversi anni fa.”
Si trattava proprio della sua ex insegnante, che durante le medie, lo aveva spesso umiliato.
Giovannina Mas... Ma certo! Lo sapevate che un tempo era stata anche mia insegnante?” aggiunse con preoccupazione.
La preghiera poteva durare trenta minuti, anche un'ora. Era ovvio che Lorenzo non avrebbe potuto partecipare: ci sarebbe stato tutto il corpo insegnante, le suore, gli allievi, alcuni ex allievi, i familiari della defunta e il prete del quartiere.
Professore, lei dovrà leggere tutte le nostre preghiere. Ogni insegnante lo farà.” aggiunse l'allieva.
Ma io non sapevo nulla AH AH non posso, ho un problemino alle corde vocali!” rispose lui, nell'indifferenza generale.
Dieci minuti più tardi - infatti - non recitò nessuna preghiera per la cara defunta, poiché venne sbattuto fuori a calci nel culo dal giardiniere dell'istituto, un vecchio aitante di nome Roberto (che pare fosse anche l'amante della scomparsa); per Lorenzo era bastato un solo lungo scoppio di risata, simile ad una mitraglietta.
Fuori dalla scuola c'era sempre un gran sole e nell'aria si sentiva l'odore del vento. Prese l'autobus di ritorno verso casa. Fortunatamente non c'era nessun passeggero, tranne una donna sulla quarantina, con in mano due grossi sacchi della spesa. Lui rise tutto il tempo, anche mentre l'aiutava a scendere e lei lo ringraziò con un sorriso imbarazzato. Dallo specchietto l'autista del pullman gli lanciò alcune occhiatacce. Il traffico a metà mattinata era quasi assente, e così Lorenzo giunse nella propria casa in poco più di mezz'ora.
Viveva al quinto piano di un palazzo con mattoni scuri luccicanti. Tutte le tende dei balconi erano di colore verde. La madre e il padre a quell'ora erano a lavoro in ufficio. Nell'elegante trilocale viveva anche un gatto grigio mezzo pelo. Lorenzo si buttò nel letto della sua stanza e cercò di addormentarsi, senza riuscirci. Fissava le pareti piene di poster che ritraevano scene di film e poi di cantanti, gruppi musicali e di eroi del wrestling. Rise per quelle immagini che aveva davanti a sé tutti i giorni da una vita e che ancora amava.
In quel momento anche la perdita del lavoro lo faceva ridere così tanto da fargli bagnare il cuscino di saliva.
Verso l'una del pomeriggio si alzò dal letto per rispondere al citofono: era la madre. Lui non aveva nemmeno apparecchiato la tavola. Lei entrò in casa, accese il televisore per sentire il telegiornale, soprattutto la cronaca nera. Lorenzo non le raccontò nulla riguardo alla sua misteriosa crisi. Le disse solamente che aveva bevuto un paio di bicchieri di vino in un bar del centro con un collega che festeggiava il compleanno; ma la donna cucinava e non lo ascoltava.
Lui non mangiò nulla perché così avrebbe rischiato di soffocarsi, e si chiuse nella sua stanza per riflettere. Gli facevano male gli addominali, ma continuò a ridere per tutto il pomeriggio. Per evitare che la madre s'insospettisse sentendo quelle urla, lui accese lo stereo ad alto volume e ascoltò svariate canzoni pop-rock degli anni novanta. Per alcuni minuti l'attacco di riso gli dava tregua, ma poi tornava; costante era quel sorriso fissato sulla sua bocca che non se ne andava più. Gli facevano male le guance; le massaggiò lentamente per due ore, fece lunghi e distintivi respiri che aveva imparato in qualche corso serale di training autogeno. Ma poi tornava sempre a ridere.
Fino a quel momento la sua risata era stata un “ah” d'intensità e durata mutevole e mai aveva prodotto un “oh” oppure un “eh”. Anche quando andava a vedere i film comici americani - seminascosto da un cappellino sportivo, in modo tale che qualche suo conoscente, di passaggio fuori dal cinema, fissato solo con le pellicole d'autore, non avrebbe potuto riconoscerlo poiché lo avrebbe giudicato un tipo poco intellettuale - lui rideva sempre alla stessa maniera:
Ah, ah, ah...”
Provò ad addormentarsi, ma era difficile, un po' come quando si ha una forte tosse. Poi squillò il telefono; prese il suo cellulare vecchio modello che usava poco e rispose subito:
Ehi come va?” disse una voce femminile.
Ciao! Ah, ah!” rispose lui.
Che allegria signorino Lorenzo, ma sei proprio tu?” disse lei.
Era Chiara, la sua amica.
Allora stasera ci vediamo al circolo alle 20.30! Non c'è bisogno che mi vieni a prendere, mi accompagna già Ale. A dopo!”
Lorenzo non riuscì neanche a capire di cosa si trattasse, ma ebbe un brutto presentimento. Accese il computer per controllare l'e-mail: si trattava di una festa del circolo culturale nel quartiere multi-etnico vicino al centro storico della loro città, dove Chiara lavorava come organizzatrice culturale e soprattutto come barista. Il menù della serata era il seguente:
ore 21.00, proiezione del documentario Le donne in Iran.
ore 22.00, dibattito con testimonianze dirette di donne che raccontano la loro vita in Iran e la nuova vita in Italia e in Francia.
ore 23.00 musica iraniana suonata dal vivo e bibite a due euro.
Chiara era un'affascinante ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi verdi, piena di vita e di interessi legati al sociale; talvolta era scontrosa e logorroica. Si vestiva sempre con gonne lunghe colorate anche quando - in pieno inverno - si spostava in bicicletta da una parte all'altra della città.
Lui ne era profondamente innamorato da almeno dieci anni e lei finalmente stava lentamente ricambiando. Anche fisicamente. Negli ultimi mesi erano addirittura riusciti a dormire insieme per una notte - nella stanza di Chiara - in una casa abitata anche da studenti universitari fuori corso.
Lorenzo ripensò alla sua situazione sentimentale e si fece una bella risata. Quella sera non poteva mancare, ma se per la parte musicale le sue risate sarebbero state coperte dagli strumenti suonati dal vivo, come avrebbe fatto per il documentario e soprattutto per il dibattito successivo?
Si vestì in fretta, voleva uscire di casa per riflettere; magari avrebbe raccontato a Chiara ciò che gli stava capitando, ma alla fine gli avrebbe creduto?
Le crisi esistono e possono durare qualche minuto o più; ma lui non aveva mai letto una cosa simile alla sua, forse nemmeno in qualche romanzo. Tempo prima aveva sentito alla radio la storia di una bambina che starnutiva ogni pochi secondi senza mai fermarsi, neanche quando dormiva.
Fece un lungo respiro, mangiò un mezzo panino, mentre suo padre rientrava a casa dal lavoro.
Uscì di casa. Nel frattempo le nuvole avevano nascosto il sole. Camminando lentamente sul marciapiede del lungo corso che portava dritto nel cuore della città, si accorse che ormai aveva smesso di ridere da diversi minuti; quel sorriso stampato sulla sua faccia era svanito.
Forse è tutto passato?” pensò. Si fermò, guardandosi attorno: gli alberi erano pieni di foglie ancora verdi mosse da un vento leggero. La gente entrava e usciva dai vari negozi del corso; una signora sulla cinquantina fumava una sigaretta molto sottile mentre portava a spasso un piccolo cane; le auto sfrecciavano e altri piccoli eventi minimi, ma nessuno di questi gli provocò una risata.
Riprese a camminare, poi si fermò nuovamente. Doveva avere altre prove: a pochi metri c'era un bar pieno di ubriachi. Lo sapeva perché fin dall'adolescenza ci passava vicino con il pullman e vedeva sempre gli stessi uomini seduti ai tavoli che bevevano, fumavano e giocavano a carte, dalla mattina alla sera. Lorenzo decise di entrare e ordinò - appoggiandosi al bancone - un caffè, un bicchiere d'acqua e un panino con speck e brie. Il titolare - un uomo calvo con i baffi - gli disse di accomodarsi; poi aggiunse che mancava lo speck e pure il brie. Lorenzo non rise. Un uomo al tavolo vicino al suo dormiva russando. Mangiò un panino al prosciutto cotto, bevve un caffè e un bicchierone d'acqua frizzante, senza mai ridere. Uscì felice - forse era guarito, pensò - mentre il titolare del bar lo richiamò poiché nell'euforia il giovane uomo si era dimenticato di pagare.
Riprese a camminare per tutta la città, percorrendo anche due o tre volte le stesse piazze, poiché era in anticipo. Una volta arrivato nei pressi del circolo in cui lavorava Chiara, sentì un fortissimo male alla testa, come se qualcuno gli avesse tirato una bastonata; poi il dolore passò immediatamente.
Davanti al circolo - però - tornò a ridere.
C'erano alcuni suoi conoscenti che fumavano davanti all'ingresso.
Eccolo qui” disse uno a Lorenzo; questo personaggio lui lo incrociava in giro nei locali da almeno dieci anni, ma non sapeva né come si chiamasse né cosa facesse nella vita. Ma tutto ciò gli importava poco perché la crisi era tornata. Vide Chiara che lo salutò con due semplici baci frettolosi su entrambe le guance.
Vai dentro e tienimi un posto in prima fila!” disse lei.
Lui rise, Chiara lo guardò in modo strano. Poi eseguì l'ordine: entrò e prese posto per due in prima fila. La piccola e fredda sala di proiezione, che era al piano sotto la pista da ballo, si riempì in pochi minuti: le persone che prima fumavano e scherzavano davanti al locale, ora stavano in silenzio, in attesa che l'evento cominciasse.
Grazie, ma che hai?” sussurrò Chiara, che nel frattempo si era seduta accanto a lui.
Ho male ai denti!” rispose Lorenzo, tenendo le due mani sulla bocca.
Ogni tanto tossiva. Nel mentre entrarono una serie di donne - italiane e iraniane - dall'aria minacciosa, pronte ad introdurre il filmato. Pochi metri di fronte l'entusiasta Chiara c'era il povero e sudato Lorenzo, che ogni tanto tossiva e soffiava sulle proprie mani. L'introduzione alla serata fu stranamente molto breve, presagio di un lungo dibattito a seguire. Le luci si spensero e partirono le immagini. L'audio era molto basso e per questo dettaglio tecnico - cosa di non poco conto per l'ex supplente - le organizzatrici si erano già scusate.
Il film iniziò con un primo piano di una donna iraniana senza velo, che raccontava nella propria lingua - con sottotitoli in italiano - le tremende violenze che aveva dovuto subire da parte del padre e del fratello, quando abitava con loro a Teheran. Inoltre raccontò lo stupro da parte del suo fidanzato, la coraggiosa fuga in Europa, prima in Francia, poi in Italia. Lorenzo stava soffocando dalle risate. L'aria compressa tra le dita creava un effetto tipo scoreggia. Ne aveva fatte già molte e il film era appena all'inizio. Tutti i presenti se ne erano già accorti; ora stizziti, cominciarono a criticare l'intruso gridandogli “Fuori...vergogna...fuori!”
Chiara non lo guardava nemmeno, fissava lo schermo, fingeva di non conoscerlo. All'improvviso lui liberò le mani dalla bocca, si gettò in terra e scaricò tutte le risate represse. Raggiunse il massimo di intensità, forse la più fragorosa risata della sua vita. Questo - però - era anche l'unico modo per non morire soffocato. Aveva male in tutte le parti del corpo. A quattro zampe - con le lacrime agli occhi - fuggì da quel luogo tra gli insulti, e si ritrovò fuori per le strade della città. Era buio. Si alzò un forte vento improvviso che quasi lo spinse lontano da quel posto; Lorenzo aveva sempre amato il vento, forse era il suo agente atmosferico preferito. E così vagò divertito per le strade durante tutta la notte, tra le lacrime e soffocato dalle risate. Infine si addormentò, sognando di essere a Tokyo, città che ammirava molto anche se non ci era mai stato. Anche in sogno non aveva mai smesso di ridere. Si risvegliò il mattino verso l'alba, con un forte male alla testa, proprio alla fermata del pullman dove tutte le sue disgrazie avevano avuto inizio.
Udì nuovamente quell'orrendo suono di violino e la vecchia voce stonata:
La...la...la...la...la...la...”
Lorenzo si alzò in piedi, lentamente. C'erano quattro o cinque persone che aspettavano il pullman. Il vecchio mendicante passava davanti ad ognuno di loro, ma questi restavano immobili come manichini, finché giunse proprio davanti a lui.
La...la...la...! Hai qualche soldo per un artista?”
Lorenzo lo fissò negli occhi; poi gli urlò:
Brutto figlio di troia! Brutto figlio di troia! E' colpa tua! Mi hai fatto un incantesimo, mi hai rovinato la vita! Testa di cazzo!”
E come dargli torto? Effettivamente tutte le sue disavventure erano cominciate proprio dopo quell'incontro e quella musica vomitevole. Il vecchio smise di suonare il violino.
Che dice Signor?” chiese lui stranito.
Lorenzo gli saltò addosso e i due finirono per rotolare nell'erba lì vicino. Il vecchio gli tirò due cazzotti in faccia e la rissa finì immediatamente. Riprese il suo violino e l'archetto e se ne andò via. Il giovane rimase coricato in quel prato pieno di piccoli sacchetti, con la testa rivolta al cielo tutto bianco. Si sarebbe aspettato un colpo di scena, una frase illuminante, qualsiasi cosa che gli avrebbe finalmente chiarito l'intera sua vicenda; e invece niente, sembrava finita così.
E se fosse stato tutto un sogno?” sussurrò a se stesso.
Però i due pugni presi erano reali e un po' di sangue gli colava dal naso.
Ora non gli veniva più da ridere. Rimase a lungo coricato a fissare il cielo. La nebbia lo avvolgeva e, nonostante il freddo e il dolore che provava in tutto il corpo, finalmente si sentiva felice.
Solo più tardi si alzò per fare ritorno a casa.



