giovedì 18 ottobre 2012

PRIMO TEMPO racconto integrale (2011) ISBN 9788891002037

Quando doveva uscire dal suo appartamento, condiviso con il padre e con la madre, B. guardava sempre dallo spioncino della porta, assicurandosi che sul pianerottolo non ci fosse anima viva. Abitava al quarto piano di un palazzo di otto piani costruito verso la fine degli anni Cinquanta, in un quartiere abbastanza periferico di una grande città. L'ascensore era molto lento, sempre occupato e le scale scivolose: la custode era una grande lavoratrice e ogni mattino, tranne la domenica, lavava con cura maniacale, canticchiando, ogni singolo gradino. Alle dieci in punto la donna giungeva al quarto piano e questo il venticinquenne lo sapeva bene. Come conosceva a memoria gli orari dell'apertura dell'unica porta dell'appartamento di fronte al suo, in cui abitava una famiglia di origine lucana, composta da un signore sulla sessantina, in pensione, sposato con una donna molto più giovane, dalla quale aveva avuto due terribili gemelle che urlavano anche di notte. Ma il problema erano i due coniugi: ogni volta che B. li incontrava, cominciavano a parlare di cucina, dei piatti che avrebbero preparato a pranzo, a cena, e magari nei giorni a seguire. E si sentivano gli odori. Spesso il marito, un uomo con gli occhi chiari, la pelle scura e quasi completamente senza denti, lo intratteneva per decine di minuti parlando di pranzi storici che aveva organizzato in quella casa o in giro per l'Italia (l'uomo aveva vissuto un po' in tutte le città dal Sud al Nord, vendendo frutta e verdura al mercato). Lo invitava dentro casa, ma B. rifiutava sempre, e allora il tutto si concludeva con la solita domanda, che poi dal punto di vista del giovane, pareva più una provocazione: “E allora questi studi come vanno? Tutto bene?” “Certo... si... tutto bene!” B. era iscritto a Medicina, un vanto per i suoi genitori, entrambi ragionieri, e forse per l'intero palazzo: ma in verità le cose non andavano affatto. Gli mancavano sei esami, i più difficili, la media dei voti era quasi imbarazzante, e soprattutto, da qualche tempo, aveva perso del tutto la voglia di studiare. Dopo il Liceo Scientifico, che aveva concluso nel 1964, avrebbe voluto intraprendere studi umanistici, perché sognava da sempre di diventare un critico cinematografico o qualcosa di simile. Da almeno sei anni trascorreva un paio di pomeriggi alla settimana nei cinema del centro della città, tutto questo all'insaputa dei suoi genitori. All'inizio ci andava con suo amico, un ex compagno di scuola, che aveva la passione per il disegno; poi rimase solo, da quando l'amico aveva messo incinta una ragazza che avrebbe sposato. La sera capitava che tornasse a piedi, dopo aver visto un film con Marlon Brando o l'ultimo capolavoro di Bergman. Al padre e alla madre spesso raccontava che era uscito con Marianna, una ragazza con la quale era stato fidanzato senza provare nessuna emozione, per quasi tutti i cinque anni di scuola superiore. I due si sentivano ancora per telefono, ma non era vero che si frequentavano. B. aveva sempre raccontato che la storia con la ragazza andava avanti, seppur con alti e bassi. In realtà la sua era una scusa, una copertura che durava da molto tempo, per poter andare al cinematografo senza che i suoi lo sapessero. Era un amore segreto, il cinematografo. Nella sua camera da letto, nascondeva tutto, le riviste, i ritagli di articoli, le immagini dei divi, qualche libro di regia e i suoi quaderni in cui scriveva sui film che aveva visto. Amava soprattutto partire da un personaggio e in poche pagine raccontarne l'esistenza al di fuori della pellicola: il prima e il dopo di un protagonista, la vita di un personaggio marginale. Forse era più un fantasticatore che un interprete, uno spettatore particolare, che da un film partiva per crearne uno tutto suo. Probabilmente non sarebbe stato un bravo critico cinematografico. Amava anche leggere le biografie degli attori e delle attrici, dei produttori e dei registi. La sua stanza era composta da una piccola libreria di spessi libri di anatomia e fisiologia, un piccolo tavolo messo contro la parete pulita, senza poster e quadri o altro, un armadio e un letto. Sotto il letto nascondeva, dentro uno scatolone rosso porpora, i suoi sogni, quei libri, quei ritagli, i quaderni. Una tiepida mattina di fine ottobre dell'anno 1969, la sua vita cambiò per sempre. Qualche giorno prima la segreteria della sua Università lo aveva convocato per un banale chiarimento burocratico. Solitamente B. si alzava intorno alle otto, svegliato più dai rumori del piccolo ascensore che saliva e scendeva in continuazione, la sua stanza era proprio lì, a pochi metri anche dalle scale, che dalla lurida coscienza di cattivo studente mantenuto. Bevve la solita grande tazza di caffè con latte. Andò in bagno, poi si vestì per uscire. Erano le nove, non era abituato ad uscire a quell'ora, anzi, il mattino stava sempre chiuso in casa, seduto alla scrivania a fissare un libro di migliaia di pagine che proprio non gli interessava. Il rischio di incontrare qualcuno sul pianerottolo, in ascensore o per le scale, oltre alla custode, era molto alto: “Dottore come va?”, “Ci siamo?”, “A quando il grande giorno?”, “Hai poi finito?”, “Senti ho fatto delle analisi, se passi un attimo da casa mia, puoi darmi una tua interpretazione, perché io non ci capisco niente?”