LA RAGAZZA CHE SPUTAVA FARFALLE (versione 2015, definitiva)

Quando doveva uscire dal suo appartamento, condiviso con il padre e con la madre, B. guardava sempre dallo spioncino della porta, assicurandosi che sul pianerottolo non ci fosse anima viva. Abitava al quarto piano di un palazzo di otto piani costruito verso la fine degli anni Cinquanta, in un quartiere abbastanza periferico di una grande città. L'ascensore era molto lento, sempre occupato e le scale scivolose: la custode era una grande lavoratrice e ogni mattino, tranne la domenica, lavava con cura maniacale, canticchiando, ogni singolo gradino. Alle dieci in punto la donna giungeva al quarto piano e questo il venticinquenne lo sapeva bene.
B. conosceva a memoria anche gli orari dell'apertura dell'unica porta dell'appartamento di fronte al suo, in cui abitava una famiglia di origine lucana, composta da un signore sulla sessantina, in pensione, sposato con una donna molto più giovane, dalla quale aveva avuto due terribili gemelle che urlavano anche di notte. Ma il problema erano i due coniugi: ogni volta che B. li incontrava, cominciavano a parlare di cucina, dei piatti che avrebbero preparato a pranzo, a cena, e magari nei giorni a seguire. E si sentivano gli odori. Spesso il marito, un uomo con gli occhi chiari, la pelle scura e quasi completamente senza denti, lo intratteneva per decine di minuti parlando di pranzi storici che aveva organizzato in quella casa o in giro per l'Italia (l'uomo aveva vissuto un po' in tutte le città dal Sud al Nord, vendendo frutta e verdura al mercato). Lo invitava dentro casa, ma B. rifiutava sempre, e allora il tutto si concludeva con la solita domanda, che poi dal punto di vista del giovane, pareva più una provocazione:
E allora questi studi come vanno? Tutto bene?”
Certo... sì... tutto bene!”
B. era iscritto a Medicina, un vanto per i suoi genitori, entrambi ragionieri, e forse per l'intero palazzo: ma in verità le cose non andavano affatto. Gli mancavano sei esami, i più difficili, la media dei voti era quasi imbarazzante, e soprattutto, da qualche tempo, aveva perso del tutto la voglia di studiare. Dopo il Liceo Scientifico, che aveva concluso nel 1964, avrebbe voluto intraprendere studi umanistici, perché sognava da sempre di diventare un critico cinematografico o qualcosa di simile. Da almeno sei anni trascorreva un paio di pomeriggi alla settimana nei cinema del centro della città, tutto questo all'insaputa dei suoi genitori. All'inizio ci andava con suo amico, un ex compagno di scuola, che aveva la passione per il disegno; poi rimase solo, da quando l'amico aveva messo incinta una ragazza che avrebbe sposato.
La sera capitava che tornasse a piedi, dopo aver visto un film con Marlon Brando o l'ultimo capolavoro di Bergman. Al padre e alla madre spesso raccontava che era uscito con Marianna, una ragazza con la quale era stato fidanzato, senza provare nessuna emozione, per quasi tutti i cinque anni di scuola superiore. I due si sentivano ancora per telefono, ma non era vero che si frequentavano. B. aveva sempre raccontato che la storia con la ragazza andava avanti, seppur con alti e bassi. In realtà la sua era una scusa, una copertura che durava da molto tempo, per poter andare al cinematografo senza che i suoi lo sapessero.
Era un amore segreto, il cinematografo. Nella sua camera da letto, nascondeva tutto, le riviste, i ritagli di articoli, le immagini dei divi, qualche libro di regia e i suoi quaderni in cui scriveva sui film che aveva visto. Amava soprattutto partire da un attore o attrice, e in poche pagine raccontarne l'esistenza al di fuori della pellicola: il prima e il dopo di un protagonista, la vita di un personaggio marginale. Forse era più un fantasticatore che un interprete, uno spettatore particolare, che da un film partiva per crearne uno tutto suo. Probabilmente non sarebbe stato un bravo critico cinematografico. Amava anche leggere le biografie dei divi, dei produttori e dei registi. La sua stanza era composta da una piccola libreria di spessi libri di anatomia e fisiologia, un piccolo tavolo messo contro la parete pulita, senza poster e quadri o altro, un armadio e un letto. Sotto il letto nascondeva, dentro uno scatolone rosso porpora, i suoi sogni, quei libri, quei ritagli, i quaderni.

Una tiepida mattina di fine ottobre dell'anno 1969, la sua vita cambiò per sempre. Qualche giorno prima la segreteria della sua Università lo aveva convocato per un banale chiarimento burocratico. Solitamente si alzava intorno alle otto, svegliato dai rumori del piccolo ascensore che saliva e scendeva in continuazione - la sua stanza era proprio lì, a pochi metri anche dalle scale – o forse dalla lurida coscienza di cattivo studente mantenuto. Bevve la solita grande tazza di caffè con latte. Andò in bagno, poi si vestì per uscire. Erano le nove, non era abituato ad uscire a quell'ora, anzi, il mattino stava sempre chiuso in casa, seduto alla scrivania a fissare un libro di migliaia di pagine che proprio non gli interessava (e capiva).
Il rischio di incontrare qualcuno sul pianerottolo, in ascensore o per le scale, oltre alla custode, era molto alto: “Dottore come va?”, “Ci siamo?”, “A quando il grande giorno?”, “Hai poi finito?”, “Senti ho fatto delle analisi, se passi un attimo da casa mia, puoi darmi una tua interpretazione, perché io non ci capisco niente?”. Gli inquilini non erano molti, conosceva soprattutto quelli dal quarto piano in giù, i più pericolosi; gli altri dei piani superiori erano quasi degli sconosciuti. La padrona di casa, una signora condannata a vivere su una sedia a rotelle, stava al sesto o al settimo piano: praticamente il palazzo era suo, ma ne aveva altri, e centinaia di appartamenti che affittava e vendeva (così gli raccontò una volta la nonna di B.).
Guardò come sempre dallo spioncino e trovò strada libera. La porta di fronte era chiusa, l'ascensore non era occupato. Uscì, chiuse la porta adagio, e girò la chiave con la mano destra, mentre con l'altra teneva premuto il bottone per far salire l'ascensore. Dalla parte delle scale proveniva una forte luce. Era una bella giornata, c'era anche un po' di vento; i vetri delle enormi finestre del mezzopiano vibravano. Sotto, forse al secondo piano, la custode stava lavando uno dei ventiquattro gradini (per piano), mentre canticchiava una canzone napoletana. L'ascensore stava arrivando: B. teneva pronta la chiave per aprire subito la porta, quando sentì un colpo di tosse di un uomo. Non proveniva dalla casa a fianco, la porta frontale al suo appartamento era molto vicina, quasi attaccata, forse poco più di due metri di distanza: questo rumore indicava una presenza ben più remota, forse qualcuno attendeva l'ascensore, sotto, al piano terra. B. entrò in ascensore e schiacciò il tasto PT. Si specchiò un attimo e pensò ai suoi capelli color castano chiaro che lentamente lo stavano abbandonando, proprio lui che da ragazzino, a scuola, veniva soprannominato 'Ciuffo', per via di quella pettinatura che voleva imitare alla lontana quella di James Dean.
L'ascensore ci mise come sempre troppo tempo. Dalla chiusura della porta alla fine della discesa ci vollero almeno quaranta secondi e per quattro piani erano troppi, una eternità, eppure questo gli dava l'opportunità di preparare la sua solita risposta: “Vado di fretta, un'altra volta, buongiorno, grazie!” Ma al pianoterra non trovò nessuno e nemmeno al portone dell'ingresso. Tanto meglio, pensò. Poteva essere il vecchio del primo piano, un ex impiegato statale, un altro che non si fermava mai al semplice “buongiorno-buonasera” e andava avanti a parlare di sé e a chiedere, domandare, rompere le scatole al povero B.
Un'ora più tardi ebbe una cattiva notizia: un applicato della segreteria dell'Università gli disse, a malincuore, che c'era stato un errore, suo o della segreteria stessa, non si capiva bene. Il signore dall'altra parte dello sportello aveva pure il raffreddore e una certa fretta: il sunto della questione era che B. avrebbe dovuto sostenere un esame in più, aggiunto ai sei che gli mancavano.
Tornò dal centro della città verso casa a piedi, come spesso faceva: finirò a trent'anni o forse non finirò mai più, pensò. Il vento aveva aumentato la sua forza, ma non era un vento gelido. Giunto di fronte al portone del suo palazzo, mentre inseriva la sua chiave, udì una voce femminile gridare “Ehi!”, però il ragazzo non si voltò e aprì la porta. Quando si girò per chiuderla, trovò resistenza. Era una ragazza con i capelli neri lisci a caschetto, gli occhi scuri e la pelle olivastra. Portava un cappotto blu scuro, una sciarpa rossa e uno zaino pieno di libri. I pantaloni a zampa di elefante le nascondevano le scarpe.
Che fai mi chiudi fuori?” gli fece lei sorridendo.
Abitava al settimo o all'ottavo piano, ma non ricordava il suo nome, ne conosceva la sua famiglia.
Scusa ero soprappensiero.”
Succede!”
Torni da scuola?”
Sì, ma non c'era lezione, si faceva altro, sai in questo periodo..”
B. annuì.
Fai il liceo?”
Classico, sono all'ultimo anno. E' davvero dura!”
Arrivarono davanti all'ascensore, occupato.
B. si massaggiò le tempie. Aveva gli occhi un po' arrossati.
Ehi, ma che hai? Ti vedo giù!”
Mi deve essere andato qualcosa negli occhi, con questo ventaccio!”
E anche questo nei capelli..” e gli tolse una foglia.
Grazie!” disse lui.
Un regalo di Eolo” disse lei, sorridendo.
La foglia, minuscola, rotonda, era verde scuro. B. se la mise in tasca. Poi si accorse che la ragazza aveva una farfalla azzurra tra i capelli, o meglio un fermaglio a forma di farfalla, quasi all'altezza dell'orecchio destro.
Ma questo ascensore è sempre occupato?” disse il fuoricorso.
La ragazza perse d'improvviso il sorriso.
Che hai?” chiese lui.
Niente..” abbassò la voce, e avvicinò la bocca all'orecchio del ragazzo, “Sai, ai piani superiori avvengono cose strane...”.
Cosa vuoi dire?” disse lui.
Sia di notte che di giorno, nei tre appartamenti dal sesto all'ottavo piano, si sentono sempre degli strani rumori. E da quella porta escono ed entrano persone un po' particolari...”
Lei chi sarebbe, la padrona di casa, la Signora T.?”
Sì. Io qualche volta li osservo dallo spioncino: è gente sempre diversa e di ogni età. Qualcuno anche straniero, inglese e francese sicuramente.”
L'ascensore si era finalmente liberato; nello stesso istante i due schiacciarono in tutta fretta con l'indice della mano, il tasto dell'ascensore. All'improvviso si udì il rumore di una chiave girata nel portone dell'ingresso.
Un omino dai lineamenti orientali, con i baffetti, il cappello tipo panama, la camicia hawaiana rossa con sopra una giacca scura, si avvicinò. Intanto l'ascensore era arrivato.
Buongiorno! Prego!” disse la ragazza.
L'uomo, di età indefinibile, fece un gesto come a dire 'salite prima voi'.
No..no..prego, salga lei! Noi facciamo ancora due chiacchiere.”
Era praticamente un nano. Teneva una grossa borsa a tracolla. Non disse nulla, entrò dentro e salì, senza salutare.
Quello è il 'giapponese', praticamente è uno di quelli fissi, che vivono con la Signora. Deve essere un figlio adottivo!”
Certo che tu ne sai di cose! Comunque è la prima volta che lo vedo.”
Chiamarono l'ascensore e questa volta salirono.
B. schiacciò il tasto P4.
Il fermaglio che la ragazza teneva tra i capelli sembrava una vera farfalla.
Ci furono dieci secondi di silenzio; poi lei gli chiese, guardandolo negli occhi:
Senti ti va qualche volta di fare due passi al parco qui vicino? Sarebbe bello!”
Certo, quando?” rispose il ragazzo.
Facciamo sabato pomeriggio. Basta che suoni, a qualsiasi ora dopo le tre e mi trovi!”
Va bene, passo sabato dopo le tre. Grazie!”
Allora ci conto, ciao!”
B. entrò a casa sua, si buttò nel letto e pensò a quella simpatica ragazza, spontanea, piena di vita e anche molto carina, eppure non sapeva nemmeno il suo nome. Inoltre avrebbe dovuto suonare al settimo o all'ottavo piano?
Poi pensò alle sue cose. I sette esami, il futuro che non c'era. Doveva prendere una decisione entro la serata, quando i genitori sarebbero tornati. Amava troppo il cinema, avrebbe voluto chiudersi in una sala cinematografica e non pensare più alla sua vita. Ma anche se avesse mollato Medicina che cosa avrebbe fatto?
Prese due soldi e uscì con l'intenzione di andare verso il centro storico per fare una lunga passeggiata. Magari avrebbe trovato una sala, il film giusto.
L'ascensore era occupato, mentre dalla porta dei vicini qualcuno stava per uscire. Udì sbattere una porta anche al terzo piano. Si trattava di una congiura contro di lui? Lì sotto c'erano i peggiori, quelli che ogni volta, da qualche anno, gli chiedevano addirittura il giorno della discussione della tesi di laurea e dove avrebbe fatto la festa. Non avendo scampo, invece di rientrare in casa - ci avrebbe impiegato troppo tempo - scappò verso l'alto, al piano superiore.
Si buttò a terra sul pianerottolo, ansimando, e rimase coricato con la faccia al soffitto fino a quando non sentì aprire anche una delle due porte del quinto. Salì ancora. L'ascensore segnava sempre rosso. Già non ne poteva più. Lo spavento e quegli scatti improvvisi gli avevano fatto perdere il fiato. B. era un grande camminatore, abituato però solo alla pianura. Salì ancora, affannato, per alcuni minuti. Anche se andava piano ed era poco lucido, si accorse che stava continuando a salire, quando in teoria il palazzo sarebbe dovuto finire da un pezzo.
L'ascensore ora era libero. Schiacciò il tasto ma la luce rossa non si accese. Salì ancora. Le porte sembravano tutte uguali, in legno scuro, mentre gli zerbini non c'erano più e nemmeno i vasi con le piante. Guardò i nomi dei campanelli e le targhette erano vuote.
Così decise di scendere: lo fece per alcuni minuti. Provò ad urlare. Bussò a tutte le porte, “Aiuto!”, mentre le grandi finestre con vetri opachi, nei metà-piani, proprio non si aprivano. Svenne prima di poter ricavare una propria conclusione filosofica su se stesso, il genere umano, la vita, l'universo.