. Gli inquilini non erano molti, conosceva soprattutto quelli dal quarto piano in giù, i più pericolosi; gli altri dei piani superiori erano quasi degli sconosciuti. La padrona di casa, una signora condannata a vivere su una sedia a rotelle, stava al sesto o al settimo piano: praticamente il palazzo era suo, ma ne aveva altri, e centinaia di appartamenti che affittava e vendeva (così gli raccontò una volta la nonna di B.). Guardò come sempre dallo spioncino e trovò strada libera. La porta di fronte era chiusa, l'ascensore non era occupato. Uscì, chiuse la porta adagio, e girò la chiave con la mano destra, mentre con l'altra teneva premuto il bottone per far salire l'ascensore. Dalla parte delle scale proveniva una forte luce. Era una bella giornata, c'era anche un po' di vento; i vetri delle enormi finestre del mezzopiano vibravano. Sotto, forse al secondo piano, la custode lavava uno dei ventiquattro gradini (per piano), mentre canticchiava una canzone napoletana. L'ascensore stava arrivando. B. teneva pronta la chiave per aprire subito la porta, quando sentì un colpo di tosse di un uomo. Non proveniva dalla casa a fianco, la porta frontale al suo appartamento era molto vicina, quasi attaccata, forse poco più di due metri: questo rumore indicava una presenza ben più remota, forse qualcuno attendeva l'ascensore, sotto, al piano terra. B. entrò in ascensore e schiacciò il tasto PT. Si specchiò un attimo e pensò ai suoi capelli color castano chiaro che lentamente lo stavano abbandonando, proprio lui che da ragazzino, a scuola, veniva soprannominato 'Ciuffo', per via di quella pettinatura che voleva imitare alla lontana quella di James Dean. L'ascensore ci mise come sempre troppo tempo. Dalla chiusura della porta alla fine della discesa ci vollero almeno quaranta secondi e per quattro piani erano troppi, una eternità, eppure questo dava a B. la possibilità di preparare la sua solita risposta: “Vado di fretta, un'altra volta, buongiorno, grazie!” Ma al pianoterra non trovò nessuno e nemmeno al portone dell'ingresso. Tanto meglio, pensò. Poteva essere il vecchio del primo piano, un ex impiegato statale, un altro che non si fermava mai al semplice “buongiorno-buonasera” e andava avanti a parlare di sé e a chiedere, domandare, rompere le scatole al povero B. Un'ora più tardi ebbe una cattiva notizia: un impiegato della segreteria dell'Università gli disse, a malincuore, che c'era stato un errore, suo o della segreteria, non si capiva bene. Il signore dall'altra parte dello sportello aveva pure il raffreddore e una certa fretta: il sunto della questione era che B. avrebbe dovuto sostenere un esame in più, aggiunto ai sei che gli mancavano. Tornò dal centro della città verso casa a piedi, come spesso faceva: finirò a trent'anni o forse non finirò mai più, pensò. Il vento aveva aumentato la sua forza, ma non era un vento gelido. Giunto di fronte al portone del suo palazzo, mentre inseriva la sua chiave, udì una voce femminile gridare “Ehi!”, però il ragazzo non si voltò e aprì la porta. Quando si girò per chiuderla, trovò resistenza. Era una ragazza con i capelli neri lisci a caschetto, gli occhi scuri e la pelle olivastra. Portava un cappotto blu scuro, una sciarpa rossa, lo zaino pieno di libri. I pantaloni a zampa di elefante le nascondevano le scarpe. “Che fai mi chiudi fuori?” gli fece lei sorridendo. Abitava al settimo o all'ottavo piano, ma non ricordava il suo nome, ne conosceva la sua famiglia. “Scusa ero soprappensiero.” “Succede!” “Torni da scuola?” “Si..ma non c'era lezione, si faceva altro, sai in questo periodo..” B. annuì. “Fai il liceo?” “Classico, sono all'ultimo anno.” Arrivarono davanti all'ascensore, occupato. B. si massaggiò le tempie. Aveva gli occhi un po' arrossati. “Ehi ma che hai? Ti vedo giù!” “Mi deve essere andato qualcosa negli occhi, con questo ventaccio!” “E anche questo nei capelli” e gli tolse una foglia. “Grazie!” disse lui. “Era un regalo di Eolo” disse lei, sorridendo. La foglia, minuscola, rotonda, era una foglia verde scuro. B. se la mise in tasca. Poi si accorse che la ragazza aveva una farfalla azzurra tra i capelli, o meglio un fermaglio a forma di farfalla, quasi all'altezza dell'orecchio destro. “Ma questo ascensore è sempre occupato?” disse il fuoricorso. La ragazza perse d'improvviso il sorriso. “Che hai?” chiese lei. “Niente. E che...” abbassò la voce, e avvicinò la bocca all'orecchio del ragazzo, “...e che, ai piani superiori avvengono cose strane...”. “Cosa vuoi dire?” disse lui. “Sia di notte che di giorno, nei tre appartamenti dal sesto all'ottavo piano, si sentono sempre degli strani rumori. E da quella porta escono ed entrano persone un po' particolari...” “Lei chi sarebbe, la padrona di casa, la Signora T.?” “Si. Io qualche volta li vedo dallo spioncino, è gente sempre diversa e di ogni età. Qualcuno anche straniero, inglese e francese di sicuro” L'ascensore si era finalmente liberato; nello stesso istante i due schiacciarono in tutta fretta con l'indice della mano, il tasto dell'ascensore. All'improvviso si udì il rumore di una chiave girata nel portone dell'ingresso. Un omino dai lineamenti orientali, con i baffetti, il cappello tipo panama, la camicia hawaiana rossa con sopra una giacca scura, si avvicinò. Intanto l'ascensore era arrivato. “Buongiorno! Prego!” disse la ragazza. L'uomo, di età indefinibile, fece un gesto come a dire 'salite prima voi'. “No..no..prego, salga lei! Noi facciamo ancora due chiacchiere.” Era praticamente un nano. Teneva una grossa borsa a tracolla. Non disse nulla, entrò dentro e salì, senza salutare. “Quello è il 'giapponese', praticamente è uno di quelli fissi, che vivono con la Signora. Deve essere un figlio adottivo!” “Certo che ne sai di cose! Comunque è la prima volta che lo vedo.” Chiamarono l'ascensore e questa volta salirono. B. schiacciò il tasto P4. La farfalla che la ragazza teneva tra i capelli sembrava vera. Ci furono dieci secondi di silenzio. Poi lei gli chiese, guardandolo negli occhi: “Senti ti va qualche volta di fare due passi al parco qui vicino? Sarebbe bello!” “Certo, quando?” rispose il ragazzo. “Facciamo sabato pomeriggio. Basta che suoni, a qualsiasi ora dopo le tre e mi trovi!” “Va bene, passo sabato dopo le tre. Grazie!” “Allora ci conto, ciao!” B. entrò a casa sua, si buttò nel letto e pensò a quella simpatica ragazza, spontanea, piena di vita e anche molto carina, che nemmeno sapeva come si chiamava. Inoltre avrebbe dovuto suonare al settimo o all'ottavo piano? Poi pensò alle sue cose. I sette esami, il futuro che non c'era. Doveva prendere una decisione entro la serata, quando i genitori sarebbero tornati. Amava troppo il cinema, avrebbe voluto chiudersi in una sala cinematografica e non pensare più alla sua vita. Ma anche se avesse mollato Medicina, cosa avrebbe fatto? Prese due soldi e uscì con l'intenzione di andare verso il centro storico per fare una lunga passeggiata e magari avrebbe trovato una sala, il film giusto. L'ascensore era occupato, mentre dalla porta dei vicini qualcuno stava per uscire. B. sentì sbattere una porta anche al terzo piano. Si trattava di una congiura contro di lui? Lì sotto c'erano i peggiori, quelli che ogni volta, da qualche anno, gli chiedevano addirittura il giorno della discussione della tesi di laurea e dove avrebbe fatto la festa. Non avendo scampo, invece di rientrare in casa, (ci avrebbe impiegato troppo tempo con le chiavi), scappò verso l'alto, al piano superiore. Si buttò a terra sul pianerottolo, ansimando, e rimase coricato con la faccia al soffitto fino a quando non sentì aprire anche una delle due porte del quinto. Salì ancora. L'ascensore segnava sempre rosso. Già non ne poteva più. Lo spavento e quegli scatti improvvisi gli avevano fatto perdere il fiato. B. era un grande camminatore, abituato solo alla pianura. Salì ancora, affannato, per alcuni minuti. Anche se andava piano ed era poco lucido, si accorse che stava continuando a salire, quando in teoria il palazzo sarebbe dovuto finire da un pezzo. L'ascensore ora era libero. Schiacciò il tasto ma la luce rossa non si accese. Salì ancora. Le porte sembravano tutte uguali, in legno scuro, mentre gli zerbini non c'erano più e nemmeno i vasi con le piante. Guardò i nomi dei campanelli e le targhette erano vuote. Così decise di scendere: lo fece per alcuni minuti. Provò ad urlare. Bussò a tutte le porte, “Aiuto!”, mentre le grandi finestre con i vetri opachi nei metà-piani proprio non si aprivano. Svenì prima di poter ricavare una propria conclusione filosofica su se stesso, il genere umano, la vita, l'universo.. “E questo coglione dove cazzo lo hai trovato?” B. aprì gli occhi e vide la faccia del piccoletto, quello che la ragazza chiamava il 'giapponese', ma a parlare non era stato lui. “L'ho trovato addormentato qui davanti alla porta” sussurrò l'uomo. “Dove sono?” chiese il ragazzo, che si trovava in un letto, con la testa appoggiata su un cuscino. “Sei all'inferno caro mio bel ragazzo, all'inferno!” Finalmente, girandosi da una parte vide una donna sulla sedia a rotelle, vestita in modo elegante, tutta di rosa, piena di collane di perle, braccialetti d'oro e altro; portava anche un paio di occhiali da vista con le lenti enormi leggermente scure. Il 'giapponese' era senza cappello ed era completamente pelato. Ora gli sembrava un giovane uomo, riusciva quasi a dargli un'età approssimativa, trentacinque anni, non di più. La donna ne aveva almeno dieci di più. Era una bella signora, bionda e nella stanza, piccola e poco illuminata per via delle tende chiuse, si sentiva solo il suo forte profumo all'arancio. “Io la conosco, lei è la Signora T., la padrona di casa e di questo palazzo!” “Signorina, prego! E poi tu chi sei, l'investigatore Marlowe?” “Magari... sono solo lo studente di Medicina che abita al quarto piano!” “Allora mi dia il libretto universitario, subito!” “Come?” “Questa era una battuta. Quarto piano di cosa, di quale palazzo? Io ne ho almeno cinquanta. Che sta dicendo? Cosa vuole, chi cazzo è questo qua, Johnny?” “Non lo so, deve essere quel ragazzo del quarto piano, di questo palazzo.” “Pagano sempre l'affitto? Con puntualità?” “Sempre, sono tra i migliori. Lui deve essere il figlio, uno che vedo passeggiare sempre solo. Non so altro.” “Beh allora rimettilo in ascensore! Saprà premere un tasto o no?” B. era confuso, fissava la Signorina. “Che cazzo hai da guardarmi! Vuoi che ti portiamo giù in braccio?” Il piccoletto Johnny non sorrise. Sembrava una maschera, sempre impassibile. “Cosa... cosa...?”, disse B. “Cosa... cosa... ti sembro Parmenide? Non capisci quello che dico! E' così complesso? Mio Dio, ma questo è proprio rincoglionito! Portalo sopra e fagli fare un caffè da Teresa o Maria, che io devo andare all'ottavo per la mia proiezione!” Il ragazzo si alzò dal letto. “Aspetti Signorina! Quale proiezione?” “Ti spiego tutto subito perché sono una persona che ama la chiarezza e l'essenzialità: questa non è una casa, ma un luogo dove ci si diverte sempre, perché noi amiamo la bellezza. Sai che cos'è la bellezza, ragazzo?” “Si... per me la bellezza è il cinematografo! Solo quando mi chiudo in una sala buia, solo quando si accende un proiettore che su un telo bianco lo infiamma con le immagini di un film, anche un brutto film, per me è bellezza. Io mi sento libero, io mi sento vero solo in quei momenti. Per me tutto il resto è finzione!” La donna si accese una sigaretta e fece una breve pausa. Poi disse: “Benvenuto all'inferno, amico mio! Fai vedere la casa a questo giovane. Per la proiezione del film di Billy Wilder attenderò in sala: trenta minuti massimo! Fai una cosa veloce, per i dettagli ci sarà tempo. Stasera c'è anche la festa!” Johnny lo accompagnò come se si trattasse di una visita guidata in un museo. E ci volle ben poco perché il giovane comprendesse che era finito in un luogo davvero particolare e affascinante. L'appartamento in cui si trovavano era al sesto piano ed era doppio o meglio unificato: tutto il sesto piano del palazzo era della Signorina. Oltre duecento e quaranta metri quadrati, pensò B., poiché quello in cui abitava con la sua famiglia era