E questo coglione dove cazzo lo hai trovato?”
B. aprì gli occhi e vide la faccia del piccoletto, quello che la ragazza chiamava il 'giapponese', ma a parlare non era stato lui.
L'ho trovato addormentato davanti alla porta dell'ultimo piano” sussurrò l'uomo.
Dove sono?” chiese il ragazzo, che si trovava in un letto, con la testa appoggiata su un cuscino.
Sei all'inferno caro mio bel ragazzo, all'inferno!”
Finalmente, girandosi da una parte vide una donna sulla sedia a rotelle, vestita in modo elegante, tutta di rosa, piena di collane di perle, braccialetti d'oro e altro; portava anche un paio di occhiali da vista con le lenti enormi, leggermente scure. Il 'giapponese' era senza cappello ed era completamente pelato. Ora gli sembrava un giovane uomo, riusciva quasi a dargli un'età approssimativa, trentacinque anni, non di più. La donna ne aveva almeno dieci di più. Era una bella signora, bionda, e nella stanza, piccola e poco illuminata per via delle tende chiuse, si sentiva solo il suo forte profumo all'arancio.
Io la conosco, lei è la Signora T., la padrona di casa e di questo palazzo!”
Signorina, prego! E poi tu chi sei, l'investigatore Marlowe?”
Magari... sono solo lo studente di Medicina che abita al quarto piano!”
Allora mi dia il libretto universitario, subito!”
Come?”
Questa era una battuta. Quarto piano di cosa, di quale palazzo? Io ne ho almeno cinquanta. Che sta dicendo? Cosa vuole, chi cazzo è questo qua, Johnny?”
Non lo so, deve essere quel ragazzo del quarto piano, di questo palazzo.”
Pagano sempre l'affitto? Con puntualità?”
Sempre, sono tra i migliori. Lui deve essere il figlio, uno che vedo passeggiare sempre solo. Non so altro.”
Beh allora rimettilo in ascensore! Saprà premere un tasto o no?”
B. era confuso, fissava la Signorina.
Che cazzo hai da guardarmi! Vuoi che ti portiamo giù in braccio?”
Il piccoletto Johnny non sorrise. Sembrava una maschera, sempre impassibile.
Cosa... cosa...?”, disse B.
Cosa... cosa... ti sembro Parmenide? Non capisci quello che dico! E' così complesso? Mio Dio, ma questo è proprio rincoglionito! Portalo sopra e fagli fare un caffè da Teresa o Maria, che io devo andare all'ottavo per la mia proiezione!”
Il ragazzo si alzò dal letto.
Aspetti Signorina! Quale proiezione?”
Ti spiego tutto subito perché sono una persona che ama la chiarezza e l'essenzialità: questa non è una casa, ma un luogo dove ci si diverte sempre, perché noi amiamo la bellezza. Sai che cos'è la bellezza, ragazzo?”
Sì... per me la bellezza è il cinematografo! Solo quando mi chiudo in una sala buia, solo quando si accende un proiettore che infiamma un telo bianco con le immagini di un film, anche un brutto film, per me è bellezza. Io mi sento libero, io mi sento vero solo in quei momenti. Per me tutto il resto è finzione!”
La donna si accese una sigaretta e fece una breve pausa. Poi disse:
Allora benvenuto all'inferno, amico mio! Fai vedere la casa a questo giovane. Per la proiezione del film di Billy Wilder attenderò in sala: trenta minuti massimo! Fai una cosa veloce: per i dettagli ci sarà tempo. Stasera c'è anche la festa!”
Johnny lo accompagnò come se si trattasse di una visita guidata in un museo. E ci volle ben poco perché il giovane comprendesse che era finito in un luogo davvero particolare e affascinante. L'appartamento in cui si trovavano era al sesto piano ed era doppio o meglio unificato: tutto il sesto piano del palazzo era della Signorina. Oltre duecento e quaranta metri quadrati, pensò B., poiché quello in cui abitava con la sua famiglia era circa la metà, centoventi. La stanza dove si era svegliato era molto piccola, con un letto a due piazze, una finestra chiusa e coperta del tutto da una tenda, un armadio alto quasi tre metri di legnaccio scuro e largo non più di un metro e mezzo, che lambiva il soffitto.
Johnny non sembrava proprio una persona che amasse parlare. Più che altro sussurrava, in lingua italiana senza fare errori: aveva un accento neutro, sembrava un robottino. Non si fermava mai sui dettagli. Apriva le porte di ogni stanza: c'erano le stanze degli ospiti, ben cinque, essenziali come quella in cui si era risvegliato, ed erano tutte concentrate in una parte dell'appartamento. Nel corridoio con le pareti bianche, alcuni quadri in cui il soggetto era sempre un paesaggio come una montagna, il mare, un lago, un vulcano, una foresta, le dune di un deserto, si alternavano a piccoli specchi con cornici dorate apparentemente antiche. I vetri degli specchi erano puliti. Il pavimento era in legno chiaro. Il bagno, in fondo al corridoio, era molto grande: c'era una grande vasca azzurra; la finestra era chiusa, tutto brillava.
Il bagno degli ospiti.”
A fianco del bagno, il ragazzo scorse la presenza di un vero ascensore interno alla casa.
Dall'altra parte c'era la zona della Signorina e delle persone che l'assistevano, ed era privata, esclusiva, una zona inaccessibile, gli spiegò il piccoletto.
Lì non si può andare, chiaro?”
Giunsero in un salotto, con poltrone, divani, un televisore molto grande, un tavolino in vetro e una grande finestra con le tende tirate e una porta che conduceva ad un balconcino identico a quello di casa sua. Finalmente un po' di luce, pensò il ragazzo.
Una porta bianca presente in quel salotto portava alla zona privata; i due tornarono indietro, attraversando di nuovo il buio corridoio e giunsero di fronte all'ascensore interno. Johnny schiacciò il tasto rosso. B. era incredulo: come era possibile che in un palazzo potesse esserci un ascensore privato? Era anche un po' più spazioso rispetto a quello che usavano lui e gli altri condomini. Non aveva lo specchio interno. Si apriva in modo semplice, senza chiave, tirando verso di sé la porta bianca, identica a tutte le altre della casa. Se non fosse stato per il bottone, che era solo ad un metro dal pavimento, nessuno si sarebbe accorto di quella strana presenza. Entrarono. Era buio. Le pareti erano di legno. C'erano solo due tasti, uno per salire e uno per scendere. Andava lento e faceva meno rumore dell'altro ascensore.
Il settimo piano era un altro mondo, praticamente un corpo unico, senza pareti divisorie, tranne in un punto, dove c'erano le scale e l'ascensore del palazzo. Anche qui le finestre erano coperte da tende rosso porpora. Il pavimento era in legno, le pareti spoglie e completamente bianche.
Da una parte c'erano dei tavolini, almeno una decina, rotondi, scuri, forse di marmo, con delle sedie, eleganti, quattro, tre, due per tavolo. Più in là il bancone del bar, con centinaia di bottiglie.
Nella stanza oltre il bancone c'era una cucina in stile moderno italiano anni Sessanta: in quel momento una donna sulla cinquantina, canuta, con la pelle bianchissima, stava preparando il caffè. Il tavolo a forma rettangolare, aveva dieci sedie.
Ecco signore” disse lei con gentilezza.
Aveva un forte accento meridionale (forse calabrese, come il padre di B.). Versò in una tazzina verde il caffè bollente.
Ho già messo due cucchiaini di zucchero” disse la donna.
Johnny lo aspettava seduto, mentre dalla tasca tirò fuori una minuscola agenda e la scrutò per qualche momento. B. lo bevve in piedi. Poi tornarono indietro. Nello spazio di fronte ai tavolini c'era un grande vuoto, come se si trattasse di una pista da ballo. In fondo, in un angolo, un pianoforte a coda, nero. Altri strumenti erano appoggiati in terra, ma chiusi dentro le rispettive custodie. Oramai non aveva più dubbi, si trovava in un piccolo locale dove si suonava dal vivo e si poteva bere, ballare e anche appartarsi in una zona poco illuminata, su degli enormi cuscini-divani a forma di labbra, cinque in tutto. C'era anche un piccolo bagno.
Presero l'ascensore per l'ottavo piano, il terzo appartamento. Ed era lì che la Signorina li attendeva. Intanto il giovane stava per svenire nuovamente, nonostante tutto quello che aveva visto fino a quel momento fosse già da capogiro, così assurdo e tremendamente eccitante: visitare una sala cinematografica, seppur per poche decine di spettatori, non gli poteva sembrare vero. Nell'ingresso appena fuori dall'ascensore, attaccate alle pareti, c'erano delle locandine, grandi come quelle dei cinema, di film importanti come Gilda, La febbre dell'oro, entrambi in lingua italiana e Ladri di biciclette, stranamente in lingua inglese. E ancora, di dimensioni ridotte, locandine in lingua francese, La grande illusion di Renoir e, un po' sorprendentemente, A bout a souffle, del giovane regista Godard, un film mitico secondo B.
Sempre nel piccolo ingresso c'erano centinaia di libri sulla storia del cinema. Prima di entrare nella sala cinematografica, B. fissò per un attimo quei libri; ne aveva già riconosciuto qualcuno che possedeva lui stesso, quelli nascosti sotto il suo letto, dentro quel suo scatolone.
I veri libri sono sotto, nell'area inaccessibile della Signorina, in una stanza dove lei qualche volta si ritira per riflettere e studiare. Ma è una donna generosa, e qualche volta se le chiedo un libro che vorrei leggere nella mia stanza o in salotto, dopo poco tempo ecco che lei me lo porta.”
B. sentiva l'odore del proiettore.
Dentro, venite..!” urlava la donna.
Superate la tende purpuree a spacco, entrarono nella sala, larga almeno cinquanta metri quadri, con tre file da cinque posti per ciascuna fila. Lo schermo bianco era due metri in lunghezza e quattro o cinque in larghezza, e non poteva essere altrimenti, poiché si trattava di una stanza da appartamento adattata a cinema; l'altezza del soffitto non superava i tre metri.
La sala era interamente tappezzata di marrone scuro. In fondo c'era una piccola cabina per il proiettore e il proiezionista, rialzata di mezzo metro.
Qui posso fumare solo io!” disse la Signorina in prima fila, messa al fianco della quinta sedia, parlando loro di spalle.
Le luci erano accese, ma molto deboli.
In questo piano è proibito fumare, le pellicole sedici millimetri sono come benzina!” ribadì la donna.
Certo, lo so...l'ho letto su molti manuali” rispose il ragazzo.
Allora che ne pensi? Lo sai che ho migliaia di copie? Basta che alzo il telefono e in mezza giornata posso farmi arrivare il film che voglio!”
B. si era finalmente accorto che la donna aveva un leggero accento francese, anche se il suo italiano era limpido, senza errori.
E' incredibile! Sono senza parole! Che film di Wilder stavate per proiettare?”
Non lo so, ero indecisa tra Irma la dolce e L'appartamento. Ieri ho rivisto Giorni perduti, buon film! Ho pianto tanto.”
Mi scusi Signorina, posso farle una domanda che non c'entra niente? Ma lei è francese?”
E a te che cazzo te ne frega stronzo!”
B. rimase di sasso, pensava che la donna avesse superato quell'aggressività dei primi minuti.
Mi scusi, non sono affari miei!”
Intervenne il piccoletto, sempre sussurrando:
La Signorina non ama parlare di sé, del suo passato, delle cose che riguardano il tempo. In questa casa esiste solo l'attimo, quello che avviene o è avvenuto al di fuori non ha alcuna importanza, anzi direi che non esiste proprio nulla oltre queste mura. Qui abbiamo tutto ciò che occorre per essere felici e...”
Lascia perdere, se ne renderà conto molto presto. Comunque sono nata e cresciuta a Parigi: padre francese e madre italiana. Fine della storia. Sbrighiamoci. La festa si avvicina. A te la scelta del film.”
John Huston!” disse lui con entusiasmo.
John Huston cosa?” rispose lei.
E' un grande regista, ma ho visto solo una volta Giungla d'asfalto e Sterling Hayden è uno dei miei attori preferiti. Vorrei rivederlo”
Segna, per il pomeriggio di domani, sarai accontentato. Te l'ho detto, puoi vedere tutti i film della storia del cinema. Io ti faccio portare qui in due giorni pure le pizze dall'Indonesia o di un cortometraggio di un regista dell'Isola di Pasqua. Ti porto pure lui in persona a presentarlo! Ed ora basta! Decido io il film, stiamo perdendo tempo: L'appartamento.. vai Johnny..!”
Uno dei film più riusciti di Wilder, pensò B., che intanto si sedette in terza fila.
Vai Johnny..vai..uuuuh” continuava ad urlare la signorina con furiosa gioia.
Il film cominciò. Il piccoletto sembrava esperto; forse era lì per quello, faceva il proiezionista? Prendeva le pellicole sedici millimetri da un loro magazzino e le portava alla Signorina? Un proiezionista-assistente personale, un tuttofare della donna?
L'audio era buono: le due casse fissate in alto, le immagini a fuoco, in certi momenti un po' sgranate, quel rumore delle bobine che giravano nei due rulli, le comode poltrone blu imbottite: l'odore del cinematografo era sempre lo stesso. Mancavano le persone, ma raramente B. capitava in serate piene di spettatori, anzi, a volte preferiva la sala silenziosa dello spettacolo pomeridiano, senza dover fare la coda per il biglietto. Per lui il cinematografo era un luogo di riflessione, in cui entrava con la speranza di trovare il suono profondo della propria anima; ma era anche una forma di intrattenimento puro, il più lontano possibile dalla vita reale.

Bellissimo!” urlò.
Finito il film la donna era commossa. Si accesero le luci, e voltandosi guardò B.
Allora ragazzo, che dici?”
Non saprei, sono ancora molto preso dall'interpretazione di Jack Lemmon!”
Preso? Parli di emozioni? Ma noi dobbiamo fare un dibattito serio, altrimenti che senso ha guardare un film così?”
Ma quale dibattito? Io detesto i dibattiti!”
Ah..ah.. Ma ti sto prendendo in giro! Dibattito? Ah..ah.. neanche fossimo in quindici, qui dentro, in questa mia casa non ci sarà mai nessun dibattito! Su, ora vai a farti bello per la festa..”
Poi aggiunse rivolgendosi al piccoletto:
Io devo fare alcune telefonate. Scendo prima io, a dopo!”
Poco più tardi Johnny lo accompagnò nella piccola camera dove era rinvenuto poche ore prima. Gli spiegò che doveva lavarsi e poi avrebbe dovuto pensare ai vestiti, poiché quelli che aveva indosso non andavano bene: jeans, maglione a righe, scarpe da ginnastica, giacchetta nera.
Oramai era giunta la sera e B. non aveva alcuna intenzione di uscire da quella casa, almeno per il momento. Fuori lo attendevano solo cose brutte, grandi responsabilità che in quel momento non avrebbe saputo affrontare.
Si coricò. Le coperte del letto erano di lana morbida. Non gli venne neanche la voglia di aprire le tende e vedere fuori dalla finestra. Pensò ai suoi genitori, sicuramente preoccupati per il suo ritardo, però aveva deciso che sarebbe rimasto lì.
I suoi pensieri vennero subito interrotti da una signora molto grassa, con gli occhiali spessi e i capelli bianchi molto corti.
Devo misurare.. per i vestiti!” disse lei, aggiungendo:
Desidera qualche cosa in particolare?”
No!” rispose lui.
Si può spogliare?”
Come?”
Può farmi vedere che mutande porta. E le calze e la canottiera?”
B. non fece opposizione, in fondo non era nemmeno tra le cose più strane avvenute fino a quel momento. La donna, evidentemente una sarta, gli misurò quasi ogni parte del corpo.
Subito dopo il giovane andò a fare una doccia calda: lei gli aveva lasciato un accappatoio color verde smeraldo. Non sapeva bene quanto tempo fosse rimasto in quel confortevole bagno, ma quando tornò nella sua stanza, trovò l'armadio pieno di vestiti particolarmente eleganti e un foglio in cui veniva spiegato come indossarli. I suoi abiti originari, invece, erano scomparsi, tranne il portafoglio che era rimasto appoggiato sul cuscino del letto: a parte duemila lire, mancavano la carta d'identità, la tessera della biblioteca, un piccolo ritratto del suo gatto, che B. aveva fatto a matita circa un anno prima.
Li avrò lasciati a casa? Possibile? O li avrà presi la sarta?” pensò.

Non sapeva che ore fossero quando il citofono del sesto piano cominciò a suonare senza sosta, e poi il campanello della porta, la gente che entrava in casa, giubilante, le risate, gli idiomi che si mischiavano, il francese, l'inglese, lo spagnolo, ma anche l'italiano con i vari accenti, soprattutto il napoletano, mentre B. stava chiuso in quella che era la sua stanza provvisoria, in piedi, con l'orecchio teso alla porta, impaurito da tanta confusione, irrigidito da quei vestiti eleganti che mai aveva portato in vita sua.
Guardò l'armadio con un certo disprezzo perché gli sembravano più dei costumi di scena per un ruolo di aristocratico decaduto, e ciò che aveva indosso era una marsina giallognola che arrivava alle ginocchia, un lungo gilè rosso e braghe corte, roba che forse aveva visto in un film sulla Reggia di Versailles? Portava anche delle scarpe marroni con il tacco rosso. In testa aveva una parrucca di lana. Era una festa in maschera? La Signorina teneva alle sue presunte origini di aristocratica francese e tutti gli ospiti ne erano rappresentanti? Si sarebbe dovuto vestire con gli altri abiti presenti in quell'armadio anche per andare a vedere il film scelto per il pomeriggio? E dopo, se fosse rimasto ancora un po', come avrebbe potuto vivere nel quotidiano con tanta scomodità?
La nuova biancheria intima, mutande e canottiera, erano gli unici indumenti legati al suo tempo.
Prese coraggio e uscì dalla stanza. Il corridoio era un tunnel nebbioso senza alcuna presenza umana, ma all'ingresso una folla stava aspettando l'ascensore fumando sigarette e sigari, mentre una donna ritirava le loro giacche.
La prima cosa che notò in questo gruppetto era che nessuno vestiva come lui e questo fu un sollievo. Inoltre erano quasi tutti abbastanza giovani, sulla trentina o poco più; B. conosceva un po' il francese e meglio l'inglese che aveva imparato guardando i film in lingua originale, con i sottotitoli, in un cinemino ai piedi delle colline, vicino al centro storico della città.
Ah ah ah, ma guarda questo qua!” disse uno biondo, probabilmente romano, vestito con camicia hawaiana (o californiana?) rossa. B. si avvicinò a loro, tutti vestiti in maniera estiva, comprese due donne, una con gli occhiali da sole.
Prego Re Luigi!” disse il biondo, ora composto.
Grazie” rispose lui con distacco ed entrò nell'ascensore, da solo.
Salì al piano superiore. In pochi attimi capì di essere finito alla festa sbagliata: la Signorina lo aveva preso in giro.
Si udivano da sopra famose melodie di canzoni americane, probabilmente dei Beach Boys; la gente urlava, sembrava già eccitata dall'alcool e forse da altro.
B. decise comunque di reggere il gioco al proprio personaggio, e di rimanere serio il più a lungo possibile.
Al suo arrivo al piano risero tutti. Qualcuno applaudì. B. passò in mezzo ad una cinquantina di persone; si stava molto stretti, c'era chi urlava “Whisky! Whisky!”. La Signorina stava vicino al pianoforte, muovendo a tempo la testa. Era vestita con un abito da sera nero. Il piccoletto non si vedeva. Sembrava una festa vicina alla moda 'surfers', ma erano presenti anche personaggi vestiti con giacca e cravatta: uno di questi, molto vecchio, ballava strusciandosi sul corpo di una bella giovane.
Grande...grande, yeah...!” urlò a B., che intanto si dirigeva al bancone in cui venivano serviti whisky, cocktail, vino, birra e altro da una bella ragazza che parlava solo in inglese.
Ordinò in lingua inglese un jack daniel's senza ghiaccio, ma la ragazza, forse distratta dall'abbigliamento di B., mise dentro tre o quattro cubetti di ghiaccio, e rise.
E' incredibile, pensò, poche ore prima questo luogo era solo una grande stanza completamente vuota ed ora.. ma tu guarda..! Si appoggiò al bancone. Dall'altra parte la Signorina si voltò per un attimo e gli fece l'occhiolino, o almeno così gli parve, poiché a dividerli c'erano troppe persone (inoltre lei aveva quegli occhiali abbastanza scuri).
All'improvviso un uomo di colore estrasse il suo sax, e accompagnato dal pianista, suonò per ore una musica bellissima che B. non aveva mai udito in vita sua. C'era sempre più gente e confusione: Fellini non avrebbe potuto immaginare di meglio.
Il quarto jack gli fece perdere la sua timidezza, baciò in bocca molte donne, forse anche qualche uomo, e alla fine si ritrovò a letto con la barista e una sua amica di nemmeno vent'anni, che la ospitava a Milano. La barista diceva di essere del Montana, U.S.A.! Quella notte B. aveva conosciuto almeno un centinaio di persone, ma non si ricordava nemmeno un nome o un dialogo o un volto.
Si svegliò nudo tra le braccia delle due sconosciute quando qualcuno bussò alla sua porta: era il piccoletto Johnny che gli ricordava la proiezione del film di Huston.
Tra dieci minuti si inizia. Sarai solo in sala. Fai presto che poi ho altri impegni!”
Certo. Grazie!” rispose. Non aveva fame perché per tutta la notte aveva mangiato parecchi stuzzichini, soprattutto quelli con il salmone affumicato.
Nell'armadio ritrovò i suoi vestiti, le scarpe da ginnastica e il suo documento d'identità, oltre alla tessera della biblioteca e al ritratto del suo gatto. Degli abiti da aristocratico nessuna traccia.
Si rivestì. Uscì dalla camera. Nel corridoio tutte le altre stanze sembravano occupate, e in una qualcuno russava. Provò ad andare in bagno, ma era chiuso a chiave. Salì fino all'ultimo piano e per prima cosa andò in quello dell'ottavo piano, al quale però mancava lo specchio.
Terminate le sue cose, si sedette al centro della vuota sala, e il film cominciò immediatamente. Era ancora assonnato, non aveva mai visto una pellicola in un cinema dopo una sbronza e con il mal di testa. (Era stata anche la prima volta con due donne contemporaneamente).
Fu comunque un dolore emozionante vedere quell'omaccione di Sterling Hayden stramazzare a terra nel luogo in cui era cresciuto, morire nell'erba, tra i suoi cavalli. Per questo personaggio B. non aveva mai inventato una vita felice, e nemmeno per il 'dottore', interpretato da Sam Jaffe, il quale, ad un passo dalla libertà, viene arrestato, perché rimane a guardare una ragazza che balla vicino al juke-box. Non sempre il giovane riusciva a fantasticare su un'altra possibile esistenza dei personaggi che vedeva sullo schermo: alcuni gli sembravano perfetti così come erano, chiusi nella loro grandezza, inaccessibili alla sua fantasia, senza un prima e senza un dopo, e scrivere sarebbe stato inutile.
Quando si accesero le luci, il giovane si accorse che il piccoletto era stato sostituito da un uomo sulla trentina, con i capelli neri corti, i baffi, la pelle scura, la camicia bianca fuori dai pantaloni.
Buongiorno signore, io sono il proiezionista, mi chiamo Mike.”
Buongiorno Mike, io sono B.!”
Lo so, vuoi vedere altro signore? Quando vuoi vedere altro, devi scrivere su questo foglio il titolo e in poco tempo troverò il film.”
Grazie Mike!” e B. scrisse senza pensarci una decina di titoli, tra cui un film di Dreyer, Ordet, che purtroppo non aveva mai visto, mentre gli altri film li conosceva bene, ma avrebbe voluto rivederli all'istante.
Il proiezionista poteva essere sudamericano. B. spinto ancora una volta dalla curiosità gli chiese:
Scusa Mike, di dove sei?”
Di questa casa” rispose, poi aggiunse:
Bene, li abbiamo tutti i film, due sono qui. Vuoi vedere?”
Sì.”

Rimase in quella sala per svariate settimane o forse per mesi, vedendo solo film. Ogni tanto parlava con Mike, ma di cose pragmatiche, non facevano mai discorsi che finissero sul personale e nemmeno discussioni sulle pellicole. L'uomo era anche molto geloso del suo proiettore sedici millimetri, non amava che lo spettatore si avvicinasse ad esso o che chiedesse dettagli tecnici sul suo funzionamento. Al ragazzo, comunque, interessavano i film, e ne guardò molti: film con Marlon Brando e con James Dean, i film di Bergman degli anni Cinquanta, tra cui Un'estate d'amore, le comiche mute di Charlot, un film con Totò e alcuni con Alberto Sordi, almeno dieci film con Bogart, e poi Il carretto fantasma, tre film di Murnau, tre film con Greta Garbo e altri film classici di Hollywood, Come foglie al vento, i musical, alcuni film di John Ford, Kurosawa e un film di Ozu, e tanti altri, francesi, soprattutto Renè Clair, Godard e Jacques Tati. E ancora film russi, film inglesi, film messicani, film spagnoli, insomma, passava da un film all'altro, da un genere ad un autore sempre diverso.
Scoprì che gliene mancavano ancora molti da vedere, un numero quasi infinito, e così la sua fame di cinema aumentava. Dopo la sesta proiezione consecutiva si addormentava sulle comode poltroncine. Il bagno era a pochi passi: Mike aveva provveduto a tutto, spazzolino, asciugamani, vestiti di ricambio e soprattutto gli portava il cibo su un vassoio ogni tre visioni. Avrebbe potuto vivere così per sempre, dentro quella sala buia, senza conoscere più la differenza tra la notte e il giorno. E così stava già accadendo. L'unica interferenza era ciò che appariva dallo spioncino della porta chiusa a chiave di quell'ottavo piano, e mai più aperta.
Fermo signore, dove vai?” gli ripeteva per l'ennesima volta Mike, ma lui guardava la ragazza che aveva conosciuto durante il suo ultimo giorno nel mondo reale.
Niente!” rispondeva.
Se aveva oramai dimenticato la sua famiglia, i suoi studi in medicina, gli ex compagni di scuola, le strade della città, la ragazza senza nome gli era rimasta dentro come un cortometraggio proiettato continuamente nella sua testa e con continue varianti, ma sempre con lo stesso finale: “Allora ci vediamo sabato pomeriggio, ciao!”
Inoltre lei abitava proprio lì, solo una porta chiusa, un pianerottolo, e un'altra porta li divideva.
Ma riuscire a vederla fu un caso e anche una grande fatica. Durante le pause in cui non venivano proiettati film, Mike viveva al sesto piano, mentre B., sapendo che era giorno (poteva aprire le tende, ma il balcone era inaccessibile, la porticina era chiusa con un grande lucchetto e inoltre non c'erano orologi), aspettava che lei uscisse dall'ascensore o dalla porta di casa. Una volta aveva visto il padre e due volte la madre - e anche la custode che lavava le scale e il pianerottolo-, infine lei, senza più quella sciarpa rossa, ma con i pantaloni lunghi e una felpa sportiva, a volte blu: portava sempre i capelli a caschetto e quel fermaglio a forma di farfalla. Una volta era pure inciampata uscendo dall'ascensore, facendo sorridere lo spione. Quanto era graziosa.
B. teneva nella tasca destra dei jeans quella foglia che lei gli aveva tolto dai capelli. La foglia stranamente non era secca, e il suo verde scuro era lo stesso di qualche mese prima.

Verso la fine della primavera, il ragazzo non era ancora uscito da quella saletta cinematografica. Si era anche dimenticato della Signorina e del piccoletto. L'unico suo contatto con gli esseri umani rimaneva Mike, che continuava a fargli da proiezionista e da cameriere. Poi, un bel giorno, durante la proiezione di un film di Marcel Carnè, Les enfants du paradis (versione senza tagli e in lingua originale), una volta accese le luci della saletta, si ritrovò dietro di sè la Signorina T., con le lacrime agli occhi e Johnny, impassibile, seduto nell'ultima fila, con le mani affondate nelle tasche della giacca nera.
Quando Mike mi ha detto che avevi scelto questo film, sono venuta quì!”
Buongiorno.. buonasera..!” disse lui alzandosi in piedi.
Buonanotte! Seduto! Non interrompere la Signorina!” disse il piccoletto.
Dicevo.. è uno dei miei film preferiti! Non dovrei vederlo, perché mi fa star male!”
Si avvicinò a lui, mentre Johnny rimase seduto in fondo. Si asciugò le lacrime con un foulard bianco, e dopo un colpo di tosse, la sua voce tornò normale.
Noi dobbiamo parlare, amico mio!”
Aveva un profumo molto forte e un altro foulard, azzurro, attorno al collo. Il rossetto le lambiva quasi le narici del naso. Era sempre difficile capire se la donna lo guardasse negli occhi, per via di quegli occhialoni con le lenti un po' scure.
Intanto è inutile chiederti come va? Credo tu stia bene, anzi non ho dubbi, ne sono sicura..”
Sì, sono felice, è il momento più bello della mia vita, è sempre ciò che ho sognato!”
Bene! E allora cosa hai da guardare dalla porta?”
Quale porta?”
D'impeto la donna lo prese dalla camicia, strattonandolo, poi gli tirò alcuni schiaffi in faccia. Il ragazzo non reagì.
Quale porta? Quale porta? Hai fatto tanto per rimanere qui! Figlio di troia! Noi facciamo dei sacrifici per mantenere i tuoi sogni ed ora tu vuoi andartene via?”
No, voglio rimanere qui, per sempre! Non voglio andare da nessuna parte! Sì,è vero.. è vero! Ogni tanto ho guardato quella ragazza che abita accanto. L'ho conosciuta un po' di tempo fa, ma non volevo aprire la porta, mai l'avrei fatto, a me interessa vivere qui!”
La donna appoggiò le spalle contro lo schienale della sedia a rotelle.
Ti credo, ti credo! Basta così! E' stato sicuramente un momento di debolezza! D'altronde sei ancora giovane! E comunque la porta è sigillata! Ora però è arrivato il momento di darti una grande notizia: presto tutto il palazzo sarà a nostra disposizione!”
La prima cosa che B. pensò non fu quella di chiedere dei suoi genitori, la loro reazione dopo la sua scomparsa, come stavano e dove sarebbero andati a vivere. La loro esistenza non gli importava più e nemmeno la sua: gli interessava solo la ragazza. Non l'avrebbe più rivista e in quel momento sentì i brividi in ogni parte del suo corpo.
Beh.. non sei contento? A cosa stai pensando? I tuoi genitori stanno bene, tranquillo! La polizia ti ha cercato, ma Johnny è un genio, ha sistemato tutto: non sei morto, perché vivi alle Hawaii! Hai capito? Sei fuggito lì per amore, un colpo di fulmine e via.. E in Europa non vuoi tornare. L'hanno bevuta tutti, i tuoi, la polizia. Le indagini sono chiuse da tempo. Ogni tanto gli scrivi delle belle lettere rassicuranti, prometti che magari un giorno, chissà, tornerai, ma per ora no! Perché stai bene lì, in quella meravigliosa isola. D'altronde è vero che stai bene, no?”
Si, molto! Grazie!”
In questo periodo ti sei perso un sacco di feste, peccato, mi dispiace! Comunque tra pochi mesi cominceranno i lavori ed entro due anni avremo otto piani tutti per noi”
E il cinema?”
Il cinema rimarrà all'ottavo, lo ingrandiremo. Ho molti amici che mi hanno chiesto perché non proiettavo più film e ho deciso che così sarà! Nessuno a parte te, me, Johnny e Mike, o altri addetti della casa potranno salire quassù. Ma per questo dobbiamo fare un patto!”
Sono pronto a tutto!”
La donna gli tirò uno schiaffo, meno forte, quasi un buffetto. Poi gli fece l'occhiolino e se ne andò.
Preparati, domani c'è una grande festa rock'n'roll. Tutti i pezzi del '57..Uhhh!” gli urlò da lontano.
A quel punto si alzò Johnny che gli spiegò, come sempre a bassa voce, alcune regole. Per circa due anni avrebbe dovuto vivere in una stanzetta del sesto piano. Gli avrebbero aggiunto un tavolino per le sue letture sul cinema e un proiettore otto millimetri facile da usare per la proiezione di qualche film. Inoltre ci sarebbe stato il televisore nel salotto. Una volta terminati i lavori, sarebbe tornato al piano - nuovo - del cinema, e avrebbe dormito in una stanza fatta apposta per lui.
Ma sui lavori della casa non aggiunse molto altro.
Le feste sarebbero continuate ancora per qualche mese, poi averebbero ristrutturato anche il settimo: B. poteva parteciparvi, ma solo ad alcune condizioni, e la prima era di natura scenica.
La Signorina amava stupire: introducendo un elemento estraniante che non c'entrasse nulla con il tipo di festa. Il ragazzo si sarebbe dovuto vestire una volta da Napoleone, una volta da Giulio Cesare, da Casanova, da Cavour e altri ancora, cercando di recitare la parte il meglio possibile, almeno per una notte. Anche a letto con le ragazze - perché dopo le feste tutti in un modo o nell'altro ci finivano - avrebbe dovuto fare sesso alla Napoleone, come Casanova, come Cavour..
Inoltre il mascheramento serviva per non essere riconosciuto; mai avrebbe dovuto parlare di sé. Gli era vietato uscire dal palazzo, mentre sul balcone ci poteva stare solo se avesse messo una maschera. Non poteva usare il telefono, e in caso di malore avevano a disposizione alcuni medici personali. Se si fosse ammalato in modo grave, pazienza, in ospedale non avrebbero potuto portarlo e sarebbe morto lì, in casa, e amen.
Infine se un giorno tenterai di scappare da qui, dovrò ucciderti!” aggiunse Johnny.
Uccidermi?”
Si, ma non preoccuparti. Sono sicuro che vivrai più che bene da noi, quindi ti diamo ufficialmente il benvenuto!”
Gli tese la mano, poi lo abbracciò, senza sorridere, infine si allontanò.
B. rimase spiazzato più dal gesto di affetto, che dalle tante novità. Lo richiamò più volte: “Johnny.. Johnny!” quando l'uomo era oramai davanti all'ascensore. Allora B. gli andò dietro.
Johnny! Senti, una cosa però devo proprio chiedertela!”
Dimmi!”
Ma tu sei per caso giapponese?”
E a te che cazzo te ne frega, stronzo!” entrò in ascensore, sbattendo forte la porta, e scese giù ai piani inferiori.