circa la metà, centoventi. La stanza dove si era svegliato era molto piccola, con un letto a due piazze, una finestra chiusa e coperta del tutto da una tenda, un armadio alto quasi tre metri, che lambiva il soffitto, di legnaccio scuro e largo non più di un metro e mezzo. Johnny non sembrava proprio una persona che amasse parlare. Più che altro sussurrava, in lingua italiana senza fare errori: aveva un accento neutro, sembrava un robottino. Non si fermava mai sui dettagli. Apriva le porte di ogni stanza: c'erano le stanze degli ospiti, ben cinque, essenziali come quella in cui si era risvegliato, ed erano tutte concentrate in una parte dell'appartamento. Nel corridoio con le pareti bianche, alcuni quadri in cui il soggetto era sempre un paesaggio come una montagna, il mare, un lago, un vulcano, una foresta, le dune di un deserto, si alternavano a piccoli specchi con cornici dorate apparentemente antiche. I vetri degli specchi erano puliti e non sembravano scalfiti dal tempo. Il pavimento era in legno chiaro. Il bagno, in fondo al corridoio, era molto grande: c'era una grande vasca azzurra, la finestra era chiusa, tutto brillava. “Il bagno degli ospiti.” A fianco del bagno il ragazzo scorse la presenza di un vero ascensore interno alla casa. Dall'altra parte c'era la zona della Signorina e delle persone che l'assistevano, ed era privata, esclusiva, una zona inaccessibile, gli spiegò il piccoletto. “Lì non si può andare, chiaro?” Giunsero in un salotto, con poltrone, divani, un televisore molto grande, un tavolino in vetro e una grande finestra con le tende tirate e una porta che conduceva ad un balconcino identico a quello di casa sua. Finalmente un po' di luce, pensò il ragazzo. Una porta bianca presente in quel salotto portava alla zona privata; i due tornarono indietro, attraversando di nuovo il buio corridoio e giunsero di fronte all'ascensore interno. Johnny schiacciò il tasto rosso. B. era incredulo: come era possibile che in un palazzo potesse esserci un ascensore privato? Era anche un po' più spazioso rispetto a quello che usavano lui e gli altri condomini. Non aveva lo specchio interno. Si apriva in modo semplice, senza chiave, tirando verso di sé la porta bianca, identica a tutte le altre della casa. Se non fosse stato per il bottone, che era solo ad un metro dal pavimento, nessuno si sarebbe accorto di quella strana presenza. Entrarono. Era buio. Le pareti erano di legno. C'erano solo due tasti, uno per salire e uno per scendere. Andava lento e faceva meno rumore dell'altro ascensore. Il settimo piano era un altro mondo, praticamente un corpo unico, senza pareti divisorie, (tranne in un punto, dove c'erano le scale e l'ascensore del palazzo). Anche qui le finestre erano coperte da tende rosso porpora. Il pavimento era in legno, le pareti spoglie e completamente bianche. Da una parte c'erano dei tavolini, almeno una decina, rotondi, scuri, forse di marmo, con delle sedie, eleganti, quattro, tre, due per tavolo. Più in là il bancone del bar, con centinaia di bottiglie. Nella stanza oltre il bancone, c'era una cucina in stile moderno italiano anni Sessanta: in quel momento, una donna sulla cinquantina, canuta, con la pelle bianchissima, stava preparando il caffè. Il tavolo a forma rettangolare, aveva dieci sedie. “Ecco signore” disse lei con gentilezza. Aveva un forte accento meridionale, (forse calabrese, come il padre di B.). Versò in una tazzina verde il caffè bollente. “Ho già messo due cucchiaini di zucchero” disse la donna. Johnny lo aspettava seduto, mentre dalla tasca tirò fuori una minuscola agenda e la scrutò per qualche momento. B. lo bevve in piedi. Poi tornarono indietro. Nello spazio di fronte ai tavolini c'era un grande vuoto, come se si trattasse di una pista da ballo. In fondo, in un angolo, un pianoforte a coda, nero. Altri strumenti erano appoggiati, ma chiusi dentro le rispettive custodie. Oramai non aveva più dubbi, si trovava in un piccolo locale dove si suonava dal vivo e si poteva bere, ballare e anche appartarsi in una zona poco illuminata, su degli enormi cuscini-divani a forma di labbra, cinque in tutto. C'era anche un piccolo bagno. Presero l'ascensore per l'ottavo piano, il terzo appartamento. Ed era lì che la Signorina li attendeva. Intanto il giovane stava per svenire nuovamente, nonostante tutto quello che aveva visto fino a quel momento fosse già da capogiro, così assurdo e tremendamente eccitante, la vista da lì a pochi momenti di una sala cinematografica, seppur per poche decine di spettatori, non gli poteva sembrare vero. Nell'ingresso appena fuori dall'ascensore, attaccate alle pareti, c'erano delle locandine grandi come quelle dei cinema, di film importanti come Gilda, La febbre dell'oro, entrambi in lingua italiana e Ladri di biciclette, stranamente in lingua inglese. E ancora, di dimensioni ridotte, locandine in lingua francese, La grande illusion di Renoir e, un po' sorprendentemente, A bout a souffle, del giovane regista Godard, un film mitico secondo B. Sempre nel piccolo ingresso, c'erano centinaia di libri sulla storia del cinema. Prima di entrare nella sala cinematografica, B. fissò per un attimo quei libri; ne aveva già riconosciuto qualcuno che possedeva lui stesso, quelli nascosti sotto il suo letto, dentro quello scatolone. “I veri libri sono sotto, nell'area inaccessibile della Signorina, in una stanza dove lei qualche volta si ritira per riflettere e studiare. Ma è una donna generosa, e qualche volta se le chiedo un libro che vorrei leggere nella mia stanza o in salotto, dopo poco tempo ecco che lei me lo porta.” B. sentiva l'odore del proiettore. “Dentro, venite..!” urlava la donna. Superate la tende purpuree a spacco, entrarono nella sala, larga almeno cinquanta metri quadri, con tre file da cinque posti per ciascun fila. Lo schermo bianco era due metri in