FINE PRIMO TEMPO





Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era chiuso dentro quella stanza al sesto piano, dalla quale usciva solamente per attraversare il corridoio che portava dritto al bagno; oppure andava in salotto e sul balconcino, qualche volta. Ogni giorno una giovane donna si prendeva cura di lui: gli portava da mangiare, i medicinali per le forti emicranie, i libri sul cinema, le pellicole otto millimetri (la sua più grande soddisfazione, le proiettava senza alcun aiuto). Gli lavava i vestiti e lo faceva sfogare come poteva. Dopo un certo periodo la donna veniva sostituita: nessuna di loro parlava né l'italiano né il francese o l'inglese. Forse erano tutte dell'est dell'Europa. Bruttine e sempre molto gentili: la mente, l'idea di chi le mandava era quella di non farlo innamorare, ma nemmeno quella di farlo impazzire di astinenza. Ogni tanto, oltre che a letto in dolce compagnia, faceva altri tipi di esercizi fisici, come una breve corsa in corridoio, flessioni, addominali.
Non fu facile vivere in quelle condizioni. Il palazzo tremava dalla mattina alla sera, gli operai lo stavano rivoltando. B. era costretto a mettersi una maschera nera quando usciva a prendere aria sul balconcino. Ogni tanto ritrovava con piacere nel salotto del piano il caro Johnny, mentre della Signorina non aveva più avuto notizie e ovviamente non avrebbe osato chiedere: la sua parte d'appartamento rimaneva inaccessibile e silenziosa.
Come va?” gli chiedeva ogni tanto il piccoletto, mentre guardavano un film western alla televisione (i telegiornali non li seguivano mai, mentre Johnny era fissato con i quiz e i documentari di divulgazione scientifica).
Resisti, forza! Il palazzo è quasi pronto e diventerà un luogo unico, che non esiste da nessuna parte del mondo, vedrai!” lo rassicurava il piccoletto, senza neanche guardarlo.
Grazie, prego, grazie molte. Gli anni passavano, secondo i suoi calcoli cinque anni esatti. Il ragazzo non era più un ragazzo ma un giovane uomo con i primissimi capelli bianchi ai lati, mentre gli altri sopra se ne erano andati del tutto, e in fondo l'idea di travestirsi alle feste non era poi così male (Cavour a parte).
Due cose però rimanevano bizzarre: la prima riguardava Johnny. Ogni tanto tornava di sera, sporco di sangue, ed era talmente stanco che si sedeva davanti alla televisione senza cambiarsi, macchiando i divani bianchi. B. non dubitava che anch'egli lavorasse per il bene del palazzo, ma certamente non come muratore, geometra o architetto.
Dormiva a due stanze da quella del trentenne, il piccoletto. A volte usciva e rientrava con una borsa lunga e stretta:
Vado a giocare a golf” gli aveva detto in più di una occasione, un po' seccato, senza che B. gli avesse chiesto alcunché.
La seconda cosa strana era che contemporaneamente ai lavori di ristrutturazione del loro palazzo, fuori, avevano costruito alcuni palazzi di otto piani praticamente identici, almeno esteriormente, a quello in cui viveva il nostro.
Dalle finestre e dal balconcino del salotto poteva contare sette palazzi, ma era probabile che ce ne fossero altri. Due vecchi palazzi dei primi del Novecento e alcune villette erano state abbattute. Forse anche il parco, poco distante, era stato cancellato. Vennero aperti dei negozi, la zona stava quasi diventando il centro del quartiere. B. non riusciva più a vedere, se non a frammenti, le colline e le montagne.

Una sera d'estate nel pieno degli anni Settanta, mentre B. stava ascoltando un disco di Buddy Holly (aveva chiesto invano Chopin, ma la sua musica avrebbe potuto immalinconirlo troppo; in compenso aveva scoperto dei pianisti jazz micidiali), udì la voce della Signorina, fuori nel corridoio.
Dov'è..dov'è..dov'è..il mio eroe? Il mio eroe!”
Aprì la porta con impeto, lui si alzò dal letto spaventato e anche un po' commosso. La donna era sempre molto bella, bionda, con gli occhiali enormi che le coprivano metà del volto, elegante, eccessivamente profumata e miracolosamente in piedi.
Hai visto? Cinque anni a Lourdes!!”
Aveva una stampella sola, sulla quale appoggiava la mano sinistra.
Lourdes? Sono contento per lei e poi che sorpresa dopo tutto questo tempo, Signorina!!”
Andò per baciarla, ma lei lo fermò mettendo il braccio destro in avanti:
Signora, prego! Mi sono sposata con Johnny, non toccarmi o farai ingelosire mio marito, ci vuole rispetto!”
Dietro apparve Johnny, impassibile.
Io non lo sapevo, mi scusi!”
Ah..ah.., che credulone! Mi sono sposata con Johnny! Ah..ah.. E poi Lourdes..ah..ah.., ma quale Lourdes! Sono stata in America caro, operazione riuscita e lunga fisioterapia! Grande forza di volontà come la tua, caro! Ma come hai fatto a resistere per tutto questo tempo in una stanza, un corridoio, un salotto, senza il nostro cinematografo?”
Alla donna non venne in mente di usare parole come “uscire.. passeggiare.. viaggiare..”, frasi come “incontrare le persone care del passato..”, ed effettivamente a B. non venne mai, neanche per un attimo, la voglia di andarsene a spasso. Anche sul balconcino ci andava il giusto necessario per prendere una boccata d'aria e far diminuire quel costante leggero male alla testa.
Ed ora la seconda sorpresa: il palazzo è pronto!”
Ma lui lo aveva intuito. Era da tempo che non sentiva più rumori.
Andiamo a fare un giro, e complimenti per i capelli! Gli uomini pelati sono più virili!”
Beh, almeno per Mussolini risparmieremo sulla parrucca”, rispose lui, con una battuta alla Woody Allen, riferendosi ai suoi futuri travestimenti alle feste. La donna rise a squarciagola, poi presero l'ascensore interno, il solito ascensore semibuio, con due tasti, uno per scendere e l'altro per salire; ora in tre dentro, senza la sedia a rotelle ci stavano, anche se un po' stretti.
Partiamo dal primo piano” disse la donna.
Avevano trasformato gli appartamenti in un piccolo parco artificiale, unendo il primo e il secondo piano: un prato con l'erba che arrivava alle ginocchia, un piccolo stagno, alcuni cespugli e alberelli in fiore, tutto di plastica (tranne l'acqua dello stagno). Il soffitto, alto circa sei metri, era stato dipinto di azzurro e di bianco. In sottofondo veniva diffuso il suono dei grilli e un vento leggero provocato dai ventilatori ben nascosti: tutto si muoveva con armonia, compresi i capelli della donna,
ammesso che almeno quelli fossero veri.
Fuori Parigi, quando ero bambina, avevamo una casa con un grande giardino, ben curato, ma io preferivo uscire e andare nei luoghi un po' più selvatici, proprio come questo.”
E aggiunse, tornando verso l'ascensore:
Anche tu potrai venire qui quando vuoi per distenderti e rilassarti!”
Le finestre coperte dalle tende erano chiuse, forse sigillate. La luce artificiale simulava un'aurora o un tramonto (non si capiva bene). Faceva molto caldo, nonostante il vento.
Peccato che ci sia il muro delle scale interne e dell'ascensore!” disse B.
E' vero, ma non potevamo fare altrimenti, caro architetto!” disse lei un po' stizzita.
Le scale interne e l'ascensore sono rimaste uguali. La portinaia è cambiata, ora c'è una del nostro clan. Pensa che parla solo spagnolo! Gli ospiti devono entrare normalmente, non possono volare e anche noi..ovviamente tutti..”
Tranne me!” disse B. sorridendo.
Beh, tra poco avrai il tuo meritato regalo!”
Per evitare che qualcuno lo vedesse attraverso le finestre aperte, B. fu costretto a mettersi la solita maschera nera: il terzo piano era composto da una decina di camere con il letto a doppia piazza. Sembrava la parodia di un piccolo bordello austriaco di lusso, con quadri e piccole statue di vari animali esotici nei corridoi. Le pareti erano rosse.
Qui potrai portare le tue conquiste, mio caro Napoleone, sempre se troverai una stanza libera.”
Il quarto e il quinto piano erano unificati: una sala da ballo, un palcoscenico abbastanza profondo per i musicisti e tutto l'impianto, l'asta del microfono al centro che luccicava; i divanetti da una parte e i tavolini rotondi dall'altra. Ma la vera novità era lo spazio raddoppiato da tre a sei metri del soffitto, il quale avrebbe consentito maggiore respiro alla folla ubriaca e delirante durante le feste. Il pavimento era in legno. Le finestre erano aperte. Le tende avevano un colore verde smeraldo. Il bar era simile a quello precedente, e dietro c'era la cucina in stile italiano, con il grande tavolo.
Non amo le cene troppo affollate, preferisco quelle intime, con le nostre donne e gli altri della nostra squadra.”
In quegli anni B. aveva sempre pranzato e cenato da solo, prima al cinemino, seduto sulle poltroncine, poi su quel tavolo nella sua stanza.
Non era chiaro se da ora lui facesse o no parte del clan, e quindi potesse mangiare con loro almeno qualche volta.
Tornarono in ascensore saltando il sesto, l'unico piano che non aveva subito modifiche, e nel quale la donna sarebbe tornata a vivere in quelle sue misteriose stanze.
Capolinea!”
L'ascensore s'arrestò. Giunsero alla tanto attesa destinazione: il cinematografo. Era buio. Uscirono, tenendosi tutti e tre a braccetto, camminarono per alcune decine di secondi fino a quando la donna urlò:
Luce!!”
E gli occhi del nostro B., in un momento, divennero rossi e pieni di lacrime.
Gra-gra-zie!” balbettò sorridendo.
Anche qui avevano unito i due piani, il settimo aggiunto all'ottavo, trasformandolo in un cinema vero, con le poltroncine blu a salire, almeno una cinquantina, divise a metà da un corridoio che terminava con le tende a spacco; lo schermo, il doppio di quello precedente, era contornato da tende rosso porpora. Alle pareti laterali, impressi nella tappezzeria marrone scuro, c'erano due giganteschi poster di Audrey Hepburn e Sterlyng Hayden da una parte, Fellini e Bergman dall'altra.
Proiettore trentacinque millimetri e tutti i film che desideri!”
B., in quegli anni, aveva scritto a mano su centinaia di quaderni i titoli dei film, ordinati in base al nome del regista, una sorta di archivio personale e di promemoria.
Domani si comincia con Chinatown. Ci sarò anche io, ma normalmente avrai tutta la sala per te, perché ho male agli occhi, e già faccio fatica a leggere i miei volumi di filosofia antica. Le gambe guariscono, nel frattempo perdo la vista mio caro!”
Dalla cabina uscì Mike. Indossava una lunga camicia bianca.
Ehi Mike! Mike!”
B. corse su per abbracciarlo e lui ricambiò con gioia.
Cavolo, sei sempre uguale!”
Scusi Signor, io non sono Mike, ma suo fratello minore. Mi chiamo Sam. Mike è partito, lavora in un cinema fuori dall'Italia, io sono Sam!”
Gli rispose un po' dispiaciuto. Il suo alito puzzava di vodka.
Ah...ah... Mi devi dieci mila lire Johnny, lo sapevo che ci sarebbe cascato!”
La Signorina T. e Johnny se ne andarono. Sam gli spiegò con il suo italiano confuso ogni dettaglio.
La camera di B., collocata subito fuori la sala, era molto spaziosa ed essenziale: un letto ad una piazza con sopra, sparpagliati, libri sul cinema, a centinaia, più tutti i suoi quaderni, compresi quelli sui quali aveva fantasticato, da sistemare in uno scaffale vuoto. L'armadio era grande e conteneva qualche comodo ricambio per il quotidiano, tutto il necessario per vivere in una casa dalla quale ovviamente non poteva più uscire.
L'elemento più affascinante di questo luogo era la vetrata, che sostituiva interamente una parete. Sei metri di vetro in altezza e quindici in lunghezza, senza balcone fuori.
Es doppio vetro! E poi tu vedi fuori loro, pero loro no vedono te!”
Un vetro a specchio. Il paesaggio da lassù era bellissimo, anche se a circa trenta metri erano presenti palazzi di otto piani, tre per l'esattezza (uno praticamente di fronte). E sembravano già abitati. In mezzo a questi riusciva a scorgere le colline che al mattino trattenevano il primo sole, e guardando più su, in quel momento, c'era un incantevole cielo stellato. La vetrata si poteva aprire solo nella parte superiore, una striscia orizzontale, giusto per un po' di ricambio d'aria. Aveva a disposizione anche un bagno tutto verniciato di azzurro. In fondo allo stretto corridoio c'era la porta dell'ascensore.
B. rientrò nel cinema, pensieroso, seguito come un'ombra da Sam. Era ormai chiaro che avevano cancellato le scale interne e l'ascensore del palazzo, “perché è un piano unico, separato dal resto della casa, senza via d'uscita, se non attraverso quell'ascensore!”, disse tra sé.
Come dici signor?”
Cazzo! Se qui scoppia un incendio, come facciamo? Aspettiamo l'ascensore?”
Non c'era altra via d'uscita.
Signor, il cinema è bello, non trovi?”
E' stupendo!”
E io, grazie a Dio, vivo al sesto piano!”
La battuta era buona, ma pensando che anche lui avrebbe trascorso parecchie ore li dentro, le possibilità di diventare carne allo spiedo per un incendio erano molte pure per il povero e spiritoso Sam.
B. pensò fin da subito di stabilire degli orari fissi di proiezione.
Puoi vedere film quando vuoi nel giorno e nella notte” disse Sam.
Invece no: scelse solo il pomeriggio e la sera: il suo proiezionista doveva essere lucido, ben sveglio (e possibilmente sobrio).