lunghezza e quattro o cinque in larghezza, e non poteva essere altrimenti, poiché si trattava di una stanza da appartamento adattata a cinema e che l'altezza del soffitto non superava i tre metri. La sala era interamente tappezzata di marrone scuro. In fondo c'era una piccola cabina per il proiettore e il proiezionista, rialzata di mezzo metro. “Qui posso fumare solo io!” disse la Signorina in prima fila, messa al fianco della quinta sedia, parlando loro di spalle. Le luci erano accese, ma molto deboli. “In questo piano è proibito fumare, le pellicole sedici millimetri sono come benzina!” ribadì la donna. “Certo, lo so...l'ho letto su molti manuali” rispose il ragazzo. “Allora che ne pensi? Lo sai che ho migliaia di copie. Basta che alzo il telefono e in mezza giornata posso farmi arrivare il film che voglio!” B. si era finalmente accorto che la donna aveva un leggero accento francese, anche se il suo italiano era limpido, senza errori. “E' incredibile! Sono senza parole! Che film di Wilder stavate per proiettare?” “Non lo so, ero indecisa tra Irma la dolce e L'appartamento. Ieri ho rivisto Giorni perduti, buon film! Ho pianto tanto.” “Mi scusi Signorina, lei è francese?” “E a te che cazzo te ne frega stronzo!” B. rimase di sasso, pensava che la donna avesse superato quell'aggressività dei primi minuti. “Mi scusi, non sono affari miei!” Intervenne il piccoletto, sempre sussurrando: “La Signorina non ama parlare di sé, del suo passato, delle cose che riguardano il tempo. In questa casa esiste solo l'attimo, quello che avviene o è avvenuto al di fuori non ha alcuna importanza, anzi direi che non esiste proprio nulla oltre queste mura. Qui abbiamo tutto ciò che occorre per essere felici e...” “Lascia perdere, se ne renderà conto molto presto. Comunque sono nata e cresciuta a Parigi: padre francese e madre italiana. Fine della storia. Sbrighiamoci. La festa si avvicina. A te la scelta del film.” “John Huston!” disse lui con entusiasmo. “John Huston cosa?” rispose lei. “E' un grande regista, ma ho visto solo una volta Giungla d'asfalto e Sterling Hayden è uno dei miei attori preferiti. Vorrei rivederlo” “Segna, per il pomeriggio di domani, sarai accontentato. Te l'ho detto, puoi vedere tutti i film della storia del cinema. Io ti faccio portare qui in due giorni pure le pizze dall'Indonesia o un cortometraggio di un regista dell'Isola di Pasqua. Ti porto pure lui in persona a presentarlo! Ed ora basta! Decido io il film, stiamo perdendo tempo: L'appartamento.. vai Johnny..!” Uno dei film più riusciti di Wilder, pensò B., che intanto si sedette in terza fila. “Vai Johnny..vai..uuuuh” continuava ad urlare la signorina con furiosa gioia. Il film cominciò. Il piccoletto sembrava esperto; forse era lì per quello, faceva il proiezionista? Prendeva le pellicole sedici millimetri da un loro magazzino e le portava alla Signorina? Un proiezionista-assistente personale, un tuttofare della donna? L'audio era buono: le due casse fissate in alto, le immagini a fuoco, in certi momenti un po' sgranate, quel rumore delle bobine che giravano nei due rulli, le comode poltrone blu imbottite, l'odore del cinematografo era sempre lo stesso. Mancavano le persone, ma raramente B. capitava in serate piene di spettatori, anzi, a volte preferiva la sala silenziosa dello spettacolo pomeridiano, senza dover fare la coda per il biglietto. Per lui il cinematografo era un luogo di riflessione, in cui entrava con la speranza di trovare il suono profondo della propria anima; ma era anche una forma di intrattenimento puro, il più lontano possibile dalla vita reale. “Bellissimo!” urlò. Finito il film la donna era commossa. Si accesero le luci, e voltandosi guardò B. “Allora ragazzo, che dici?” “Non saprei, sono ancora molto preso dall'interpretazione di Jack Lemmon!” “Preso? Parli di emozioni? Ma noi dobbiamo fare un dibattito serio, altrimenti che senso ha guardare un film così..?” “Ma quale dibattito? Io detesto i dibattiti!” “Ah..ah.. Ma ti sto prendendo in giro! Dibattito? Ah..ah.. neanche fossimo in quindici, qui dentro, in questa mia casa non ci sarà mai nessun dibattito! Su, ora vai a farti bello per la festa..” Poi aggiunse rivolgendosi al piccoletto: “Io devo fare alcune telefonate. Scendo prima io, a dopo!” Poco più tardi Johnny lo accompagnò nella piccola camera dove era rinvenuto poche ore prima. Gli spiegò che doveva lavarsi e poi avrebbe dovuto pensare ai vestiti, poiché quelli che aveva indosso non andavano bene: jeans, maglione a righe, scarpe da ginnastica, giacchetta nera... Oramai era giunta la sera e B. non aveva alcuna intenzione di uscire da quella casa, almeno per il momento. Fuori lo attendevano solo cose brutte, grandi responsabilità che in quel momento lui non avrebbe saputo affrontare. Si coricò. Le coperte del letto erano di lana morbida. Non gli venne neanche la voglia di aprire le tende e vedere fuori dalla finestra. Pensò ai suoi genitori, sicuramente preoccupati per il suo ritardo, però aveva deciso che sarebbe rimasto lì. I suoi pensieri vennero subito interrotti da una signora molto grassa, con gli occhiali spessi e i capelli bianchi molto corti. “Devo misurare.. per i vestiti!” disse lei, aggiungendo: “Desidera qualche cosa in particolare?” “No!” rispose lui. “Si può spogliare?” “Come?” “Può farmi vedere che mutande porta. E le calze e la canottiera?” B. non fece opposizione, in fondo non era nemmeno tra le cose più strane avvenute fino a quel momento. La donna, evidentemente una sarta, gli misurò quasi ogni parte del corpo. Subito dopo il giovane andò a fare una doccia calda: lei gli aveva lasciato un accappatoio color verde smeraldo. Non sapeva bene quanto tempo fosse rimasto in quel confortevole bagno, ma quando tornò nella sua stanza, trovò l'armadio pieno di vestiti particolarmente 'eleganti' e un foglio in cui veniva spiegato