Fare delle domande, aveva imparato negli anni vissuti li dentro, era del tutto inutile, poiché niente aveva senso: chi fossero tutti i suoi inquilini, la Signorina T. e le sue bizzarre conoscenze, compresi architetti fuorilegge, Johnny, pragmatico e di poche parole, che amava il golf violento, Mike e Sam i proiezionisti, gli altri personaggi della casa, gli invitati alle feste che duravano dal venerdì alla domenica pomeriggio di ogni settimana (qualche volta anche durante la settimana, oltre al periodo delle festività), con un repertorio musicale esclusivamente statunitense, che si fermava ai primissimi anni Sessanta.
E se fossero tutti delle comparse ben pagate dalla Signorina? Aveva questo dubbio B., ma in fin dei conti non avrebbero modificato la sostanza: il divertimento era vero, autentico, la gente ballava, fumava, si ubriacava, vomitava, litigava, finiva a letto per davvero e la Signorina T. era la prima a fare tutte queste cose insieme. Solo Johnny rimaneva freddo, perché lui era una guardia del corpo e contemporaneamente l'organizzatore, un direttore di produzione, doveva controllare che tutto filasse liscio. Non poteva mischiarsi nel delirio, ci voleva distacco, e questo certo non gli mancava.
E così gli anni trascorrevano fuori dalla casa, ma non dentro, dove il tempo si era fermato, o meglio era assente la burocrazia che lo ricordava: nella dimora di B. non c'erano orologi, calendari e sveglie. Lo stesso ai piani inferiori. Forse solo Johnny aveva un orologio da polso, l'agenda e sapeva distinguere un venerdì da un martedì.
B. non guardava mai più di quattro pellicole al giorno. Il mattino faceva ginnastica, correva su e giù per la sala. Tra un film e l'altro leggeva e rileggeva libri sul cinema, mai altro. Ed era felice così. Non gli mancava niente: per lui scoprire un nuovo film, un genio registico, un attore o un'attrice di talento oppure un direttore della fotografia era un'emozione sconfinata.
Sulla morte di un noto personaggio del cinema poteva venirne a conoscenza solo dopo molto tempo, quando gli arrivava un libro biografico, anche perché B. non aveva radio o TV, e aveva deciso di non leggere più recensioni di quotidiani o riviste, in inglese, in italiano o in francese. Aveva un interesse quasi esclusivo per le biografie e le autobiografie: i saggi di estetica cinematografica non gli dicevano più niente, faticava a capirli, lo annoiavano. Ogni mese gli portavano una lista dei film usciti nelle vere sale.
Mangiava da solo, si era abituato in questo modo, al tavolino della sua stanza. Ci pensava Sam a portare le delizie che venivano dalla cucina. Era raro che scendesse sotto, ed era ancora più raro che la Signorina T. salisse per guardare un film. Un pomeriggio d'inverno videro insieme Eraserhead ed Elephant man di David Lynch, ma lei rimase disgustata. Preferiva il cinema classico americano dagli anni Trenta ai Cinquanta, e qualche volta, con dolore, qualche film francese, anche muto. Rimase spiazzata dall'interpretazione di Marlon Brando nel film L'ultimo tango a Parigi, mentre non capì la grandezza di Missouri di Arthur Penn e L'inquilino del terzo piano di Roman Polanski.
Il piccoletto veniva su solo per Kubrick, mentre Sam amava tutti i film che B. sceglieva, anche se andava pazzo per le pellicole d'avventura e tifava per i comici americani e per quelli italiani, soprattutto i più grossolani. Ma non era un proiezionista abile come il fratello maggiore; anche se Sam doveva confrontarsi con mezzi più professionali, era comunque impreciso, sbadato, perennemente ubriaco e aveva scarsa memoria. Inoltre era anche miope.
Fuori fuoco Sam!” gli urlava qualche volta con gentilezza il nostro B.

Durante il pomeriggio del cinque giugno del 1983, il piccoletto annunciò a B. che ci sarebbe stata una festa speciale, con musica swing e il suo 'Re' presente, Benny Goodman, il suo clarinetto e una piccola orchestra improvvisata al seguito.
B., incredulo, e questa volta molto scettico nei confronti della notizia, quella sera avrebbe dovuto impersonare, per l'ennesima volta, il ruolo di Napoleone. Era quello che lo faceva scopare di più. Inoltre entrambi non erano delle pertiche e con gli anni B. aveva studiato abbastanza il suo carattere, grazie soprattutto al film muto di Abel Gance.
Una giovane costumista di Napoli gli aveva preparato molti anni prima un abito con cappello di feltro a due punte abbassato sulla fronte e sulla nuca, giacca nera a coda di rondine tagliata sui fianchi, stivali di pelle a metà polpaccio e calzoni bianchi aderenti. B. teneva spesso la mano sinistra infilata nel panciotto. La donna veniva ogni volta per vestirlo e truccarlo.
La notte tra il cinque e il sei giugno fu una notte indimenticabile: 'Napoleone' non aveva mai visto tante persone insieme dentro quel palazzo. Già ad inizio serata uomini e donne bevevano bottiglie di vino coricati sul prato, al chiaro di luna di una lampada bianca, quasi pronti per le fatiche dell'amore. Come sempre nessuno degli ospiti poteva spingersi oltre il quarto-quinto piano: il terzo era ancora semi-deserto e la grande confusione veniva dalla sala da ballo dove B., appoggiato al bancone, beveva cognac, recitava la sua parte, parlando in lingua italiana, ma con accento corso (così almeno credeva, grazie a qualche lezione privata). Ascoltava quella musica sublime, avendo la certezza che quel clarinetto non poteva essere suonato dal vero Benny Goodman, ma da una sua talentuosa controfigura.
Tanto è tutto finto qui dentro!” pensò sorridendo.
Però la gente era talmente accalcata verso il piccolo palcoscenico, che non riuscì mai a confutare questa sua teoria.
D'improvviso, nel pieno del delirio, apparve Sam, completamente ubriaco.
Signor B. vieni, ho una cosa!” disse lui agitato.
Ma che ci fai qui, se ti trova il piccoletto sono guai!”
Infatti i membri del clan del palazzo non potevano partecipare alle feste, poiché lavoravano al bar, oppure davano una mano in cucina. Inoltre nessun invitato poteva usare l'ascensore interno; c'erano una decina di buttafuori (più o meno gli stessi da anni), che giravano per la casa. Tre di loro sostavano davanti alla porta dell'ascensore del primo-secondo piano, del terzo e del quarto-quinto piano.
Tranquillo, io sono a controllare esto piano e sopra ci aspetta una bella sorpresa!”
I due erano diventati amici, stravolgendo in parte la regola secondo cui non bisognava mai parlare di sé, delle proprie origini, dei propri sogni. B. più che altro lo ascoltava, perché su di sé non raccontò nulla, tranne che stesse bene in quella casa e che avrebbe voluto vivere per sempre in quel cinema. Discutevano sulle pellicole, a volte litigavano pure. Lui era argentino, di Buenos Aires, e un giorno avrebbe voluto tornare dalla sua famiglia, poiché la sentiva solo per telefono.
Magari apriamo un piccolo cinema io, mio fratello Mike e te, nelle zone più povere!” gli diceva spesso Sam.
Presero l'ascensore, poi lasciarono aperta la porta per bloccarlo. Giunsero nella sala dove ad attenderli, sedute sulle poltroncine, c'erano due bellissime ragazze nere, molto alte, bionde, in minigonna, ubriache, che parlavano discretamente l'italiano.
Sono due modelle che lavorano a Milano, pero sono di New York! Capisci?”
Ciao ragazze, qui non si fuma!”
Ehi, tranquillo Napoleone!” disse una, facendo ridere l'altra.
B. si sentiva a casa sua, lì non aveva mai portato nessuna, era proibito, anche se qualche volta gli sarebbe piaciuto; e la sua recita in maschera non serviva più, così si tolse il cappello.
Smettila amigo! Fumiamoci una bella canna di erba, poi le signorine vogliono divertirsi sai? Facciamo vedere un pezzo di un film bello divertente!”
Il film era Blues Brothers. Sam aveva alcune bottiglie di birra nascoste nella sua cabina e le offrì. Dopo dieci minuti salì subito a fermare il proiettore, poiché B. stava già scopando, mentre l'altra aspettava Sam a gambe all'aria.
Andarono avanti per tutta la notte, in quella sala, fecero sesso, scambiandosi le ragazze, su tutte le poltroncine, per terra, sotto lo schermo bianco.
Poi, verso il mattino, andarono nella stanza di B. per assistere all'aurora attraverso la grande vetrata, ma le due ragazze si addormentarono subito nel letto, abbracciate l'una con l'altra. Sam vaneggiava, emetteva solo più suoni, B. un po' più lucido - aveva bevuto solo qualche cognac, una birra e non aveva fumato - vide nel palazzo di fronte, dalla finestra di un appartamento dell'ottavo piano, un qualcosa di strano che usciva, forse uno sciame d'api. Non si capiva bene.
Guarda Sam”
Lo tirò su.
Cosa?”
E cadde in terra. B. non aveva un binocolo. La serranda di quella finestra senza balcone era alzata solo a metà, e da lì continuavano a venire fuori, librandosi verso l'alto, oltre il tetto, ogni pochi secondi, come un respiro dalla bocca di una persona che russava, un qualcosa simile a migliaia di insetti, api o piccolissimi uccelli.
Sam si era già addormentato. Anche B. aveva sonno e così lo seguì.
Il pomeriggio seguente i quattro si svegliarono più o meno nello stesso momento. Le due donne andarono in bagno, poi Sam, scuro in volto, abbracciò forte B., prima di liberare la porta dell'ascensore tenuta aperta per ore grazie ad uno spesso libro biografico su Alfred Hitchcock.
I tre scesero giù, mentre lui tornò in camera e chiuse le tende. Si buttò nel letto. Era ancora vestito da Napoleone, a parte il cappello di feltro con le due punte. Grattandosi il petto, trovò una piccola foglia verde. Poi si riaddormentò subito.

Svegliati! Svegliati!” senza urlare, il piccoletto, lo strattonava forte.
Che c'è?” disse B., ancora assonnato.
Lei ti vuole giù, al primo piano, immediatamente!”
Lei chi?”
Ida Lupino!”
Scesero al primo piano, quello dove c'era il piccolo parco di plastica. La Signorina T. lo attendeva sdraiata a testa in su, sotto un salice piangente.
In quel posto la luce simulava un tramonto, ma era incerto se fuori fosse pomeriggio, mattino, notte o davvero l'ora del tramonto.
Mio caro amico, finalmente insieme, qui! Non vieni mai!”
Era vestita con un abito di seta color blu scuro, lungo fino alle caviglie, che le lasciava interamente scoperte le braccia, un po' grassottelle. Lui si coricò a testa in giù, e lo stesso fece al suo fianco Johnny.
Mi dispiace, ma io non la voglio disturbare, questo è il suo posto preferito, immagino!”
Si, ma è aperto a tutti, come ben sai. E quanti amori nascono proprio quaggiù e non al terzo piano o nella sala da ballo. Qui la gente viene per baciarsi! Che romantico!”
Si alzò un attimo, con fatica, e staccò un ramoscello del salice. Tornò a coricarsi e continuò a parlare:
Tu invece preferisci masturbarti al cinema lo so, però l'altra notte eravate in quattro a farlo, lo so!”
D'improvviso Johnny gli saltò sulla schiena, tenendogli ferme entrambe le braccia:
Te le spezzo se ti muovi”
La donna tolse le foglie dal ramoscello, che così divenne una frusta sottile. Gli abbassò a fatica quei pantaloni bianchi, sollevò la giacca nera, mise il suo corpo sulle gambe di B. all'altezza delle ginocchia e, una volta scoperto il suo culo, gli diede una forte frustata.
Ahiii, ferma!”
Non sei stato mai preso a cinghiate o a frustate in vita tua? Beh..c'è sempre una prima volta, anche a quarant'anni..!”
Gliene diede un'altra ancora più forte.
Avevamo fatto un patto! Nessuno poteva salire in quel piano, nessuno, a parte noi interni!”
Fermi vi prego! Eravamo ubriachi! Alla festa c'era troppa gente e allora io e Sam siamo saliti, anche un po' per respirare!”
La donna lo frustò per una ventina di volte di seguito, poi si fermò.
Va bene così, lascialo Johnny! E tu tirati su i pantaloni!”
B. aveva male e pianse nell'erba senza odore.
Sappiamo che non è stata una tua idea, anche se il tuo proiezionista ha detto che tu lo hai obbligato e che lui non voleva salire. Io invece credo un'altra cosa, che sia stato proprio Sam a convincerti, lo so, lo sappiamo! Comunque ora è tutto risolto!”
In che senso? Dov'è Sam?” chiese B.
Vi siete persi un grande concerto: Benny è stato caro a venire a suonare per noi!”
E Sam?”
Sam è tornato in Argentina, come sognava da tempo. Beh, ha lasciato qui qualche dente, ma credo che la famiglia lo riconoscerà senza fatica”
E le ragazze?” chiese B. rialzandosi.
Quali ragazze?” disse la donna.
Allora intervenne il piccoletto:
Quali ragazze? Non ricordo, di che stiamo parlando?”
Sei perdonato, non è successo niente, puoi tornare al tuo cinema! Domani avrai un nuovo proiezionista, si chiama Mike, te lo ricordi? E' qui per scusarsi per la cattiva condotta del fratellino. Oltretutto è diventato un mago: pensa che in Svizzera è il numero uno! E' un uomo che studia, proprio come te, che si aggiorna, sperimenta e cerca sempre nuove strade per migliorare l'immagine e il suono. Ci farà spendere milioni di lire, ma ne vale la pena!”
In un momento B. era tornato di buon umore, pensava solo al cinema, ed era contento così. Poi aggiunse:
Grazie. Però da ora in avanti vorrei evitare di partecipare alle feste, perché non mi sento più...”
Giovane?” lo interruppe la donna.
No, mi piacciono le feste che organizzate, per me sono arte pura! E travestirmi e recitare mi diverte molto, e imparo sempre, però mi fanno perdere troppo tempo ed io vorrei vedere più film ancora.”
E le donne? Come faranno senza di te?” chiese la donna, mentre si accendeva una sigaretta.
A me basta che mi facciate incontrare una donna ogni tanto, così..”
Così..così..come..intendi una puttana, una a pagamento? E con quali soldi? Noi non facciamo queste cose! Johnny, io sono scandalizzata, che dice questo qui? Davanti ad una Signora poi, mi ha forse preso per una matrona di bordello?”
Chiedi scusa! Subito!” disse il piccoletto.
Scusi davvero, io..” disse B.
Ah..ah..testa di cavolo! Scherzo! Ah..ah.. Mi fai ridere, dici sempre qualcosa che mi diverte! Hai un talento comico che nemmeno sai di avere! Comunque ogni tuo desiderio sarà realizzato: chiuditi pure in quel bellissimo cinema, tu che hai la forza di farlo, e non sai quanto ti invidio!”
B. se ne andò. In tutto questa assurda conversazione si era accorto di un dettaglio di non poco conto: entrambi avevano la fede al dito. Forse si erano sposati veramente?