come indossarli. I suoi abiti, invece, erano scomparsi, tranne il portafoglio che era rimasto appoggiato sul cuscino del letto. A parte duemila lire, mancavano la carta d'identità, la tessera della biblioteca, un piccolo ritratto del suo gatto, che B. aveva fatto a matita circa un anno prima. “Li avrò lasciati a casa? Possibile? O li avrà presi la sarta?” pensò. Non sapeva che ore fossero quando il citofono del sesto piano cominciò a suonare senza sosta, e poi il campanello della porta, la gente che entrava in casa, giubilante, le risate, gli idiomi che si mischiavano, il francese, l'inglese, lo spagnolo, ma anche l'italiano con i vari accenti, soprattutto il romano, mentre B. stava chiuso in quella che era la sua stanza provvisoria, in piedi, con l'orecchio teso alla porta, impaurito da tanta confusione, irrigidito da quei vestiti 'eleganti' che mai aveva portato in vita sua. Guardò l'armadio con un certo disprezzo perché gli sembravano più dei costumi di scena per un ruolo di aristocratico decaduto, e ciò che aveva indosso era una marsina giallognola che arrivava alle ginocchia, un lungo gilè rosso e braghe corte, roba che forse aveva visto in un film sulla Reggia di Versailles? B. portava anche delle scarpe marroni con il tacco rosso. In testa aveva una parrucca di lana. Era una festa in maschera? O la Signorina teneva alle sue presunte origini di aristocratica francese e tutti gli ospiti ne erano rappresentanti? Si sarebbe dovuto vestire con gli altri abiti presenti in quell'armadio anche per andare a vedere il film scelto per il pomeriggio? E dopo, se fosse rimasto ancora un po', come avrebbe potuto vivere nel quotidiano con tanta scomodità? La nuova biancheria intima, mutande e canottiera, erano gli unici indumenti legati al suo tempo. Prese coraggio e uscì dalla stanza. Il corridoio era un tunnel nebbioso senza alcuna presenza umana, ma all'ingresso una folla stava aspettando l'ascensore fumando sigarette e sigari, mentre una donna ritirava le loro giacche. La prima cosa che notò in questo gruppetto era che nessuno vestiva come lui e questo fu un sollievo. Inoltre erano quasi tutti abbastanza giovani, sulla trentina o poco più; B. conosceva un po' il francese e meglio l'inglese che aveva imparato guardando i film in lingua originale, con i sottotitoli, in un cinemino ai piedi delle colline, vicino al centro storico della città. “Ah ah ah, ma guarda questo qua!” disse uno biondo, probabilmente romano, vestito con camicia hawaiana (o californiana?) rossa. B. si avvicinò a loro, tutti vestiti in maniera estiva, comprese due donne, una con gli occhiali da sole. “Prego Re Luigi!” disse il biondo, ora composto. “Grazie” rispose B. con distacco ed entrò nell'ascensore, da solo. Salì al piano superiore. In pochi attimi capì di essere finito alla festa sbagliata e che la Signorina lo aveva preso in giro. Si udivano da sopra famose melodie di canzoni americane, probabilmente dei Beach Boys; la gente urlava, sembrava già eccitata dall'alcool e da altro. B. decise comunque di reggere il gioco al proprio personaggio, e di rimanere serio il più a lungo possibile. Al suo arrivo al piano risero tutti. Qualcuno applaudì. B. passò in mezzo ad una cinquantina di persone; si stava molto stretti, c'era chi urlava “Whisky! Whisky!”. La Signorina stava vicino al pianoforte, muovendo a tempo la testa. Era vestita con un abito da sera nero. Il piccoletto non si vedeva. Sembrava una festa vicina alla moda 'surfers', ma erano presenti anche personaggi vestiti con giacca e cravatta: uno di questi, molto vecchio, ballava strusciandosi sul corpo di una bella giovane. “Grande...grande, yeah...!” urlò a B., che intanto si dirigeva al bancone in cui venivano serviti whisky, cocktail, vino, birra e altro da una bella ragazza che parlava solo in inglese. Ordinò in lingua inglese un jack daniel's senza ghiaccio, ma la ragazza, forse distratta dall'abbigliamento di B., mise dentro tre o quattro cubetti di ghiaccio, e rise. E' incredibile, pensò, poche ore prima questo luogo era solo una grande stanza completamente vuota ed ora.. ma tu guarda..! Si appoggiò al bancone. Dall'altra parte la Signorina si voltò per un attimo e gli fece l'occhiolino, o almeno così gli parve, poiché a dividerli c'erano troppe persone (inoltre lei aveva quegli occhiali abbastanza scuri). All'improvviso un uomo di colore estrasse il suo sax, e accompagnato dal pianista, suonò per ore una musica bellissima che B. non aveva mai udito in vita sua. C'era sempre più gente e confusione: Fellini non avrebbe potuto immaginare di meglio. Il quarto jack gli fece perdere la sua timidezza, baciò in bocca molte donne, forse anche qualche uomo, e alla fine si ritrovò a letto con la barista e una sua amica di nemmeno vent'anni, che la ospitava a Milano. La barista diceva di essere del Montana, U.S.A.! Quella notte B. aveva conosciuto almeno un centinaio di persone, ma non si ricordava nemmeno un nome o un dialogo o un volto. Si svegliò nudo tra le braccia delle due sconosciute quando qualcuno bussò alla sua porta: era il piccoletto Johnny che gli ricordava la proiezione del film di Huston. “Tra dieci minuti si inizia. Sarai solo in sala. Fai presto che poi ho altri impegni!” “Certo. Grazie!” rispose. Non aveva fame perché per tutta la notte aveva mangiato parecchi stuzzichini, soprattutto quelli con il salmone affumicato. Nell'armadio ritrovò i suoi vestiti, le scarpe da ginnastica e il suo documento d'identità, la tessera della biblioteca, il ritratto del suo gatto. Degli abiti da aristocratico nessuna traccia. Si rivestì. Uscì dalla camera. Nel corridoio tutte le altre stanze sembravano occupate, e in una qualcuno russava. Provò ad andare in bagno, ma era chiuso a chiave. Salì fino all'ultimo piano e per prima cosa andò in quello dell'ottavo piano, al quale però mancava lo specchio. Terminate