Con il ritorno di Mike, B. riusciva a vedere fino a cinque pellicole al giorno. L'argentino era un perfezionista, amava il cinema in maniera opposta al fratello: curava ogni dettaglio, non sbagliava mai una proiezione, controllava anche il telone, lo puliva se c'era un poco di polvere, quasi ogni giorno. Una volta aveva interrotto una proiezione. Si era accorto che una pizza era leggermente rovinata e l'immagine rimaneva sgranata da una parte.
Vai pure avanti! Il film si vede benissimo!” gli urlò B., ma lui non ne volle sapere. Anche l'audio era importante. Con gli anni passarono da due a quattro casse. Al nostro sarebbe bastato anche il vecchio cinemino sedici millimetri o addirittura le proiezioni in otto millimetri che faceva autonomamente nella sua camera durante il periodo in cui visse al sesto piano; anzi gli piaceva proprio quell'imperfezione di certi film proiettati e che ritrovava, un tempo, nei più piccoli cinematografi della città.
Tra Mike e B. c'era reciproco rispetto, ma totale distacco. Inoltre B. sapeva che non avrebbe potuto fidarsi né di lui né di nessun altro dentro quella casa, quindi la storia delle farfalle che vedeva dalla vetrata della sua stanza quasi tutti i giorni a partire da quel sei giugno 1983, doveva tenersela stretta stretta per sé. Sarebbe stato un rischio parlarne con la Signora, con Johnny o Mike, e con le donne e gli uomini che lavoravano lì: chiedere, domandare “anche tu vedi quello che vedo io?”. Lo avrebbero preso per matto: troppi anni rinchiuso in quel palazzo, troppi film, sessant'anni di età, i primi sintomi della vecchiaia. Anche i suoi compagni di casa non erano proprio dei ragazzini, eppure erano rimasti sempre uguali: la donna, almeno ottantenne, continuava a vivere a pieno le feste. Non aveva neanche più la stampella o un bastone, anche se era quasi cieca. Preferiva ascoltare la musica. Fumava, beveva e trascorreva più tempo al piano-bordello o sui prati del primo anziché nel suo appartamento.
Johhny andava tutti i giorni a giocare a 'golf' e qualche volta macchiava di sangue le poltroncine del cinema. Oramai voleva vedere solo più Spartacus e nient'altro, almeno due volte al mese.
E così B. rimaneva solo dinanzi a un tale inspiegabile spettacolo, al quale poteva assistere non solo dalla vetrata, ma anche da altre finestre e balconi dei vari piani, purché fossero frontali o quasi, a quel palazzo di otto piani (doveva comunque mascherarsi, la regola era rimasta, anche se le rughe, la schiena un po' curva, i capelli bianchi ai lati, erano già un buon travestimento, e nessuno del suo passato nella vita fuori, sempre che qualcuno fosse ancora vivo, lo avrebbe più riconosciuto).
Erano farfalle quelle che fuoriuscivano da quella finestra dell'ottavo piano e non api, piccoli uccelli, mosche. Farfalle di ogni colore. Forse avevano delle sfumature che però B. non poteva cogliere, perché esse si perdevano quasi sempre verso il cielo, senza mai avvicinarsi al suo palazzo e ai suoi occhi.
Potevano librarsi a migliaia, anche durante il mattino o nel pomeriggio, come la sera o la notte, e in qualsiasi stagione, anche con la neve e il freddo. D'estate, in agosto, improvvisamente sparivano, ma alla fine del mese ritornavano sempre.
Quell'appartamento era abitato. Le luci si accendevano e si spegnevano, nella stanza a destra, che portava ad un piccolo balcone vuoto, e nella stanza a sinistra. Sul balcone non era mai uscito nessuno da oltre vent'anni. Le serrande venivano alzate ed abbassate regolarmente. Le tende color arancio erano sempre tirate. Le farfalle uscivano solo dalla finestra a sinistra del balcone: venivano sputate fuori. La serranda non era mai abbassata del tutto, neanche durante la notte. Probabilmente veniva lasciata leggermente aperta, anche in pieno inverno, quando c'era il gelo.
Ma B. si domandava come fosse possibile che Johnny e (probabile) consorte, oppure Mike stesso, che aveva una vista come un'aquila, non si fossero accorti di questo strano evento. E le persone che abitavano in quel palazzo? E gli altri abitanti della zona? E i negozianti? Certo se B. avesse chiesto ad uno dei festaioli, questo gli avrebbe risposto subito di sì, che era tutto vero, dandogli poi una pacca sulla spalla. Fine. Comunque lui non partecipava più a questi party. Ogni tanto Johnny gli organizzava un incontro sessuale con una giovane donna, al piano-bordello, ma lei era sempre bendata.
O tu ti trucchi e ti travesti o noi bendiamo loro, chiaro?” gli disse il piccoletto, una sola volta.
E da allora fece sempre così. Non poteva più cambiare, non poteva chiedere a nessuno. Voleva vivere ancora a lungo e se avessero sospettato qualunque cosa, lo avrebbero ucciso. Lui doveva farsi gli affari suoi e non occuparsi né del mondo reale né degli strani giri finanziari del clan: guardare film, questo era il suo compito. E il cinema lo amava sempre, come quando era ragazzino. La macchina non si fermava mai, uscivano di continuo nuovi film da gustare, oltre ai vecchi film che mai si stancava di vedere. Il suo destino era quello di morire dentro quel cinematografo, come Moliére sul palcoscenico, anche se B. non era un artista, ma solamente uno spettatore passionale e fanatico che aveva una grande paura di vivere la realtà fuori da quel palazzo.