le sue cose, si sedette al centro della vuota sala, e il film cominciò immediatamente. Era ancora assonnato, non aveva mai visto una pellicola in un cinema dopo una sbronza e con il mal di testa. (Era stata anche la prima volta con due donne contemporaneamente). Fu comunque un dolore emozionante vedere quell'omaccione di Sterling Hayden stramazzare a terra nel luogo in cui era cresciuto, morire nell'erba, tra i suoi cavalli. Per questo personaggio B. non aveva mai inventato una vita felice, e nemmeno per il 'dottore', interpretato da Sam Jaffe, il quale, ad un passo dalla libertà, viene arrestato, perché rimane a guardare una ragazza che balla al ju-box. Non sempre il giovane riusciva a fantasticare su un'altra possibile esistenza dei personaggi che vedeva sullo schermo: alcuni gli sembravano perfetti così come erano, chiusi nella loro grandezza, inaccessibili alla sua fantasia, senza un prima e senza un dopo, e scrivere sarebbe stato inutile. Quando si accesero le luci, il giovane si accorse che il piccoletto era stato sostituito da un uomo sulla trentina, con i capelli neri corti, i baffi, la pelle scura, la camicia bianca fuori dai pantaloni. “Buongiorno signore, io sono il proiezionista, mi chiamo Mike.” “Buongiorno Mike, io sono B.!” “Lo so, vuoi vedere altro signore? Quando vuoi vedere altro, devi scrivere su questo foglio il titolo e in poco tempo troverò il film.” “Grazie Mike!” e B. scrisse senza pensarci una decina di titoli, tra cui un film di Dreyer, Ordet, che purtroppo non aveva mai visto, mentre gli altri film li conosceva bene, ma avrebbe voluto rivederli all'istante. Il proiezionista poteva essere sudamericano. B. spinto ancora una volta dalla curiosità gli chiese: “Scusa Mike, di dove sei?” “Di questa casa” rispose, poi aggiunse: “Bene li abbiamo tutti i film, due sono qui. Vuoi vedere?” “Sì” Rimase in quella sala per svariate settimane o forse per mesi, vedendo solo film. Ogni tanto parlava con Mike, ma di cose pragmatiche, non facevano mai discorsi che finissero sul personale e nemmeno discussioni sulle pellicole. L'uomo era anche molto geloso del suo proiettore sedici millimetri, non amava che lo spettatore B. si avvicinasse ad esso o che chiedesse dettagli tecnici sul suo funzionamento. Al ragazzo, comunque, interessavano i film, e ne guardò molti: film con Marlon Brando e con James Dean, i film di Bergman degli anni Cinquanta, tra cui Un'estate d'amore, le comiche mute di Charlot, un film con Totò e alcuni con Alberto Sordi, almeno dieci film con Bogart, e poi Il carretto fantasma, tre film di Murnau, tre film con Greta Garbo e altri film classici di Hollywood, Come foglie al vento, i musical, alcuni film di film di John Ford, Kurosawa e un film di Ozu, e tanti altri, francesi, soprattutto Renè Clair, Godard e Jacques Tati, film russi, film inglesi, film messicani, film spagnoli, insomma, passava da un film all'altro, da un genere ad un autore sempre diverso. Scoprì che gliene mancavano ancora molti e così la sua fame di cinema aumentava. Dopo la sesta proiezione consecutiva si addormentava sulle comode poltroncine. Il bagno era a pochi passi: Mike aveva provveduto a tutto, spazzolino, asciugamani, vestiti di ricambio e soprattutto gli portava il cibo su un vassoio ogni tre visioni. Avrebbe potuto vivere così per sempre, dentro quella sala buia, senza conoscere più la differenza tra la notte e il giorno. E così stava già accadendo. L'unica interferenza era ciò che appariva dallo spioncino della porta chiusa a chiave di quell'ottavo piano. (E mai più aperta). “Fermo signore dove vai?” gli ripeteva per l'ennesima volta Mike, ma lui guardava la ragazza che aveva conosciuto durante il suo ultimo giorno nel mondo reale. “Niente!” rispondeva. Se aveva oramai dimenticato la sua famiglia, i suoi studi in medicina, gli ex compagni di scuola, le strade della città, la ragazza senza nome gli era rimasta dentro come un cortometraggio proiettato continuamente nella sua testa e con continue varianti, ma sempre con lo stesso finale: “Allora a Sabato pomeriggio!” Inoltre lei abitava proprio lì, solo una porta chiusa, un pianerottolo, e un'altra porta li divideva. Ma riuscire a vederla fu un caso e anche una grande fatica. Durante le pause in cui non venivano proiettati film, Mike viveva al sesto piano, e B., sapendo che era giorno (poteva aprire le tende, ma il balcone era inaccessibile, la porticina era chiusa con un grande lucchetto e inoltre non c'erano orologi), aspettava che lei uscisse dall'ascensore o dalla porta di casa. Una volta aveva visto il padre e due volte la madre (e anche la custode che lavava le scale e il pianerottolo), infine lei, senza più quella sciarpa rossa, ma con i pantaloni lunghi e una felpa sportiva a volte blu: portava sempre i capelli a caschetto e quel fermaglio a forma di farfalla. Una volta era pure inciampata uscendo dall'ascensore, facendo sorridere lo spione. Quanto era graziosa.. B. teneva nella tasca destra dei jeans, quella foglia che lei gli aveva tolto dai capelli. La foglia stranamente non era secca, e il suo verde scuro era lo stesso di qualche mese prima. Verso la fine della primavera, il ragazzo non era ancora uscito da quella saletta cinematografica. Si era anche dimenticato della Signorina e del piccoletto. L'unico suo contatto con gli esseri umani rimaneva Mike, che continuava a fargli da proiezionista e da cameriere. Poi, un bel giorno, durante la proiezione di un film di Marcel Carnè, Les enfants du paradis (versione senza tagli e in lingua originale), una volta accese le luci della saletta, si ritrovò dietro di sè la Signorina T., con le lacrime agli occhi e Johnny, impassibile, seduto nell'ultima fila, con le mani affondate nelle tasche della giacca nera. “Quando Mike mi ha detto che avevi scelto questo film, sono venuta quì!” “Buongiorno, buonasera..!” disse