Una mattina d'autunno del 2011 la sua vita ebbe decisamente una svolta. Non aveva mai pensato al futuro, se non al prossimo film da vedere. Il giorno prima si era fatto gli occhi con due pellicole di Kitano Takeshi, poi L'arca russa di Sokurov, La grande guerra di Monicelli, con Sordi, Gassman, la Mangano, Romolo Valli e in più aveva visto cinque cortometraggi islandesi.
Mike gli aveva promesso che avrebbe lavorato ancora due anni, anche se un sostituto era già pronto, uno della sua famiglia argentina, un nipote abbastanza giovane che amava più la pellicola che il digitale e l'alta definizione.
Era l'alba quando B. venne svegliato da una farfalla azzurra che quasi gli baciò la bocca. Era entrata dalla fessura in alto della vetrata, lasciata aperta nonostante fuori facesse freddo. Stropicciò gli occhi, mentre la farfalla si allontanò verso altre stanze. Dalla vetrata vide migliaia e migliaia di altre farfalle, tutte di colori e dimensioni diverse. Mai si erano avvicinate al palazzo, perché sempre si disperdevano lontano, verso il cielo, mentre in quel momento era in atto una vera invasione. I palazzi erano circondati da farfalle. Qualcuno passava e nemmeno se ne accorgeva.
Ne entrarono altre. B. apprezzava le farfalle, le considerava delle creature meravigliose, ma le conosceva poco. Non aveva mai letto manuali o articoli sulla loro natura. Sull'argomento avrebbe potuto chiedere ai piani bassi, ma Johnny e Signora si sarebbero insospettiti, poiché lui leggeva solo libri sul cinema.
Ora l'intero piano era occupato da farfalle: una rossa con macchie bianche e angolose ali aperte, una con le ali color cioccolata, un'altra gigante rispetto alle altre, con ali blu marino chiaro tranne alcune ampie fasce sulle ali anteriori, la prima delle quali, nera, l'altra arancione. Quest'ultima inseguiva le altre farfalle, strofinando le ali l'una contro le altre. Battagliavano, una completamente verde sembrava una foglia, altre ancora, ognuna diversa dall'altra danzavano nell'aria, mentre B. rimaneva paralizzato nel suo letto.
Solo dopo qualche minuto si alzò e si vestì. La sala cinematografica era piena di farfalle. Cercò di chiamare l'ascensore, ma era occupato: giunse al suo piano una donna, un'assistente della Signora:
Venga giù, al piano di sotto!” gli disse un po' allarmata.
Al piano di sotto?”
Era la prima volta che veniva convocato in quel luogo dalla Signora. Finalmente avrebbe visto quel misterioso appartamento? Le farfalle erano ovunque, anche in ascensore. Giunsero al piano. La donna aprì la porta bianca della misteriosa ala di quell'appartamento e lo lasciò entrare da solo, chiudendo immediatamente la porta. Era dentro. Anche qui non mancavano le farfalle, anche se il buio pesto nascondeva la loro bellezza.
Avanti caro!Avanti!Avanti!”
Era la voce squillante della Signora T.
Percorse brevemente un corridoio, alle cui pareti erano appesi decine e decine di ritratti fatti a matita.
Entra pure nella stanza!”
Lui entrò, ancora nel buio. Le tende erano tirate. Si intravedeva la donna seduta su una poltrona molto alta. L'aria era satura di profumo, di tanti profumi mischiati all'odore di sigaretta. Alla destra della Signora c'era un letto matrimoniale con lenzuola bianche e un grande armadio di legno scuro. In terra c'erano solo tappeti ben distesi. Anche le pareti della stanza erano riempite di immagini di volti umani.
Le farfalle lambivano i corpi di entrambi. Lui ogni tanto doveva ripararsi gli occhi.
Siedi pure” disse lei.
C'era una sedia a dondolo, messa frontalmente alla poltrona.
Ti ho chiamato perché oggi è un grande giorno!”
Mi sembra proprio di sì!” rispose lui.
Ho una grande notizia e volevo dartela io direttamente!”
L'ascolto con immenso piacere!”
Questa sera io e Johnny abbiamo organizzato la più grande festa della nostra storia: questa sera suonerà per noi e pochi altri amici intimi, senti..senti.. non ci crederai mai: Chuck Berry! Hai capito? Chuck Berry!”
B. rimase di pietra. Non disse nulla: la casa, il quartiere, forse l'intera città erano invase, in pieno autunno, da farfalle d'ogni forma e colore, che provenivano da quella finestra all'ottavo piano del palazzo di fronte al loro.
E Chuck Berry? Con tutto rispetto, ma cosa c'entrava lui con quello che stava accadendo, pensò B.
Io non capisco..” disse lui, subito interrotto dalla vecchia donna:
Lo so, anche io pensavo che fosse morto o gravemente malato, invece stasera suonerà, da solo con la sua chitarra, per me e per pochi intimi. Ovviamente non puoi mancare e questa volta potrai venire senza travestimenti. Nessuno degli ospiti ti riconoscerà e..”
Io non capisco! Pensavo mi avesse fatto chiamare per qualcos'altro, no?” disse lui un po' arrabbiato.
Sì, hai ragione. Ti ho chiamato qui anche per un'altra cosa. Credo sia giunto il momento di raccontarti brevemente la storia della mia vita. Ora posso fidarmi, siamo vecchi, forse più tu di me, quindi..”
B. si rilassò. Le farfalle svolazzavano ovunque. La donna ne aveva alcune appoggiate sulle gambe.
Mio caro, qui siamo nel mio rifugio, l'appartamento dei ricordi. Tutte le immagini che vedi rappresentano i miei cari dalla metà del Settecento ed io sono l'ultima ed unica discendente di una famiglia molto benestante”.
Fece una pausa, poi ricominciò:
Sarò molto sintetica, come al solito, perché amo l'essenzialità! Come ti ho già detto una volta io sono nata a Parigi, da una famiglia di imprenditori. Mio nonno paterno, per esempio, era il più intraprendente e il più ricco: produceva profumi e aveva aperto una decina di negozi nella 'Ville Lumiére'. Lui era parigino da diverse generazioni. Il suo unico figlio, mio padre, aveva sposato mia madre, una maestra ligure, poche settimane dopo averla conosciuta per caso per le strade di Genova. Nel 1925 sono nata io e ho vissuto fino al 1937 tra Parigi e una bellissima casa poco lontano, in campagna. A dodici anni ho perso i genitori in uno stupido incidente stradale, così mio nonno mi mandò in Italia, in un collegio di suore, sperso tra le colline torinesi. Nel giro di pochi anni, purtroppo, morirono tutti i membri della famiglia, chi di vecchiaia chi di malattie incurabili. Io rimasi l'unica erede, e una volta compiuti i ventuno anni di età, ho cominciato a fare soldi investendo nell'edilizia, diventando, come mi pare tu abbia capito, sempre più forte e ricca. Praticamente facevo costruire, affittavo e vendevo singoli appartamenti o interi palazzi”.
E Johnny?” chiese B.
Lui ha undici anni meno di me. L'ho adottato pagando un sacco di soldi e facendo la cosa per vie traverse, durante un mio viaggio in Giappone, nell'isola di Hokkaido, in un villaggio vicino a Sapporo. Ero con un amichetto di allora di cui non ricordo nemmeno il nome, un siciliano molto simpatico. Siamo nel 1949. Johnny era un orfanello che cercò di derubarci nella villa in cui eravamo ospiti. Lo trovai molto intelligente, mi impietosii per la sua condizione di estrema solitudine e povertà, così lo portai con me in Italia. L'ho fatto studiare privatamente, lingua italiana, francese e inglese, e poi economia e filosofia. Per me era come un fratello minore o un figlio. Verso la fine degli anni Cinquanta ci siamo trasferiti qui. Lui era ed è un genio, con il fiuto per gli affari e ha anche un dono particolare per le cose pratiche, molto più di me, direi. E' un tipo serio, uno che si fa rispettare!”
E la sua malattia? Perché lei stava su una sedia a rotelle?”
Ah.. quella è una storia banale: un amante, durante l'estate del cinquantasei o del cinquantacinque, in un albergo di Nizza, dopo essersi ubriacato, mi ha pestato a sangue, rompendomi le ginocchia e le caviglie con una mazza da baseball, dopo che gli avevo detto che ero poligama! Johnny gli ha sparato in fronte dopo poche ore e poi ha fatto a pezzi il suo corpo. Peccato, era un uomo del Sud, molto molto affascinante e colto! Peccato davvero!”
Ed ora lei e Johnny siete sposati?”
Sì! Subito dopo il periodo in cui abbiamo restaurato il palazzo io e lui ci siamo sposati per interessi: nel caso dovessi morire prima io, a lui andrebbe tutto”
Quindi non dormite insieme?”
Ma che cazzo dici, lui è asessuato ed io sono una grande troia, altro che dormire insieme!”
La donna si grattò il naso e aggiunse:
Sei contento? Fine della storia, ora sai tutto! Puoi pure tornare al tuo cinematografo! Ci vediamo stasera alle otto per la cena, mentre per il concerto..”
Ma B. la interruppe subito:
Ma di cosa sta parlando! Fine della storia? Lei mi ha riassunto in poche frasi la sua vita, sempre se mi ha raccontato il vero, ma non ha accennato alla storia delle farfalle!”
Quale storia delle farfalle?”
Quali farfalle? Ma non si vede attorno? La casa è invasa, e anche fuori, la città intera. Ha guardato fuori?”
E a te cosa te ne frega di ciò che sta fuori? Cos'è questa novità! E poi io ci vedo pochissimo.”
B. si alzò in piedi di scatto:
Ma la casa è piena di farfalle! Ed io so da dove provengono! Sono anni che vedevo uscire qualcosa da quella finestra..”
Siedi, vecchia ciabatta!” urlo lei.
No, non mi siedo brutta stronza! Anche se sei cieca, non puoi non sentirle! Questa stanza è piena di farfalle!”
Johhny!Johnny!Johnny!” urlò lei.
Io me ne vado!”
Johnny!Johnny!”
B. fuggì dalla stanza. Cercò di sfondare la porta d'uscita verso le scale interne: era l'unico modo per uscire. Provò anche con l'altra porta, ma non ci fu niente da fare, erano chiuse bene.
Da lontano si sentiva la voce della vecchia Signora strillare: “Fermalo, vuole fuggire! Non sa quello che fa!”
B. prese l'ascensore, che fortunatamente era già al piano. Vide il piccoletto con la coda dell'occhio, mezzo barcollante, disturbato dalle farfalle, con una mazza da golf in mano lunga quanto il suo corpo.
B. scese giù fino al primo piano. Lì poteva tentare solo due cose: sfondare le due porte o buttarsi dal balcone. Il piccoletto però stava già entrando da una di queste, così il vecchio B. ruppe il vetro di una finestra e si affacciò, pronto a lanciarsi.
Fermati non andare!” gli urlò Johnny.
Ti spiegherò tutto, ti racconterò la storia della ragazza che sputa le farfalle dalla bocca. Però dovrai fare uno sforzo e credermi, perché quello che ti sto per dire è una storia vera e non un'invenzione. D'altronde lo vedi tu stesso in che situazione ci troviamo, le vedi anche tu le farfalle, no?”
B. rimase in piedi sulla ringhiera, in equilibrio, dando le spalle al piccoletto, che cominciò il racconto:
All'inizio della primavera del 1983, un amico di un nostro amico, chiamiamolo Mister X, un tipo solitario, sulla quarantina, un po' cupo, era venuto ad una festa delle nostre e ci propose di collaborare ad un affare: dovevamo affittare a lui e ad una ragazza un appartamento purché fosse all'ultimo piano e in una zona nuova della città. Ci disse che avrebbe pagato anche venti volte il prezzo normale. Inoltre ci chiese protezione. La ragazza era molto giovane, aveva la pelle olivastra, gli occhi neri, lo sguardo intenso, il viso nascosto da una maschera. Non parlava mai, era muta. Mister X diceva che l'aveva conosciuta durante un viaggio per affari, in Indonesia, poco fuori Giakarta, in un villaggio poverissimo. Faceva la guaritrice dentro una capanna. Molte persone andavano, pagando poco o nulla, appoggiavano la propria bocca sulla mammella della sua tetta destra, e chiudendo gli occhi, potevano vedere per alcuni momenti, le immagini di un luogo bellissimo e misterioso, finché lei dalla bocca non sputava fuori delle bellissime farfalle e tutto finiva. Lui credeva fosse tutto un trucco, comunque provò una volta e vide qualche cosa, gli passò anche un dolore al piede, ma era convinto che si trattasse di semplice autosuggestione.
Le farfalle le uscivano dalla bocca, a decine, le sputava tossendo, e dopo soffriva, aveva delle brevissime convulsioni. Secondo Mister X era una recita, un trucco fatto ad arte. Comunque decise di fermarsi ancora un mese, per organizzare il suo rapimento e portarla in Italia, in una casa di sua proprietà, nella Val Pellice. Aveva fiutato un grosso affare. La ragazza era muta, ma aveva con sé un vecchio quaderno scritto a mano, in lingua inglese, che riassumeva il mondo dal quale proveniva. Mister X riuscì a farlo interpretare e autenticare da uno storico londinese: la giovane, senza un nome, aveva diecimila anni ed era una specie di eterna ragazza che proveniva da un mondo perduto con montagne alte fino a seimila metri, valli e spiagge bellissime e spaziose. Un'isola situata vicino all'attuale Papua Nuova Guinea, in cui vivevano uomini e donne in perfetta armonia, e con numerose farfalle d'ogni forma e colore, considerate divinità. Un brutto giorno però una delle montagne più alte e affascinanti si trasformò in un terribile vulcano, che in poche ore eruttò, e poi scoppiò facendo scomparire l'isola. La ragazza era sulla spiaggia da sola, pronta a fuggire con una piccola barca attraverso l'Oceano, e le farfalle per salvarsi entrarono a centinaia di migliaia dentro la sua bocca. Non si sa come, forse grazie alle farfalle intrappolate nel suo corpo che le diedero la forza necessaria, sopravvisse alla catastrofe, divenendo così una piccola divinità, unica, senza più tempo. Un'eterna fanciulla. Portava dentro di sé il ricordo dell'isola, dei suoi cari, di un mondo che non esisteva più. Viaggiò dall'Australia all'Indonesia, nascosta all'umanità, fino a quando non trovò qualcuno che la proteggesse. Era una ragazza molto bella, e così un giorno un uomo le saltò addosso baciandola per tutto il corpo fino a succhiarle la mammella, quando vide a frammenti quelle immagini lontane, e dalla bocca della ragazza fuoriuscire delle farfalle. Si spaventò, poi decise di aiutarla. Lei rimase per millenni in quel villaggio fuori Giakarta; non aveva bisogno di cibo, di acqua, non invecchiava mai, chiusa dentro quella capanna, protetta dalla sua gente. Il suo viso sembrava stupendo, anche se nascosto da una maschera. Veniva solo sfiorata dalle persone che volevano guarire o stare meglio anche solo per pochi momenti. La gente aveva ammirazione, ma anche paura e nessuno tentò mai di violarla. Era considerata una divinità terrestre. Qualcuno tentò di scrivere un resoconto su questa storia. Forse un esploratore inglese, oltre duecento anni fa, cercò di appuntare la storia della ragazza che sputava farfalle. A me tutto ciò venne raccontato da Mister X, durante quella festa del 1983: lui era uno speculatore, non gli credevo, comunque io e la Signora gli affittammo l'appartamento ad un prezzo folle. In cambio dovevamo garantirgli la protezione, poiché la zona era nostra. Lui trovava i clienti, gente molto ricca, qualcuno passava anche dalle nostre feste alle quali tu avevi smesso di partecipare. Il tutto doveva rimanere una cosa di nicchia. Un giorno spinti dalla curiosità ci andammo anche io e la Signora. Credevo si trattasse di suggestione, perché conoscevo un po' la storia, comunque vidi qualche cosa di strano, una spiaggia, tante farfalle e forse qualche essere umano che pescava. Dalla bocca della ragazza, che aveva una maschera nera, uscirono due o tre farfalle. Ne ricordo una di colore arancione. Le sputava, tossendo, quasi le vomitava. Infatti erano bagnate di saliva. All'inizio sembravano morte, ma poi, magicamente, dopo pochi attimi, si sollevavano da terra e volavano via dalla finestra.
Mister X la portava in Val Pellice nel mese di agosto, lontano da tutto e da tutti, e lì non succedeva nulla. Lui amava fare passeggiate solitarie, lei se ne stava in casa. Pensa che non dormiva mai! Il libro di appunti raccontava poche cose, ma una di queste era di non toglierle mai la maschera e di non violarla, perché il rischio sarebbe stato la fine di tutto. Lei si sarebbe dissolta in milioni di farfalle, mentre l'amatore sarebbe morto all'istante.
E così, per ventisette anni, tutto filò liscio: un paio di clienti tra il giorno e la notte. Noi gli regalammo la casa, ma pretendemmo una percentuale sulle 'donazioni'. La gente usciva sollevata, nessuno guariva da una grave malattia, però si sentiva un po' meglio, diventava di buon umore. Forse perché vedeva quel mondo felice dentro di lei. Inoltre assistevi ad un altro spettacolo, forse doloroso per lei, ma esteticamente unico e affascinante: le farfalle sputate dalla sua bocca. Pensa che una volta mi fece passare un leggero dolore alla spalla. Pazzesco! La Signora credeva fosse tutto una montatura, a partire dal quaderno di appunti. Ci andava ogni tanto, una volta al mese, per lo spettacolo in sé, e non per i suoi problemi alla vista o alle gambe. Io avevo provato ad informarmi meglio su quest'uomo, ma non riuscii a saperne molto; anche chi lo presentò a noi, non era proprio un suo amico, ma un amico di un suo amico.
Infine l'altra sera venne a trovarci invaso dall'ansia: ci disse che voleva toglierle la maschera, vedere il suo viso e fare l'amore con lei, perché nella sua lunga vita non si era mai innamorato, e aveva fatto sesso solo con le puttane o con donne per le quali non provava niente. Lui sentiva di amare questa misteriosa e silente creatura. Sono certo che questa notte il vecchio abbia esaudito il suo desiderio, ecco perché c'é tutto questo casino! Ora credo anche io che questa storia sia vera!”
B. rimase in perfetto equilibrio sulla ringhiera per tutto il tempo, ascoltando con attenzione. Infine disse:
Grazie, per questa bella storia!”
Aveva gli occhi chiusi per non essere accecato dalle farfalle. Nel frattempo giunsero al piano anche la Signora T. e Mike, ma lui si buttò giù facendo un volo di qualche metro. Non si fece nulla, era come se le farfalle lo avessero accompagnato in questo suo salto, frenandone del tutto la caduta. E così rimase in piedi. Johnny si affacciò dal balconcino, gli lanciò la mazza da golf, che lentamente finì a terra. Poi gli urlò, proprio lui che mai aveva alzato la voce:
Non andare..non andare!”
Per la strada non si vedeva un essere umano. Era in atto una tempesta di farfalle. I negozi era chiusi. Non passavano automobili. Si fermò di fronte al portone di quel palazzo, che poi era identico a quello in cui aveva sempre vissuto. Suonò a caso qualche campanello, ma nessuno rispose. Non vedeva più niente. Fortunatamente la porta d'ingresso non era chiusa, ma appoggiata. Entrò dentro. Il portone, la casa della custode, il tappeto, l'ascensore, le scale che portavano agli appartamenti, tutto era identico all'ultima volta, quando, a venticinque anni, B. aveva deciso di non uscire più dalla dimora della Signora T.
L'ascensore era occupato, come sempre. Prese le scale, con l'intento di salire fino alla fine e scoprire la verità. Intanto le farfalle erano completamente sparite. Al primo piano gli zerbini erano quelli di un tempo e anche le targhette dei campanelli, i cognomi. Al quarto piano c'era la porta di casa sua, della sua famiglia. Intanto l'ascensore scendeva con due o tre persone dentro. Era forse tornato indietro di quarant'anni? Salì ancora. Ritrovò le famose porte degli appartamenti della Signorina T., fino all'ultimo piano. Le sue mani erano improvvisamente tornate giovani come quelle di un ventenne. Si toccò il viso, la pelle era liscia, i capelli c'erano, anche se era un po' stempiato.
All'ottavo piano, da una parte, la porta del cinemino, dall'altra quella della ragazza che aveva incontrato quel giorno d'autunno del 1969. Suonò, senza pensarci, con il cuore in gola. Dopo una brevissima attesa, aprì la porta proprio lei, la ragazza diciottenne, con in testa quella farfalla come fermaglio per i capelli. Aveva l'aria assonnata, ma gli fece comunque un grande sorriso:
Ciao, ma che ci fai già qui? Non avevamo detto sabato pomeriggio?”
B. si mise la mano sulla fronte. Ora aveva capito: era stato tutto un sogno.
Ma che hai?” disse lei un po' preoccupata, poi aggiunse:
Vuoi entrare un attimo? Scusa, sono mezza addormentata!”
No..no..! Vestiti, usciamo a fare due passi ora! Ti va? E' una bella giornata!”
Sì, va bene.”
Non era poi così convinta, ma si vestì lo stesso, in fretta.
B. aspettò seduto sui luccicanti gradini. Scesero le scale a piedi, perché l'ascensore non era disponibile. Al secondo piano B. lo vide salire e gli parve di scorgere, dal vetro rettangolare della porta, Johnny e la Signorina o Signora T., probabilmente seduta sulla sedia a rotelle. (Era alta come l'uomo). La donna gli fece l'occhiolino, mentre il piccoletto rimase impassibile. O almeno così parve a B.
Uscirono dal palazzo. Era una bella giornata ventosa, un vento caldo nonostante la stagione autunnale. Andarono verso il parco, poco distante, e non tornarono a casa fino a sera.

FINE
(GENNAIO 2011 – APRILE 2015)