lui alzandosi in piedi. “Buonanotte! Seduto! Non interrompere la Signorina!” disse il piccoletto. “Dicevo.. è uno dei miei film preferiti! Non dovrei vederlo, perché mi fa star male!” Si avvicinò a lui, mentre Johnny rimase seduto in fondo. Si asciugò le lacrime con un foulard bianco, e dopo un colpo di tosse, la sua voce tornò normale. “Noi dobbiamo parlare, amico mio!” Aveva un profumo molto forte e un altro foulard, azzurro, attorno al collo. Il rossetto le lambiva quasi le narici del naso. Era sempre difficile capire se la donna lo guardasse negli occhi, per via di quegli occhialoni con le lenti un po' scure. “Intanto è inutile chiederti come va? Credo tu stia bene, anzi non ho dubbi, ne sono sicura..” “Si sono felice, è il momento più bello della mia vita, è sempre ciò che ho sognato!” “Bene! E allora cosa hai da guardare dalla porta?” “Quale porta?” D'impeto la donna lo prese dalla camicia, strattonandolo, poi gli tirò alcuni schiaffi in faccia. Il ragazzo non reagì. “Quale porta? Quale porta? Hai fatto tanto per rimanere qui, noi facciamo dei sacrifici per mantenere i tuoi sogni ed ora tu vuoi andartene via?” “No, voglio rimanere qui per sempre! Non voglio andare da nessuna parte! Si..è vero..è vero.. ogni tanto ho guardato quella ragazza che abita accanto. L'ho conosciuta un po' di tempo fa, ma non volevo aprire la porta, mai l'avrei fatto, a me interessa vivere qui!” La donna appoggiò le spalle contro lo schienale della sedia a rotelle. “Ti credo, ti credo! E' stato un momento di debolezza! D'altronde sei giovane! E comunque la porta è sigillata! Ora però è arrivato il momento di darti una grande notizia: presto tutto il palazzo sarà a nostra disposizione!” La prima cosa che B. pensò non fu quella di chiedere dei suoi genitori, la loro reazione dopo la sua scomparsa, come stavano e dove sarebbero andati a vivere. La loro esistenza non gli importava più e nemmeno la sua: gli interessava solo la ragazza. Non l'avrebbe più rivista e in quel momento sentì i brividi in ogni parte del suo corpo. “Beh.. non sei contento? A cosa stai pensando? I tuoi genitori stanno bene, tranquillo! La polizia ti ha cercato, ma Johnny è un genio, ha sistemato tutto: non sei morto, perché vivi alle Hawaii! Hai capito? Sei fuggito lì per amore, un colpo di fulmine e via.. e in Europa non vuoi tornare. L'hanno bevuta tutti, i tuoi, la polizia.. Le indagini sono chiuse da tempo. Ogni tanto gli scrivi delle belle lettere rassicuranti, prometti che magari un giorno chissà.. tornerai, ma per ora no! Perché stai bene lì, in quella meravigliosa isola. D'altronde è vero che stai bene, no?” “Si, molto! Grazie!” “In questo periodo ti sei perso un sacco di feste, peccato, mi dispiace! Comunque tra pochi mesi cominceranno i lavori ed entro due anni avremo otto piani tutti per noi” “E il cinema?” “Il cinema rimarrà all'ottavo, lo ingrandiremo. Ho molti amici che mi hanno chiesto perché non proiettavo più film e ho deciso che così sarà. Nessuno a parte te, me, Johnny e Mike, o altri addetti della casa potranno salire quassù. Ma per questo dobbiamo fare un patto!” “Sono pronto a tutto!” La donna gli tirò uno schiaffo, meno forte, quasi un buffetto. Poi gli fece l'occhiolino e se ne andò. “Preparati, domani c'è una grande festa rock'n'roll. Tutti i pezzi del '57..Uhhh!” gli urlò da lontano. A quel punto si alzò Johnny che gli spiegò, come sempre a bassa voce, alcune regole. Per circa due anni avrebbe dovuto vivere in una stanzetta del sesto piano. Gli avrebbero aggiunto un tavolino per le sue letture sul cinema e un proiettore otto millimetri facile da usare per la proiezione di qualche film. Inoltre ci sarebbe stato il televisore nel salotto. Una volta terminati i lavori, sarebbe tornato al nuovo piano del cinema, e avrebbe dormito in una stanza fatta apposta per lui. Ma sui lavori della casa non aggiunse molto altro. Le feste sarebbero continuate ancora per qualche mese, poi averebbero ristrutturato anche il settimo: B. poteva parteciparvi, ma solo ad alcune condizioni, e la prima era di natura scenica. La Signorina amava stupire: introducendo un elemento estraniante che non c'entrasse nulla con il tipo di festa, il ragazzo si sarebbe dovuto vestire una volta da Napoleone, una volta da Giulio Cesare, da Casanova, da Cavour e altri ancora, cercando di recitare la parte il meglio possibile, almeno per una notte. Anche a letto con le ragazze, perché dopo le feste tutti in un modo o nell'altro ci finivano, avrebbe dovuto fare sesso non alla B., ma come Napoleone, come Casanova, come Cavour.. Inoltre il mascheramento serviva per non essere riconosciuto; mai avrebbe dovuto parlare di sè. Gli era vietato uscire dal palazzo, e sul balcone ci poteva stare solo se avesse messo una maschera. Non poteva usare il telefono, e in caso di malore avevano a disposizione alcuni medici personali. Se si fosse ammalato in modo grave, pazienza, in ospedale non avrebbero potuto portarlo e sarebbe morto lì, in casa, e amen. “Infine se un giorno tenterai di scappare da qui, dovrò ucciderti!” aggiunse Johnny. “Uccidermi?” “Si, ma non preoccuparti. Sono sicuro che vivrai più che bene da noi, quindi ti diamo ufficialmente il benvenuto!” Gli tese la mano, poi lo abbracciò, senza sorridere, infine si allontanò. B. rimase spiazzato più dal gesto di affetto, che dalle tante novità. Lo richiamò più volte, “Johnny.. Johnny!” quando l'uomo era oramai davanti all'ascensore. Allora B. gli andò dietro. “Johnny! Senti, una cosa però devo proprio chiedertela!” “Dimmi” “Ma tu sei per caso giapponese?” “E a te che cazzo te ne frega, stronzo!” entrò in ascensore, sbattendo forte la porta, e scese giù ai piani inferiori. FINE PRIMO TEMPO

1 commento:

  1. Sebbene questo racconto sia presente in un libro del 2011 su ilmiolibro.it, é in una versione assolutamente scorretta.

    RispondiElimina